All’apparenza è un’antologia di contributi discordi, centrati sul nesso paradossale che lega parole e fenomeni della moda, ma in realtà già al primo sguardo la bella raccolta Einaudi curata da Maria Luisa Frisa, I racconti della moda (pp. 280, € 19,50) è una selezione pensata per suggerire, di pagina in pagina, una densa trama autobiografica, inserita nel passo di un ordito fatto di date e concetti chiave. L’espediente che inanella, l’uno all’altro, i materiali variegati della griglia imposta all’indice (siano essi articoli di giornale, reportages, racconti, o perfino contributi in versi) immagina la curatrice di fronte alla propria biblioteca, nello spazio intimo della casa o dell’ufficio.
Frisa evita tuttavia di raccogliere, nella introduzione o nelle note in chiusa a ciascun contributo, casi privati: quasi per riserbo, la scrittura si tiene al margine di un tono eccessivamente confidenziale, denso di ricordi personali o fatti quotidiani, accennando con pudore a fasi di una parabola di vita che fanno presto a caricarsi di sicura universalità.
La crestomazia einaudiana assume lo spessore di uno scrutinio puntuale, da scaffale a scaffale, tra gli strumenti di lavoro di un’accademica che, da anni, persegue linee di ricerca fondative per i fashion studies italiani, fra mostre, monografie e saggi specialistici.
E lo spoglio suggerisce tappe diverse di riflessione, assieme costruendo un’archeologia bibliografica indispensabile a riassumere l’affinamento di idee ricorrenti, vagliate alla prova del tempo e delle generazioni. Il volume si presenta, insomma, come strumento e diario, laddove s’intenda il primo nel senso d’un transito di esperienze e avventure intellettuali, il secondo in quanto pubblico resoconto di curiosità e conoscenze. In ultima istanza, è questa la declinazione raffreddata di un procedere caro ai cultural studies, soprattutto a un certo tipo di analisi «al femminile» (per temi e per voci), dedite allo scandaglio consapevole del punto di vista e associate dal ricorso alla prima persona, nella presa in carico, esplicita, di un soggettivo background socio-esistenziale, metro sul quale misurare i moventi alla base di qualsivoglia indagine.
In questo senso, l’antologia funziona assai bene, non solo disegnando preferenze, rapporti o amicizie, ma soprattutto alludendo a stagioni differenti e distanti, dagli anni Ottanta, sazi di egotismo e impassibilità, sino alle divise ‘musicali’ del decennio seguente, per giungere al total black delle uniformi nazi-skin. Nella deliberata inattualità di ogni pezzo, almeno a giudicare dalle date di pubblicazione riportate in bibliografia al termine del libro, trova spazio anche l’exemplum di alcune maestre, il cui apporto – ormai storicizzato – alla storia del costume è passato dal commento al fatto di moda, dall’invenzione di una scrittura innovativa, adeguata a rispecchiare la frenesia del gusto, il succedersi delle tendenze, la rutilante, golosa passione del nuovo, al servizio di un’efficace traduzione di sé, dei desideri più riposti, dei propri impulsi intimi, segreti.
La parte del leone, in questa pur ricco segmento, la fa ovviamente lo stile personalissimo di Irene Brin, seguito – nel senso letterale del termine – dalle esperienze, ambosessi, di Gianna Manzini o di Lucio Ridenti. Nessuno, infatti, è capace di ampliare il campo dell’osservazione, dall’abito alla consapevolezza di un’epoca intera, come la giornalista, già firma di «Omnibus» e del «Corriere d’informazione»; e se Frisa le riconosce l’arte di dipingere affreschi in cui «la storia si snoda attraverso i dettagli e le futilità», basta una nota fra le tante contenute nel testo riportato in antologia (da Usi e costumi, le sue pagine più celebri) a evidenziarne la pliniana arte della sintesi, frutto di un enciclopedismo asistematico e erudito: «Ci fu uno stile letterario. I setaioli illustri, quali Bianchini, avevano chiesto disegni a pittori ancora più illustri, quali Marie Laurencin, Paul Klee, Dufy, Fujita, Matisse. A Milano, la gioielliera Margherita creava collane amabilmente arzigogolate, e si ispirava alle collane 1880 (…). Van Cleef, all’Esposizione mondiale di Nuova York, mandava un cappellino di oro massiccio, tempestato di rubini, che doveva significare, in modo quasi terribile, l’estremo splendore raggiunto dalla Francia nel 1939».
Non sarà un caso se la stessa lingua della curatrice, nel sommare spunti e rimandi, si condensi in giri di frasi (e di nomi) che, dismessa la tenuta salottiera dei pezzi di Irene Brin, ne mantengono tuttavia l’ambizione mimetica, individuando nella moda lo specchio per mille artifici, di attitudini o di stile; e ancor meno suona accidentale che il vaglio dei contributi accolti in volume si appunti su dispositivi nutriti dalla malinconia delle cose passate, pur nel ricondurre il grido del gusto alle esigenze di un’indefessa futuribilità. È nello sguardo à rebours, non giocato solo in chiave revivalistica ma piuttosto tradotto in coscienza dolorosa di un’individualità trascorrente, che si annida la malinconia degli abiti dismessi: per questo, niente di più logico che nel libro s’incontrino anche i lirici memoriali di Jhumpa Lahiri e Tanisha C. Ford, capaci di trasporre in racconti privati la durata fragile di ogni tendenza, l’instabile cresta delle vague più diffuse; di rileggere in traumi adolescenti il successo dei jeans baggy o l’eleganza banale di una polo Ralph Lauren.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link