Natalità e disoccupazione, l’Africa è una bomba pronta a esplodere

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Quando si parla di prospettive future dell’Africa, si mette spesso in risalto che si tratta del Continente più giovane, con un’età media intorno a 20 anni, e che nel 2050, ai ritmi di crescita demografica attuali, raggiungerà i 2 miliardi e mezzo di abitanti, cioè un quarto della popolazione mondiale. Anche se questo dato statistico viene presentato in genere in maniera positiva, collegandolo alle notevoli potenzialità dei giovani africani, in realtà rischia di non essere affatto rassicurante.

Un forte incremento della popolazione, senza un’adeguata crescita della produzione e delle tecnologie, si traduce in un minore reddito pro-capite. Già oggi, ben 16 Stati africani fanno riscontrare un reddito pro-capite al di sotto del 1000 $ annui, con una forte concentrazione della povertà personale nella fascia del Sahel (Niger, Mali, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Sudan), cioè non troppo lontano dal Mediterraneo. Non a caso, si tratta anche della regione con i maggiori indici di natalità, con un tasso di fecondità che si situa fra 4,1 e 7,6 figli per ogni donna. Ai ritmi demografici attuali, ogni anno occorrerebbe assicurare un assorbimento di manodopera nel mercato del lavoro continentale per circa 12 milioni di africani, al fine di evitare che la disoccupazione e la mancanza di prospettive generi ampie sacche di malcontento e frustrazione fra i giovani, rendendoli ancora più vulnerabili alle tentazioni della criminalità, del terrorismo, e delle migrazioni irregolari, tanto temute dai Governi occidentali.

Tuttavia, finora il Continente crea in media fra i 3 ed i 4 milioni di nuovi impieghi annuali, con un gap rispetto alle esigenze molto difficile da colmare in tempi brevi. Secondo una serie di articoli pubblicati recentemente dall’Economist, il Continente africano in questa fase del suo sviluppo non ha bisogno delle piccole start-up, capaci di impiegare poche unità di personale; ma necessita piuttosto di grandi industrie, sostenute da una forte innovazione tecnologica, in grado di immettere nel circuito produttivo migliaia di lavoratori. La società McKinsey, però, precisa che soltanto 345 imprese in Africa vantano un fatturato di oltre un milione di dollari, e nessuna società del Continente rientra nella classifica delle “biggest 500” stilata ogni anno dalla rivista Fortune.

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Se poi si considera che la più gran parte delle imprese africane di ampie dimensioni si trova in Sud Africa (147), Nigeria (23) ed Egitto (33), aumenta l’allarme per l’economia continentale, quanto meno nel breve-medio periodo. Il pullulare di piccole start up africane, che spesso viene portato ad esempio delle capacità creative dei giovani africani e delle loro notevoli attitudini nel settore digitale, non pare aiutare la crescita del Continente; va invece ad affollare l’economia sommersa, e secondo alcuni osservatori è solo un segno di disperazione, trattandosi in realtà di disoccupazione mascherata. Paradossalmente, i Governi occidentali dovrebbero considerare l’opportunità di accogliere più consistenti flussi di migranti, visto che le rimesse degli africani emigrati rappresentano più del doppio degli investimenti diretti stranieri nel Continente, e contribuiscono in maniera essenziale alla sua crescita (nel 2023, circa 100 miliardi di dollari, secondo la Banca Mondiale).

Conflitti fra Stati e all’interno dei singoli Paesi, corruzione dilagante, effetti nefasti del Covid 19 e della guerra in Ucraina, e aumento dei tassi di interesse in scadenza hanno provocato un obiettivo peggioramento delle prospettive di crescita in Africa. Se è vero che il Continente continua a ricevere grandi quantità di prestiti internazionali dai maggiori Paesi occidentali, dalla Cina, dalle monarchie del Golfo, dalla Turchia etc., il flusso di denaro che esce dall’Africa per ripagare i debiti ai tassi attuali (spesso anche molto superiori al 15%) è addirittura maggiore. Secondo l’African Development Bank, il Continente africano avrebbe bisogno di un’iniezione di circa 400 miliardi di dollari all’anno per poter ottenere la trasformazione strutturale necessaria, anche in relazione al cambiamento climatico, e non incorrere in drammatici default finanziari, come quelli che hanno già colpito di Zambia, Ghana ed Etiopia, e che rischiano di affossare le economie di Kenya, Egitto, Tanzania, Mozambico e degli Stati del Sahel.

Di fronte a questo panorama poco incoraggiante, molti osservatori e gli stessi leader africani puntano molto sul Continental Free Trade Agreement, l’Accordo di libero commercio infra-africano, firmato a Niamey, in Niger, nel luglio del 2019 da tutti gli Stati africani, tranne l’Eritrea. L’Intesa rappresenta senza dubbio uno dei risultati più ragguardevoli del processo di integrazione africana; ma ha un lungo cammino di fronte a sé, poiché l’armonizzazione delle oltre 50 legislazioni doganali nazionali africane sarà lunga e laboriosa, e per nulla scontata. Oltretutto, sembra andare in nobile controtendenza rispetto alla generalizzata vocazione al ritorno dei dazi doganali, stimolata dalle affermazioni del Presidente Trump.

Nella situazione attuale, gli unici Stati in Africa che sembrano cavarsela relativamente bene sono le Seychelles e le Mauritius, cioè due piccoli arcipelaghi nell’Oceano Indiano, il cui reddito pro-capite nel 2024 è stato rispettivamente di 22 mila e 13 mila dollari annuali. Al di là delle formule astruse degli economisti, i due Paesi insulari sembrano indicarci che un sostanziale buon Governo e un sapiente utilizzo della risorsa “turismo” possono ancora fare miracoli.

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