La smania di controllo di Meloni si è rivelata un’improvvisa debolezza

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Il partito della nazione si sta intestando lo spettacolo di un pezzo dello stato contro sé stesso, nel momento più delicato, quando l’intero sistema internazionale viene giù. Mentre il primo interesse nazionale è una democrazia forte e quindi trasparente

Uno strano paese, quello in cui i servizi spiano il braccio destro della premier, un procuratore lo rende pubblico e a sua volta viene denunciato dai servizi. Lo ha scritto il direttore del Giornale Alessandro Sallusti e non ci sarebbe da aggiungere quasi nulla. Se non fosse che quello strano paese in cui succede questo e molto altro – giornalisti e attivisti delle ong spiati con uno spyware sofisticato, come s’addice a un congegno di uso militare; aguzzini libici che considerano l’Italia il loro parco giochi, dev’essere questo che si intende quando si parla di Disneyland d’Europa; giornalisti come quelli di Domani denunciati dai governanti per aver compiuto il loro lavoro – questo paese è lo stesso che Giorgia Meloni governa non da due giorni, due settimane o due mesi, ma da quasi due anni e mezzo.

Vantando, per di più, la sua insostituibilità, i successi internazionali, come la cena a Mar-a-Lago, il suo ardore per la sicurezza nazionale. Imbarazzante, ora, presentarla invece come una governante in balia di servizi segreti deviati che seminano trappole dappertutto.

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L’Italia di ieri

La storia repubblicana ci insegna che in realtà non ci sono servizi deviati, ma ci sono uomini dei servizi che hanno depistato, coperto, cancellato, finendo coinvolti nelle pagine più oscure e sanguinose, come dimostrano anche le sentenze sulle stragi di Brescia e di Bologna.

Negli anni Settanta delle bombe, dell’eversione nera e della P2, alcuni vertici di quei servizi, il generale Giovanni De Lorenzo capo del Sifar, il generale Vito Miceli direttore del Sid, finirono parlamentari del Movimento sociale italiano, segretario Giorgio Almirante.

Erano gli anni dei «golpe istituitisi a sistema di protezione del potere», di cui scriveva Pier Paolo Pasolini, la Guerra fredda, la guerra a bassa intensità che si combatteva nell’Italia paese di frontiera.

L’Italia di oggi

Oggi il contesto internazionale è completamente terremotato, con gli Stati Uniti di Donald Trump che puntano a riscrivere sul piano ideologico le mappe valoriali dell’Occidente, a partire dalla difesa dei diritti umani, proclamati sempre con ipocrisia ma mai così apertamente calpestati, addirittura disprezzati.

Un crollo di riferimenti di cui ha parlato Sergio Mattarella nel discorso di Marsiglia, tra i più allarmati e lucidi del suo decennato: «C’è il rischio del ripetersi di quanto accaduto negli anni Trenta del secolo scorso: sfiducia nella democrazia, riemergere di unilateralismo e nazionalismi? Oggi come allora si allarga il campo di quanti, ritenendo superflue se non dannose per i propri interessi le organizzazioni internazionali, pensano di abbandonarle».

In questo contesto l’Italia resta paese di frontiera, è questo il nervo scoperto con la Libia, ma l’enfasi nazionalista impedisce al governo di affermarlo. E non si può, con un capovolgimento delle parti, imputare all’opposizione la colpa di aver indicato la fragilità logica e intellettuale, prima che politica, degli argomenti del ministro Carlo Nordio. O di aver chiesto trasparenza sullo spionaggio ai danni del direttore di Fanpage e degli attivisti di Mediterranea.

L’interesse nazionale

I partiti dell’opposizione, facendo il loro lavoro, stanno in questo momento difendendo l’interesse nazionale. Mentre il regolamento dei conti tra servizi, evocato come scusante dal vicepremier Matteo Salvini, sembra ben poca cosa, anche perché lo stesso Salvini ammette che i vertici di questi servizi sono stati indicati nella quasi totalità da questo governo.

Tutti i vertici dei servizi, con l’eccezione dell’Aise, così come quelli di polizia, carabinieri, Guardia di finanza, sono stati interamente rinnovati dall’attuale governo, con tanto di battaglie sotterranee, e poi pubbliche, tra fazioni contrapposte: all’interno degli apparati e tra gli sponsor politici, di volta in volta il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Difesa Guido Crosetto. Tutti, però, riportano alla premier Meloni.

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Allo scenario venezuelano, di cui ha parlato il direttore di Domani Emiliano Fittipaldi, si aggiunge così un governo che sembra essersi infilato nel tunnel delle macchinazioni che nascono al suo interno o nei suoi dintorni.

La smania di controllo che arriva da palazzo Chigi è trasformata in un’improvvisa debolezza, la messa in crisi degli elementi più delicati del deep State: la fiducia tra le istituzioni, gli apparati di sicurezza, i capi delle procure più esposte, e ovviamente i responsabili politici, i vertici del governo.

Così il partito della nazione si sta intestando lo spettacolo di un pezzo dello stato contro sé stesso, nel momento più delicato, quando l’intero sistema internazionale viene giù. Mentre il primo interesse nazionale è una democrazia forte e quindi trasparente.

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