Le linee guida aggiornate con gli indici per misurare a che punto sono le nostre aziende e quali azioni è meglio mettere in campo. Il metodo più efficace? Un impegno strategico e che viene «dall’alto». Aumentano del 30% le imprese aderenti al network onusiano nel nostro Paese
È ancora molto lunga la strada verso la parità di genere in Italia: il nostro Paese si attesta all’ultimo posto in Europa per equità di genere sul lavoro, secondo quanto emerge dal Gender Equality Index 2024, il report redatto annualmente dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere, che monitora la gender equity in quattro dimensioni: istruzione, salute, partecipazione alla vita politica e occupazione. Per fornire uno strumento alle aziende che desiderano intraprendere azioni a tutela della diversità e dell’inclusione, il network italiano del Global Compact ha redatto un report intitolato Come monitorare e misurare la Diversity, Equity & Inclusion, che include metodi di misurazione e strategie da adottare.
I soggetti coinvolti
La rete di aziende del Global Compact nell’ultimo anno è aumentata del 30%: le imprese italiane aderenti salgono così a 628 (di cui il 47% grandi aziende e il 53% Pmi, un dato sempre più bilanciato). Tra i nuovi ingressi dell’anno appena concluso ci sono Chiesi Farmaceutici, Coesia, Davide Campari Milano, DLA Piper Italy, De’ Longhi, Edizione, Esprinet, Iccrea Banca, Italia Trasporto Aereo, SICIM e TESYA. Tra di loro, e tra la totalità delle aziende della rete onusiana, l’interesse per migliorare le rispettive pratiche di inclusività è crescente.
Ecco perché diventa importante il nuovo report, nato all’interno dell’Osservatorio D&I e che si è avvalso di un confronto con 25 aziende aderenti, che hanno condiviso sia le loro best practice che gli ambiti di miglioramento. Dal confronto è emersa la necessità di «misurare» lo stato dell’arte delle aziende, ma valori intangibili come l’inclusione e la diversità non sono facili da scomporre in metriche rilevabili. «Abbiamo attinto a diverse fonti, come le norme dell’Ente nazionale italiano di unificazione e gli ultimi standard europei di sostenibilità — spiega Daniela Bernacchi, executive director di Ungcn Italia —. E abbiamo lavorato al fianco dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che si occupa sia di quadri regolatori che della loro messa in pratica. Questo perché la misurazione dei valori di diversity e inclusion dà solo una fotografia della realtà dell’azienda: ha valore se c’è una strategia chiara, con un piano d’azione che tiene conto delle criticità ed è funzionale al miglioramento futuro. Un’azienda che inizia oggi un percorso da zero può elaborare un piano che abbia una prospettiva almeno triennale». E per farlo ci sono diversi strumenti: corsi di formazione, questionari per i dipendenti, consulenti esterni. Ma la necessità del cambiamento deve essere «sentita» a tutti i livelli della gerarchia aziendale, specialmente quelli più alti: «un percorso che tutela la diversità e l’inclusione, avendo spesso a che fare con un cambiamento nella cultura aziendale, necessita di tempi più lunghi e funziona se a impegnarsi sono le figure più importanti nell’azienda, come gli amministratori delegati, cioè le persone che per ruolo, emulazione e leadership determinano maggiormente la cultura interna».
Cosa possono fare le imprese
Secondo il gruppo di lavoro, pratiche di inclusione sono necessarie sia nelle prime fasi di un percorso lavorativo, che durante tutta la carriera. Da un lato infatti è necessario garantire colloqui d’assunzione equi, non influenzati da caratteristiche del candidato (come genere o razza) che non inficiano le sue competenze, dall’altro bisogna monitorare che tale equità sia rispettata durante tutta la carriera. Per questo particolare attenzione va data alla tutela dei dati sensibili del lavoratore: investire sulla sicurezza informatica vuol dire garantire la privacy di dati che possono dare adito a atti discriminatori.
A volte però non basta l’impegno delle aziende: «spesso le imprese si trovano di fronte a problematiche oggettive — spiega Bernacchi —, come la mancanza di figure femminili sul mercato già formate o di competenze interne per poter iniziare un percorso che tutela l’inclusività nell’azienda. Per le grandi imprese è più facile perché hanno disponibilità di mezzi, più possibilità di dedicarsi a consulenti e talvolta un’area interna dedicata. Ma se ci fossero più grandi aziende che coinvolgono le supply chain in questi percorsi, come fanno con la sostenibilità ambientale, il cambiamento sarebbe accelerato anche nelle Pmi. Il coinvolgimento delle catene di fornitura nelle pratiche di inclusività sarebbe un fattore critico di successo e anche di competitività».
Un obiettivo non così lontano, se si pensa che «all’interno del nostro network continua a crescere anche la diversificazione settoriale degli aderenti, a conferma di un impegno trasversale che coinvolge comparti chiave dell’economia italiana -conclude Bernacchi-. La sostenibilità non è più un tema riservato a pochi pionieri, ma una leva strategica per lo sviluppo responsabile di tutti i settori produttivi».
12 febbraio 2025
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