I DAZI DI TRUMP/ Ecco cosa rischia l’economia dell’Italia (e dell’Ue)

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L’aumento dei dazi per le importazioni è tuttora una pratica ampiamente utilizzata dai Governi dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo per proteggere i prodotti nazionali, per migliorare il saldo commerciale, per evitare il dumping economico e sociale generato dagli aiuti di Stato, dai bassi costi del lavoro e dalla scarsa qualità dei prodotti, sui beni importati da altri contesti economici.



Per molti aspetti l’apertura dei mercati internazionali che ha favorito l’eccezionale sviluppo del Prodotto interno lordo di moltissimi Paesi nel corso degli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino rappresenta un’eccezione storica che ha consentito di ridurre di due terzi il numero delle persone povere in coincidenza di una crescita elevata della popolazione mondiale.

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La crisi della globalizzazione degli interscambi commerciali, secondo la maggior parte degli esperti delle discipline economiche, sociali e politiche, è attribuibile in particolare a due criticità che sono emerse con vigore nel corso della seconda decade degli anni 2000: l’impatto politico nei Paesi occidentali delle proteste dei ceti sociali, in particolare dei lavoratori dipendenti, dei piccoli imprenditori, che hanno subito i costi del decentramento delle filiere produttive verso altre nazioni; il cambiamento degli orientamenti geopolitici di molti Paesi emergenti, in particolare del continente africano e sudamericano, motivato dalla crescita delle economie interne e dal peso assunto dalla Cina negli interscambi economici e per il finanziamento dei loro debiti pubblici.



Quest’ultimo fattore ha trovato solido riscontro nel rifiuto di sanzionare l’invasione russa nel territorio ucraino da parte della maggioranza degli Paesi aderenti all’Onu.

In questo contesto, le decisioni assunte dal Presidente Donald Trump di aumentare i dazi sulle importazioni per proteggere le produzioni degli Stati Uniti, di affossare formalmente il residuo degli accordi internazionali sottoscritti a livello internazionale per tutelare l’ambiente, di delegittimare in via di fatto le istituzioni, e le alleanze, che a vario titolo hanno accompagnato la strategia della globalizzazione dei mercati anche per la finalità di costruire una parvenza di diritti condivisi nell’ambito internazionale (Wto, Cpi, gli interventi dell’Onu nelle aree di crisi), diventano una componente essenziale della crisi delle relazioni geopolitiche e del filo conduttore che unisce l’esplosione, priva di deterrenti: dei conflitti bellici tra nazioni e tra etnie interne alle stesse, che hanno radici storiche; delle strategie dei singoli Stati finalizzate a tutelare in modo conflittuale propri interessi nell’ambito ridisegno degli interscambi produttivi e commerciali; dell’utilizzo delle applicazioni di intelligenza artificiale per obiettivi di potenza.

Il terreno scelto dal Presidente degli Stati Uniti per ricostruire su basi diverse le relazioni economiche e geopolitiche assomiglia terribilmente a quello auspicato nel documento russo -cinese sottoscritto nel mese di gennaio 2022 che precede l’invasione dell’Ucraina, ivi compresa l’esigenza di rinunciare all’apertura occidentale di imporre al mondo una visione della democrazia e dei diritti civili e sociali come corollario delle relazioni economiche. Allo stato attuale, questa evoluzione non offre particolare soluzioni ai problemi aperti.

Nel breve periodo le conseguenze sono già evidenti nella crescita senza ostacoli dei conflitti locali, con numeri di vittime che in alcuni territori africani superano di gran lunga quelle di Gaza, e dei criminali che rimangono impuniti per esigenze di pragmatismo politico. Le grandi aziende Big Tech americane, analogamente a quelle cinesi, affiancano in presa diretta l’azione dei rispettivi Governi prefigurando un ruolo inedito, e diretto, delle tecnostrutture nella formazione delle decisioni politiche.

Le conseguenze sul piano politico ed economico, soprattutto per i Paesi europei, sono altrettanto evidenti. La capacità di mobilitazione delle risorse finanziarie, tecnologiche e organizzative per gli scopi descritti da parte dell’Ue è di gran lunga inferiore a quella degli Usa e della Cina. Le istituzioni e i modelli di governance delle politiche sono palesemente inadeguati anche per la finalità di mobilitare per le specifiche esigenze anche quelle tecnicamente già disponibili.

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L’intero assetto delle politiche economiche rimane ancorato alla valutazione dei vantaggi che derivano dalle capacità di esportare beni e servizi a elevato valore aggiunto e importare energia e prodotti a basso costo, nell’ambito di una cooperazione pacifica tra le grandi aree economiche e in assenza di un fabbisogno di risorse da destinare alla sicurezza militare e civile. Tutto l’impianto delle decisioni assunte per gestire le transizioni ambientale e digitale risente dell’approccio descritto: un insieme di obiettivi e vincoli imposti alle politiche nazionali senza un’adeguata ponderazione dei mezzi disponibili e delle conseguenze che ne possono derivare per l’economia e l’occupazione.

L’essenza di queste politiche è stata sostenuta e condivisa dalla maggioranza dei big player finanziari e industriali del nostro continente, accomunati a quelli nordamericani e cinesi nel considerare il contesto europeo, caratterizzato da un elevato invecchiamento della popolazione, come un mercato finalizzato alla sostituzione dei beni durevoli, ma privo di buone opportunità di espansione.

Le difficoltà europee si identificano con la crisi del modello tedesco e si riflettono in modo preoccupante anche sul versante politico, per l’assenza di leadership autorevoli e per la concreta probabilità che prenda corpo una deriva opportunistica tra i Paesi aderenti finalizzata a tutelare gli specifici interessi nelle relazioni con i grandi protagonisti del confronto internazionale.

Lo scenario che si prospetta per la nostra economia non è affatto tranquillizzante. Nel breve periodo un aumento dei dazi sui prodotti europei vede una particolare esposizione della Germania (+76,3 miliardi di euro) e dell’Italia (+39,6 miliardi) nel saldo positivo tra esportazioni e importazioni con gli Usa.

Gli effetti della stagnazione dell’economia tedesca si riflettono sulla nostra produzione industriale, che è in costante riduzione da 22 mesi, e sulla tenuta dell’occupazione che mantiene il segno positivo grazie ai comparti dei servizi a basso valore aggiunto, in particolare del turismo e della ristorazione. L’impatto diretto dei dazi sull’occupazione non è facilmente stimabile e sarà comunque più qualitativo che quantitativo. La capacità delle aziende esportatrici italiane di primeggiare per una gamma variegata di prodotti e di Paesi acquirenti ha consentito di compensare anche le criticità riscontrate nel corso della pandemia Covid-19 ma le ricadute sulla riduzione degli interscambi della conflittualità tra le grandi aree economiche possono comportare riflessi negativi sugli assetti finanziari di intere nazioni.

Nel contesto attuale serve una strategia di contenimento dell’impatto delle criticità derivanti dalle relazioni internazionali che può beneficiare della valutazione positiva dei mercati finanziari riguardo l’andamento dei conti pubblici, ma che deve attenzionare i livelli di sotto utilizzo delle risorse pubbliche e del risparmio privato destinati agli investimenti.

Nell’anno in corso dovrebbero essere spese, o quantomeno contrattualmente impegnate, le risorse del Pnrr. La scadenza di fine anno impone una valutazione degli effetti di trascinamento degli investimenti effettuati, delle conseguenze che derivano dal ritorno ai livelli di spesa ordinaria e dall’esigenza di mobilitazione nuove risorse per modernizzare le infrastrutture e i servizi di pubblica utilità.

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Le politiche protezionistiche comporteranno una probabile risalita dei prezzi dei beni importati, e un ulteriore ostacolo per il lento recupero delle precedenti perdite del potere di acquisto dei salari. L’aumento dell’utilizzo delle tecnologie digitali e della produttività rappresentano la condizione indispensabile per assicurare la competitività e la crescita del reddito.

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