Gavino Sanna: «Andy Warhol mi sembrava un matto, Elon Musk è uno gnomo di genio»

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«A un certo punto, ed ero al massimo della parabola, ho capito che non ne potevo più, e sono letteralmente evaso da Carosello. Sono partito per l’America come quelli che andavano a rifarsi una vita. Senza portarmi niente, senza niente pronto. Nemmeno l’inglese. Tant’è che la prima cosa che ho fatto, a New York, è stato iscrivermi a un’università privata per impararlo. Ma il destino a volte vuol giocare. Giusto accanto alla scuola c’era un altro edificio con una targa che diceva che era la sede di un film maker. Mi sono detto: dai, se si può mi iscrivo anche lì. Era la Factory di Andy Warhol. Ed è partita un’altra storia».

Gavino Sanna, nato a Porto Torres, 1 maggio 1940, 84 anni e 9 mesi, icona dell’advertising mondiale e della creatività, una valanga di premi presi ovunque, dai Leoni di Cannes in giù e in su (“Dovessi dirglieli a voce ci vorrebbe un tot, le mando una lettera se vuole l’elenco intero”) a parte un po’ di raucedine di stagione è più in palla che mai. «Al momento ho tre case – spiega – quella di Alghero nella mia Sardegna, una a Milano e una nel paese di mia moglie, vicino Varese. E salto da una all’altra come un grillo».

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«A primo impatto m’era parso un matto. Poi ho visto come lavorava. E mi son detto: posso farlo anch’io. Il suo metodo per dipingere o creare era basato su un team di responsabili dei colori. Uno per colore. C’era il ragazzo del rosso, quello del giallo, quello del nero… Lui disegnava, scriveva (in genere per terra) e i ragazzi stendevano il colore. Ognuno il suo. Una famiglia di fuori di testa. Io osservavo. Senza mescolarmi troppo. Ma a un certo punto lui mi ha preso in confidenza. Mi raccontava le sue cose. Un giorno ha deciso che dovevo accompagnarlo a comprare le calze. Prima mi metto un cappello, mi ha detto. Ma non era un cappello. Era una delle sue mille parrucche colorate. Quel giorno, rosa. Usciamo, in cerca di calze a righe. Che però dovevano avere per lui un intervallo di un certo tipo tra una riga e un’altra. Ovviamente non esistevano e non abbiamo comprato niente. In compenso, mi mostrava i suoi film. Sleeper ad esempio, nato sul treno riprendendo un amico che dormiva. Scattando e girando per tutto il viaggio quel tale addormentato».

Da quell’incontro sono nate cose.

«A New York sono nate tante cose. Lavorare con grandissimi attori, conoscere presidenti, creare spot». Una star per tutte. «Frank Sinatra. Era il periodo delle campagne per i Baci Perugina. Lo ingaggiarono per cantare dieci canzoni, colonna sonora extralusso per gli spot che lui avrebbe dovuto chiudere col famoso claim d’allora: “Dove c’è amore c’è un Bacio”. Senonché lui arriva, canta, incide tutto, si alza e fa per andarsene. Allora, tutti dietro: “Mr. Sinatra, dovrebbe dire: dove c’è amore…”. E lui: “Fuck off, i’m going”. Debbo tradurre? Per fortuna il cameraman l’aveva ripreso mentre parlava. E l’idea è stata sua: “Doppiamolo!”, ha detto. E così è andata. Lui ci mandava a stendere e noi l’abbiamo fatto parlare d’amore».

Lei per lustri ha deciso cosa doveva piacere, di cosa si doveva aver bisogno. Cosa si prova a essere il metronomo dei desideri di un Paese, di una società? Quanta responsabilità oltre la soddisfazione?

«Se non avessi sentito tutto questo non avrei lasciato Carosello. A me piaceva capire quel che c’è dentro le persone, scoprire inclinazioni, intuire i gusti. E attorno costruire storie. Vendere per vendere non mi ha mai esaltato».

Lei ha messo un jazzista in lavatrice, ha creato una casa idilliaca che tutti gli italiani volevano ma non sapevano di avere, ha trasformato un cioccolatino in un pegno d’amore. Cosa avrebbe voluto fare e non ha fatto?

«Credo d’aver fatto tutto. Quando ho capito che l’organizzazione italiana era quella, con quei limiti, che di più non si poteva né voleva fare, ho salutato e me ne sono andato».

Parliamo un momento di politica: lei ha curato, tra l’altro, le campagne di quattro governatori sardi (incluso un match di andata e ritorno). E ha detto una volta di essersene pentito. Perché? E quanto e in cosa un politico, un amministratore pubblico è assimilabile a un prodotto?

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«Pentito. E deluso, più che altro. Da quattro persone che sembravano una cosa e poi si sono rivelate altro. Il cui unico vero scopo era vincere. Anch’io voglio vincere. E vinco. Ma mi piace vincere in un certo modo. Non cambiando quel che mi ha fatto vincere una volta vinto. Peraltro, da quelle campagne non ho preso una lira. Non ci crederà, ma alla fine non sono stato mai pagato. Quanto al politico-prodotto…».

Ecco, proviamo a giocare: Meloni, Schlein, Renzi. Me li abbina ciascuno a un – diciamo così – prodotto che per lei ha una analogia di riferimento?

«Guardi, preferisco di no. Un politico non dovrebbe mai essere assimilabile a un oggetto di consumo. Quello che mi sento di dirle in generale – e che penso – è che a venire a contatto con buona parte di quelli in pista oggi, il prodotto che servirebbe dopo è un buon smacchiatore».

Lei ha conosciuto alcuni presidenti Usa. Di Trump cosa pensa?

«Lo conosco da prima che entrasse in politica. Io ho doppia cittadinanza, anche americana. E mi limito a dire che non ho mai votato quel signore. Ma poi forse il vero problema è lo gnomo che gli sta accanto».

Per gnomo intende Elon Musk?

«Eh già. Gnomo di genio, intendiamoci, visionario, grandi capacità… Ma molto pericoloso».

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Non si può parlare di Musk senza parlare di social media, di influencer, del loro potere. La sua impressione?

«È che pensando di andare a nuotare siamo caduti nella vasca dei coccodrilli. E quelli non ti lasciano niente addosso. Ti mangiano pure il piripicchio».

Torniamo alle origini. Lei non andava bene a scuola…

«Non “bene”. Malissimo. Bocciato due volte alle medie. Poi, per fortuna, uno degli zii s’è accorto che avevo un dono, una capacità, e hanno convinto i miei a iscrivermi alla Scuola d’arte. Il mio primo talento è sempre stato il disegno. E così ho campato di lusso. Primo in disegno dal vero e famoso per le caricature, che mi è sempre piaciuto (anche ora) fare, e sono state poi oggetto di libri e mostre importanti. E proprio le caricature mi hanno aperto la carriera. Alla Nuova Sardegna»

Come è successo?

«Sempre lo zio provvido mi ha portato un giorno dal direttore della Nuova, dicendogli che ero un caricaturista nato. E lui mi ha offerto uno spazio settimanale se gli facevo quelle dei politici e dei famosi d’allora in Sardegna. Come banco di prova mi commissionò un Antonio Segni».

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E lei?

«Io, ragazzino, nemmeno sapevo chi fosse, Segni. Per fortuna a casa avevo un pacco di immagini che mi piaceva ritagliare dai giornali. E in mezzo trovai anche una caricatura di Segni fatta da un grafico (bravo) dell’epoca, tale Garretto. Confesso: barai. La ricalcai a carta carbone, la ripassai a china, cambiai un nulla e la portai alla Nuova. Bella, mi dissero. Ed ebbi l’incarico. Solo che, come Segni, io i politici sardi non sapevo che faccia avessero. Per fortuna un conoscente mi disse che tutti i big, in quel periodo, frequentavano un bar in piazza Azuni, a Sassari. E allora prendo l’occorrente e vado ad appostarmi lì. Noto uno che giocava a boccette (c’era il biliardo nel bar). E chiedo al cameriere: scusa, ma chi è quello che gioca? E lui: “Ma come! È Berlinguer!”. E allora vai con Berlinguer. Poi ho imparato e ho disegnato a lungo per la Nuova. E cinque anni per Amica e per tante testate».

Guarda la tivù? Cosa? Serie, spot, news…

«Un po’ di tutto, senza entusiasmo. Troppi tromboni a condurre, poco stile, troppe dita nel naso. Ma mi aiuta a fare ancora caricature».

Esempio?

«Il presidente del Senato, La Russa. Irresistibile. Ogni volta che lo vedo ce ne scappa una»

La sua avventura col vino. La Cantina Mesa.

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«Quando ho deciso di mollare tutto, volevo restituire qualcosa alla mia Sardegna. Io non so nulla di vino, non ero né sono un intenditore. Ma ho conosciuto dei ragazzi che producevano. Mi sono innamorato dell’idea. E poi in fondo si trattava di immaginare e disegnare. Cose mie. Ho disegnato la cantina, che modestia a parte, è bellissima, le etichette, tutto. Il primo anno abbiamo prodotto 850 mila bottiglie. Non riuscivo a crederci».

Lei ha detto una volta: mi sento sardo prim’ancora che italiano. È ancora così?

«È così per sempre. E il mio augurio alla Sardegna e a chi la abita è che tornino fino in fondo a essere sardi».

In cosa si è sardi e non altro?

«Nel saper vivere tutta la verità, tutta la magia e anche tutta la motivata “cattiveria” che deve avere un sardo. Io che lo sono, per esempio, sono sempre, e giustamente, un po’ inca@@@to…».



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