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L’apertura di un bistrot al Tecnopolo e la svolta etica nella sua professione: «Per un modello di ristorazione che non sia solo puro business. I turisti? A pranzo mangiano street food, ma la cena la scelgono di livello»
Max Poggi ridisegna il locale che porta il suo nome a Trebbo di Reno, apre un bistrot in zona Tecnopolo e imprime una svolta alla sua vita professionale.
«Se prima desideravo essere il miglior cuoco di Bologna ora non ho più quell’ambizione, oggi vorrei essere il cuoco più buono di Bologna» racconta. Max Poggi è unanimemente riconosciuto come il miglior talento (o come minimo uno dei migliori) della città. Sotto le Torri ci si aspettava che la Michelin se ne accorgesse, ma fin qui non è accaduto. È accaduto però che la sua stella non si sia mai offuscata e che tuttora continui a brillare in cucine e cieli diversi.
Assieme al suo socio Franco Rinaldi, con Ingrediente Italia, Poggi gestisce il ristorante del Circolo Bononia, Vicolo Colombina, il progetto Battirame, il ristorante Massimiliano Poggi a Trebbo e il nuovo bistrot in arrivo. E poi c’è Al Cambio, dov’è Poggi oggi è socio ma con un’altra società.
Partiamo dal ristorante che porta il suo nome. Come cambierà?
«Punteremo su una cucina semplice e curata, fatta con prodotti etici e un format più accessibile. Se non sono lo chef più bravo, provo a diventare quello più buono. Ho una filosofia diversa, ora».
Cosa intende?
«Per anni ho giocato con Agostino Iacobucci a chi fosse il più bravo, oggi faccio un altro ragionamento. Vorrei avere un modello di ristorazione con contenuti che attingano a etica e sociale, che non sia solo puro business. Noi cerchiamo di collaborare con realtà che abbiano valori simili ai nostri. A Trebbo gli ingredienti della terra e la mise en place saranno della cooperativa Eta Beta che lavora con un approccio inclusivo. Anche i servizi, a partire dalla cura del giardino fino alla pulizia, saranno affidati a loro. E poi ho scelto di seguire una cucina circolare».
Come si concretizza?
«Acquistiamo animali interi da il Supermercato delle carni di Malalbergo, che li tiene in cella e a richiesta mi lavora il pezzo che mi interessa. E questo finché non li abbiamo esauriti. Ma bisogna ricettarli».
Cioè?
«Bisogna avere ricette studiate che siano funzionali all’utilizzo dell’animale intero. Faccio un esempio, con il pollo. Magari per il Trebbo mi darà le sovraccosce per la cacciatora, alla Colombina il petto per la cotoletta, e magari con il fuso facciamo il ragù di cortile per il Battirame».
Come cambierà il ristorante?
«Il format sarà più fruibile, meno esclusivo. Si potrà ordinare alla carta, ma proporrò menu con certezza di spesa: intorno ai 45 euro bevande escluse o 50 con un calice di vino».
Perché ha chiuso a Trebbo per poi riaprire?
«Lo scorso anno, il quarto del progetto Battirame, non avevo abbastanza personale per tenere aperti entrambi. E per me quel progetto è davvero importante, soprattutto per l’etica che esprime. Così ho scelto di portare la squadra del Trebbo al Battirame e chiudere temporaneamente il ristorante».
Che tipo di cucina offrirà al Trebbo?
«Sarà una cucina semplice, curata, con prodotti di una certa etica e con tanto vegetale, come al Battirame. Per il pesce ho trovato Ecopesce, una realtà con i nostri stessi valori, di Cesenatico».
Il locale come cambierà?
«A Joan Crous abbiamo affidato l’allestimento artistico. Cambierà nei colori e soprattutto l’esterno sarà rivoluzionato: il giardino, con orto, e il verde saranno protagonisti».
Al Battirame cosa fate in questi mesi invernali?
«Catering ed eventi (soprattutto aziendali)».
Come sarà il nuovo bistrot?
«Per ora posso solo dire che si tratta di un’osteria moderna, dove mangiare un piatto della tradizione in un ambiente informale a un prezzo giusto e che, tempo un mesetto, vedrà la luce».
E per il nuovo Trebbo quanto bisognerà aspettare?
«Riapriremo tra la fine di marzo e l’inizio di aprile».
Lei che gestisce locali così diversi e che continua ad investire sul cibo, cosa crede che funzioni a Bologna ora?
«Ristoranti con un buon rapporto qualità-prezzo e la cucina tradizionale. Su quella creativa a Bologna c’è molta diffidenza».
Chi soffre?
«Chi non ha capito che noi non vendiamo cibo, e che sono l’ospitalità e l’accoglienza a fare la differenza».
Si mangia bene a Bologna?
«In qualsiasi ristorante uno, due o tre piatti buoni li trovi, quindi non è vero che si mangia così male».
Mancano ristoranti top, però, rispetto ad altre città.
«Ce ne sono stati in passato ma non hanno quasi mai attecchito. A Bologna la gente non sembra particolarmente interessata al genere. Manca il grande ristorante di tradizione, quello che poteva essere il Pappagallo o il Tre frecce o il Diana di quarant’anni fa».
Il turismo incide nei ricavi dei ristoranti oggi o solo in quelli che vendono street food e taglieri?
«Sì che incide. Sono come noi: quando andiamo in vacanza a pranzo mangiamo qualcosa di semplice, veloce e a basso costo, poi magari a cena scegliamo un ristorantino con piatti tradizionali cucinati in un certo modo».
Il turismo è una bolla pronta a scoppiare?
«No. Bologna è una città viva, con tanti attrattori».
L’impoverimento della classe media non sta influendo sul numero di coperti?
«In Francia si va meno al ristorante, ma uno, due o tre volte l’anno si sceglie di visitarne di livello. Qui la cucina vera la esprimiamo nelle cucine delle case, il riferimento sono i piatti della nonna. Poi ci sono momenti e momenti. Oggi con guerre e incertezze, e calo del potere d’acquisto, si sceglie la tradizione, che rassicura. Ma quando la situazione economica migliorerà, tornerà la cucina gourmet».
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