Il giornalista Luca Maurelli, autore di «Anatomia di un’ingiustizia», a Stylo24: «Nemmeno tre gradi di giudizio sono sempre una garanzia»
La giustizia italiana è sempre una giustizia giusta? Si riesce, dopo i 3 gradi di giudizio, a stabilire con certezza l’assoluta l’innocenza o la colpevolezza di un individuo? Si riesce a stabilire dove risieda la verità? Non sempre, in taluni casi il sistema penale italiano si rivela sbagliato. Fallace. E lo si evince anche dal caso dell’ex ministro Mario Landolfi, finito nel tritacarne mediatico e giudiziario per delle accuse rivelatesi infondate.
Accuse pesanti, enormi, ma che hanno prodotto solo una sentenza «topolino». Così la definisce il giornalista Luca Maurelli che per Guida Editori ha scritto il libro «Anatomia di un’ingiustizia – Il processo a Mario Landolfi» che è attualmente in tutte le librerie.
La genesi del libro
Maurelli è stato autore di diversi volumi, ha scritto di tematiche sociali, di droga, di alcolismo ma questo, ha spiegato, è un lavoro diverso. «L’ho scritto non per un interesse particolare nei confronti di un argomento o per degli obiettivi sociali, come invece è capitato per altri libri che ho fatto» racconta l’autore a Stylo24. «In passato ho raccontato – aggiunge – anche storie di persone sconosciute vittime di comportamenti altrui o di indagini non svolte in modo corretto, ma che soprattutto mi consentivano di affrontare alcuni temi che consideravo di interesse pubblico. In questo caso, invece, io parlo di una persona che è stata un potente politico, che finisce mortificato nel suo privato, nella sua coscienza personale, prima ancora che nella sua veste pubblica».
«La decisione di scriverlo è nata dopo aver assistito a una conferenza in cui lui si difendeva, a sentenza già definitiva. Gli ho chiesto le carte, le ho lette e mi sono convinto di tutta una serie di paradossi e della fragilità dell’intero impianto accusatorio, che nasce in maniera abnorme con accuse di favoreggiamento ai clan camorristi che poi diventa una piccola sentenza su un episodio di corruzione, un’assunzione di una persona in una società».
«Ho deciso di scrivere perché mi sono convinto che l’amico e collega al “Secolo”, Mario Landolfi, sia innocente e vittima di un’ingiustizia. Se non ne fossi stato convinto, non avrei mai preso questa iniziativa, così come non avrei difeso nemmeno mia sorella o mio padre se avessi ritenuto fondate delle accuse nei loro confronti, perché la fiducia nella magistratura è massima, ma solo fino a prova contraria, come nel caso di Landolfi. Per me è importante chiarire che questo libro non è né una “marchetta” né un favore a un amico o a un collega, quello non è un genere che amo nel mio lavoro», tiene a sottolineare.
Un vaso di coccio
«Ho sentito la necessità di raccontare una vita “distrutta”. Questa volta, però, non si tratta di una persona sconosciuta, ma di un potente, che ha esercitato un ruolo politico in modo corretto in un territorio difficile come quello dei casalesi, portando avanti un’attività anticamorra. Alla fine, però, diventa un vaso di coccio e perde tutto. Per altro, nel corso del procedimento, ha rinunciato alla prescrizione. Avrebbe potuto uscire dal processo quando era ancora accusato di favoreggiamento alla camorra, chiudendo la vicenda senza conseguenze. Invece, ha scelto di proseguire per dimostrare fino in fondo la propria innocenza».
«Purtroppo non ci è riuscito, nonostante tre testimonianze pesanti, che hanno smantellato la suggestione della vicinanza alla camorra, quella del giudice anti-Casalesi Raffaele Cantone, dell’attuale sottosegretario Alfredo Mantovano e del boss Augusto La Torre, compagno di giochi d’infanzia del politico ma pronto ad affermare, in tribunale, l’assoluta divaricazione tra le strade percorse dai due. Resta il fatto non banale che un politico non abbia approfittato di ciò che il sistema offre per sanare i propri errori, la prescrizione. Perché? Agli avvocati che gli hanno posto con angoscia e rimprovero questa domanda, ha risposto: perché io dovevo affermare l’onestà non del Landolfi cittadino, ma di quello pubblico, del politico a cui in tanti negli anni hanno dato fiducia e voti…».
Il caso di Mario Landolfi è emblematico ma non è l’unico. «Non è un caso isolato ma non sono molti i politici che hanno compiuto il beau geste, come si sarebbe detto una volta, di rinunciare alla prescrizione, di far pubblicare le intercettazioni. Tuttavia, sono molti quelli che hanno subito ingiustizie, anche perché purtroppo la magistratura, pur non considerandoli nemici, li giudica spesso in base al contesto storico-politico in cui si svolgono i processi».
Una storia che si ripete
Una storia che viene da lontano e che purtroppo, spesso, si ripete ancora. «Negli anni 2000, in piena era berlusconiana, il conflitto tra politica e magistratura era acceso, così come oggi si ripropone con il governo Meloni. La cosiddetta magistratura militante, le “toghe rosse”, vedeva i politici di destra come avversari da contrastare, e la storia ha dimostrato come questi venissero spesso dipinti come nemici del popolo e della giustizia».
«In quel periodo, Mario Landolfi era Ministro e Presidente della Commissione di Vigilanza della Rai in un Paese diviso tra berlusconiani e anti-berlusconiani. Molti giudici erano in trincea, cercando motivi per inquisire e dare la cosiddetta “spallata giudiziaria” ai governi di centrodestra. In alcuni casi ci riuscirono, trovando anche prove, perché nessuno è perfetto: se si scava tra i politici qualcosa a volte si può trovare ma con tutti, anche con loro, la giustizia dovrebbe procedere con la massima prudenza. Il garantismo, come la giustizia, deve essere uguale per tutti».
La sentenza «topolino»
Però «Mario Landolfi, invece, è vittima di un processo parallelo a quello che fu fatto a Nicola Cosentino, che si basava su un impianto accusatorio ben più solido. Il suo era un processino, nato sull’onda dell’assalto giudiziario a tutto ciò che ruotava attorno a Berlusconi. Nel tempo, Cosentino è stato condannato e i riflettori si sono spenti sul processo Landolfi, che si è risolto in una sentenza minima rispetto alla montagna di accuse iniziali. Una sentenza che definirei “Topolino”, perché riguarda un episodio – la trattativa per un’assunzione in prossimità di una campagna elettorale in alcune società – che in molte altre situazioni non viene neanche considerato un reato, ma che in quel caso fu visto come un favore alla camorra».
«Poi, però, cadde l’accusa di camorra e restò quel piccolo reato di corruzione, non si capisce a quel punto a favore di chi… Mario Landolfi, naturalmente, nega di aver ovviamente favorito qualcuno, ma è un episodio che comunque non aveva nessuna connessione con corruzioni, camorra o con secondi fini che non fossero quelli di un contesto politico dove tutto quello che tu fai viene in qualche maniera collegato a una connivenza con i clan per il solo fatto che quelle cose avvengano in certi territori. In questo caso parliamo del Casertano, di Casal di principe, di Mondragone, di tutta la zona casertana dove è difficile immaginare che ci siano politici onesti che riescono a fare politica senza sporcarsi le mani».
Oltre 16 anni di processo
L’inchiesta e il processo sono stati lunghissimi, tra i 16 anni e in vent’anni, dalle prima indagini: tutto inizia nel 2004 e solo nel gennaio del 2023 c’è la sentenza definitiva. È un caso che il libro sia stato dato alle stampe proprio ora che si è riaccesa la polemica tra politica e magistratura?
«Sicuramente nel contesto storico che abbiamo analizzato prima, berlusconiano, dove nasce il processo Landolfi anche per una deriva quasi automatica dei giudici contro una certa parte politica, c’era una sorta di pesca a strascico. È chiaro che questo fenomeno si stia ripetendo adesso, un contesto diverso ma che favorisce anch’esso questa pesca a strascico. Se vedi, le inchieste che stanno maturando, guarda caso, intorno a esponenti politici di centrodestra, in coincidenza con cosa? Con la riforma della giustizia che da 40 anni si cerca di fare in Italia provando ad approdare alla separazione delle carriere. È chiaro che quando tocchi il filo spinato della magistratura, cercando politicamente di intervenire nel sistema, con una soluzione che ai magistrati è sgradita, ovviamente per motivi personali, per motivi corporativi, come sulla separazione delle carriere, un meccanismo si innesca».
Non solo un errore
«In questo contesto Mario Landolfi trova la forza di riemergere dal proprio oblio anche perché riscopre certe atmosfere che lui stesso ha provato. Il mio libro nasce anche dall’esigenza di raccontare come certe distorsioni si ripetano e come il suo processo incarni tutti i guasti del sistema giudiziario che questa riforma tenta di affrontare. Il paradosso è che, pur trattandosi di una sentenza definitiva, quindi non correggibile nei gradi successivi, non si può parlare di un semplice errore giudiziario. Come ha spiegato recentemente a Radio Radicale il professor Maiello, autorevole penalista della Federico II, si tratta di mala giustizia, un’applicazione sbagliata e miope delle norme, aggravata da una pessima organizzazione del lavoro di PM e giudici e dalla commistione di ruoli. Sui tempi lunghi dei processi proliferano, purtroppo, i parassiti della giustizia, come i pentiti, che hanno la possibilità di rilanciare accuse e scambiarle con benefici..».
Il ruolo dei pentiti
Per tutto questo il processo Landolfi non è qualcosa da dimenticare e mandare alla storia. Ma invece da affrontare e realizzare. «Se la magistratura avesse la capacità anche di guardarsi un po’ dentro, il processo Landolfi sarebbe da guardare al Var, come nel calcio, o da sezionare come in un’anatomia, come nel titolo del libro appunto, per capire come possono crearsi dei paradossi e delle sentenze che da tutti, da chiunque legga quelle carte di quel processo e chi avrà magari la pazienza di leggere il libro, si evince come sia tutto surreale e perfino contraddittorio».
«Sentenza contradditoria peraltro anche perché basata su dichiarazioni di un pentito fragilissimo al quale viene chiesto di ripetere, dopo addirittura la riunione della Camera di Consiglio che è chiamata a decidere, versioni che non venivano considerate credibili. ‘Finora lei ha detto più opinioni che fatti’, dice il presidente al pentito. Che però nell’ultimo interrogatorio inanella 23 ‘non ricordo’ e non ripete l’unica frase considerata davvero probante per i giudici, quelle otto parole, ‘credo che ne avessi parlato con Landolfi’, a proposito dell’assunzione contestata. Frase che a quel punto, nella sentenza e nelle motivazioni, viene riciclata da un precedente verbale di un altro processo, quello a Cosentino. Alla fine la sentenza arriva lo stesso, piccola, ma micidiale per i suoi effetti».
Processi eterni
Tirando le somme potremmo dire che ci sono processi che nascono male, proseguono peggio e finiscono in modo drammatico. «Il caso Landolfi dimostra che nemmeno tre gradi di giudizio sono sempre una garanzia, perché il procedimento di fatto si è esaurito in primo grado. Nel secondo non si è discusso il merito, si è confermata la sentenza “per relationem’, mentre la Cassazione dichiarerà inammissibile il ricorso. È stato, dunque, un processo monco. Il vero problema non è il numero dei gradi di giudizio, ma i tempi infiniti che permettono ai pentiti di rilanciare dichiarazioni, o di rilasciarne di nuove, anche a distanza di anni per ottenere benefici di legge. Enzo Tortora fu vittima dello stesso meccanismo: pagò solo in primo grado, mentre i pentiti godevano dei vantaggi concessi per le loro testimonianze. Poi fu assolto, a differenza di Landolfi. Ma morì negli anni seguenti di ingiustizia provata sulla sua pelle».
«Oggi il pentitismo rappresenta un tema enorme, soprattutto in un sistema che prolunga i processi all’infinito. Chi rinuncia alla prescrizione si trova a subire dichiarazioni di collaboratori che, nel tempo, hanno magari ottenuto la scarcerazione proprio grazie a quelle stesse accuse, ritenute inizialmente inattendibili e poi improvvisamente credibili. È un gioco al rialzo, un jukebox che si alimenta dei ritardi e purtroppo di una magistratura che, in alcuni casi, non si dimostra all’altezza del ruolo. La speranza è che il nuovo presidente dell’Anm, Cesare Parodi, della cui elezioni – incredibile ma vero, manco fossimo alle Politiche – dobbiamo compiacerci perché non viene dalla corrente più sbilanciata a sinistra, sappia aprirsi al confronto sulla riforma Nordio e con la politica partendo dalle carte e non dalle suggestioni politiche».
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