Gaza. Con il piano di Trump, avanti tutta verso la pulizia etnica – Alain Gresh

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Washington, 4 febbraio 2025. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nello Studio Ovale della Casa Bianca

ANDREW CABALLEROREYNOLDS / AFP

Negli ultimi decenni, in Medio Oriente sono stati proposti una serie di piani, in genere statunitensi, ma anche da parte dell’Onu, sovietici, russi, arabi o israeliani. Ma il piano annunciato il 4 febbraio dal presidente americano Donald Trump, durante il suo incontro con il premier Netanyahu, si contraddistingue perché non si trincera più, nemmeno in parte, dietro la facciata del diritto internazionale. Il nuovo piano lo calpesta in maniera cinica sorretto da un solo principio: la legge del più forte. Le idee proposte dal piano violano ciò che resta della legittimità internazionale, già in gran parte minata dai crimini contro l’umanità e dal genocidio a Gaza, che prosegue nella più totale impunità con il sostegno degli Stati Uniti e il vasto consenso europeo.

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Passerà alla storia il fatto che il presidente americano sia stato il primo capo di Stato a ricevere il primo ministro israeliano dopo che la Corte penale internazionale aveva emanato un mandato di arresto nei suoi confronti per le accuse di crimini di guerra a Gaza. Un’accoglienza che l’inquilino della Casa Bianca ha descritto come un “onore”. Secondo quanto riportano alcuni media israeliani, Netanyahu avrebbe fatto una deviazione di volo verso Washington per evitare di passare davanti a quei Paesi che avevano dichiarato di voler seguire il mandato di arresto emesso dalla CPI.

La prima cosa che Donald Trump ha annunciato è l’intenzione di rendere il territorio di Gaza una proprietà a lungo termine degli Stati Uniti (“long-term ownership”): “Sarà nostra e ci faremo carico della bonifica di tutti gli ordigni inesplosi pericolosi sul luogo, della rimozione delle macerie, della ricostruzione”. Dal suo arrivo alla Casa Bianca, Trump ha rivendicato il controllo del Canale di Panama e del Canale di Groenlandia, per non parlare della sua proposta di fare del Canada il 51esimo Stato degli Stati Uniti. Tutto questo in nome della “difesa dei [loro] interessi”, a scapito degli altri, senza escludere per questo l’uso della forza. È chiaro che Trump si richiama a uno dei suoi predecessori, William McKinley (1843-1901), il presidente che aveva dichiarato guerra alla Spagna e che, dopo la vittoria, aveva preso il controllo di Porto Rico, Guam1 e delle Filippine, annettendo le Hawaii e facendo di Cuba un protettorato. Peggio di Vladimir Putin con l’Ucraina, Trump sta quindi aprendo la strada alla possibilità di giustificare nuovi confini, dalla conquista del Congo da parte del Ruanda a quella di Taiwan da parte della Cina.

Progetti legati a interessi personali

Il controllo di un territorio a migliaia di chilometri dagli Stati Uniti è collegato al piano di liberare Gaza della sua popolazione, con un trasferimento forzato di due milioni di palestinesi in Egitto o in Giordania, che hanno già espresso la propria ferma opposizione. Secondo Trump, Gaza potrebbe diventare “la Costa azzurra del Medio Oriente”, in linea con il progetto del marzo 2024 presentato dall’imprenditore e funzionario statunitense Jared Kushner, genero del presidente, di farne una località turistica2. La speranza di Kushner è quella di investire a Gaza per trarne benefici significativi: vale la pena ricordare che, per Trump e il suo entourage, i progetti sono spesso legati a interessi personali da milioni di dollari.

Proposte che il presidente americano aveva già elaborato nella lista degli “obiettivi” del suo primo mandato: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, la legittimazione dell’annessione illegale da parte di Israele delle alture del Golan siriano, gli Accordi di Abramo e il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. Trump ha anche ribadito che a Gaza non si dovrà “passare attraverso un processo di ricostruzione e di occupazione da parte delle stesse persone che hanno… vissuto lì e sono morte lì e lì hanno vissuto una vita miserabile”. Quanta pietà per la popolazione di Gaza!

In realtà, Trump non ha alcun piano che, invece, “potrebbe essere pagato dai ricchi paesi vicini. Un piano che potrebbe prevedere [per il trasferimento forzato dei palestinesi] più zone o un’unica grande area”, con buona pace per le redazioni, che continuano a discutere della fattibilità di un simile piano invece di sottolinearne l’illegalità e, in subordine, l’immoralità.

La finestra di Overton

Il rischio che si corre discutendo “in maniera obiettiva” sui canali mediatici del piano di Trump per il trasferimento forzato della popolazione – un obiettivo che Israele cerca di realizzare dal 1948 – è quello di dargli legittimità. Così facendo, si inserisce il piano nello schema della “Finestra di Overton”3. Per manipolare l’opinione pubblica, si deve “esporre regolarmente l’opinione pubblica a idee prima considerate estreme, rendendole più visibili nei media e sui social. Un’esposizione ripetuta può gradualmente normalizzare quelle idee, rendendole meno scioccanti e facendole entrare gradualmente nella finestra delle possibilità accettate”.

Discutere con la massima obiettività della pulizia etnica significa renderla “opinabile”. Il fatto stesso che il più potente capo di Stato del mondo possa permettersi di avanzare simili proposte la dice lunga su questa finestra aperta da 15 mesi di genocidio a Gaza. Per quanto si possa considerare Donald Trump un uomo capace di ogni tipo di follia ed eccesso, è il macabro bilancio del suo predecessore, oltre alla complicità dei leader occidentali, ad aver consentito dichiarazioni del genere.

Non si parla del possibile trasferimento forzato della popolazione, un crimine contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto di Roma4; né si chiede l’opinione dei lettori e delle lettrici “sul piano di Trump di trasformare Gaza nella Riviera del Medio Oriente”. Su un canale del servizio pubblico, non si è ritenuto opportuno riprendere un ospite che aveva definito “pragmatico” l’approccio di Donald Trump. Anzi, gli è stato chiesto se il piano era fattibile: “Come immaginare questo trasferimento in altri Paesi? Ma quali? L’Egitto? La Giordania che si è dichiarata contraria a una simile proposta?”. Non si ferma di fronte a nulla il giornalismo, nemmeno alla prospettiva di una pulizia etnica all’indomani di un genocidio.

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Il 31 gennaio 2025, il canale tv Arte, che non ha mai preso posizione sul genocidio a Gaza, durante una trasmissione, ha lanciato la domanda: “Si dovrebbe evacuare la Striscia di Gaza durante la ricostruzione?”, contribuendo così ad accettare l’inaccettabile. Sarebbe stato più onesto dire: “È proprio necessario un crimine contro l’umanità per ricostruire Gaza?”. Perché è proprio questa la domanda che dobbiamo porci dopo le dichiarazioni di Trump.



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