La ferrea legge dell’oligarchia nel Pd

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di
Antonio Polito

Questione morale? È la chiave interpretativa che il nuovo corso dei seguaci di Elly Schlein adotta in Campania, per spiegare la crisi profonda di quel sistema di potere che ha trovato ricetto e protezione nel Pd, e che un po’ alla volta l’ha occupato dall’interno. E in effetti, trattandosi di una sequela di arresti, inchieste e processi, l’aspetto «morale» della cosa è dato dalla unificante iniziativa del potere giudiziario. Cioè: il rinnovamento del Pd in Campania lo stanno facendo le indagini delle procure. A pensarci bene, è proprio questa la causa della contraddizione che il direttore d’Errico rilevava ieri sul nostro giornale, nella sua rubrica di dialogo con i lettori: sono ormai passati due anni da quando la segreteria di Elly Schlein si è insediata a Roma. 

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La nuova leadership non può dunque più sentirsi o dirsi estranea all’andamento delle cose in Campania, e mostrarsene sorpresa, visto che ha commissariato da tempo il partito locale. Per dire: il tesoriere regionale Salvati era stato confermato nel suo incarico dai due commissari nazionali inviati da Roma a mettere ordine. La responsabilità così delicata a lui affidata (maneggiare soldi e finanziamenti per il partito), ammesso che vengano provate nel processo penale le accuse perché ovviamente il principio di presunzione di innocenza vale anche per gli iscritti al Pd, non è dunque solo in capo a quelli che l’avevano scelto ma anche di coloro che l’avevano tenuto, pur presentandosi come i rinnovatori del partito e della sua immagine.




















































Ecco perché bisognerebbe fare un passo ulteriore. La «questione morale» nasce infatti da una grande questione politica. L’incrostazione del potere è il peggior nemico in democrazia. Un grande politologo tedesco, Robert Michels, l’ha definita «la legge ferrea dell’oligarchia» in suo saggio del 1911 dal titolo «Sociologia del partito politico». Secondo la sua teoria, i partiti sono destinati a evolvere da una struttura democratica, aperta verso il basso, in una struttura oligarchica chiusa, guidata da un numero ristretto di burocrati e dirigenti, che si sono ritagliati ciascuno la propria competenza diventando insostituibili. Ma d’altra parte, avvertiva Lord Acton, «il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente».

Dunque il combinato disposto di questi due fenomeni, la burocratizzazione dei partiti e la troppo lunga permanenza al potere delle loro oligarchie, provoca l’incancrenirsi della vita democratica interna e la metastasi della corruzione morale. Tutto questo è chiaro, e immagino sia chiaro anche ai nuovi dirigenti portati ai vertici da Elly Schlein. Ciò che non mi pare però sia ancora chiaro è che questi fenomeni non si combattono semplicemente denunciando una «questione morale», come se in un corpo sano si fossero introdotti dei virus che il tratto adamantino dei nuovi capi provvederà prima poi, chissà come e quando, a debellare, riportando alla salute originaria il corpo del partito campano. Se è invece, com’è, una questione politica, la Nouvelle Vague del Pd dovrebbe essere capace di affrontarla non solo con commissariamenti, sospensioni e altri provvedimenti amministrativi, attività che si svolgono all’interno dei gruppi dirigenti, con liturgie e bilanciamenti correntizi, mantenendo dunque il conflitto politico nella stessa oligarchia che si presume di voler debellare, e di cui fanno parte anche i «nuovi». 

Si dovrebbe invece aprire il rubinetto dal basso, in modo da far entrare un bel getto di acqua pulita, e liberare in questo modo dalle incrostazioni il meccanismo. Il fatto che i «riformatori» del Pd non ci siano ancora riusciti è dimostrato da un’altra osservazione che sempre ieri faceva Enzo d’Errico: «Ricordate un nome, uno solo, che sia stato allevato e messo in campo dai nuovi gruppi dirigenti nazionali come emblema della svolta?».
Ecco dove è la responsabilità politica dei nuovi gruppi dirigenti: non sono capaci di rimettere in circolo la linfa vitale della partecipazione e dell’impegno, è scarso l’afflusso di nuovi dirigenti dal basso verso l’alto, non c’è l’ascensore politico che può portare un semplice militante nella stanza dei capi. Di conseguenza vogliono combattere la loro battaglia contro i burocrati con altri burocrati. Ma siccome in politica la competenza specifica è quella di saper prendere voti, i burocrati di prima vincono ancora perché ne sono più capaci. E dunque il corpaccione del partito resta fedele a loro, che almeno sanno vincere le elezioni.

Finché non emergono dal basso, attraverso i meccanismi della partecipazione democratica, del radicamento popolare e del ricambio dei gruppi dirigenti, militanti in grado di formare una nuova burocrazia ugualmente vincente, resteranno in voga le fritture di pesce.
Va bene dunque fare le battaglie contro il terzo mandato, va bene tentare di limitare e di inceppare il sistema di potere che si è affermato ormai in Campania dopo 10 anni di governo regionale (quasi fisiologicamente: appena qualche mese fa scrivevamo le stesse cose sul sistema Emiliano in Puglia, altrettanto longevo). Ma finché a proporsi come “nuovi” saranno quelli di sempre, quelli che sono stati con tutti i segretari sempre con lo stesso entusiasmo, seguaci di Renzi e di Bersani, di Bonaccini e di Schlein, Francia o Spagna purché se magna, cioè anch’essi burocrati al pari di quelli che vogliono scalzare, come si può pensare di cambiare davvero le cose?

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