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Cronista e inchiestista, da quasi 50 anni iscritto negli elenchi delle Marche, direttore di testata e insegnante all’ateneo di Urbino, rappresentante dei giornalisti cinematografici, Franco Elisei ha conosciuto a fondo i cantieri della carta stampata – il Corriere Adriatico, il Tirreno, il Messaggero – ma anche quelli delle testate Rai e poi dell’informazione più moderna e confusa che si diffonde via etere. Durante i sei anni nei quali ha presieduto l’Ordine delle Marche, Elisei si è scontrato con problemi e incomprensioni. Ora è disposto ad un’analisi anche cruda delle capacità e incapacità mostrate dalla categoria di fornire ai cittadini un’informazione completa, indipendente, libera dalle grinfie dei poteri forti.

Molti ti vorrebbero rieleggere, proprio per questo è giusto chiedere anzitutto cosa non sei riuscito a fare in quei sei anni e perché. Cosa ti dispiace non avere fatto?

“Non essere riuscito a ridare completamente a questa professione quella credibilità e quella autorevolezza che merita. Perse un po’ per nostra responsabilità, un po’ per la mancanza dei cosiddetti ‘editori puri’. E un po’ per quei governi che hanno ignorato le nostre richieste di riformare una professione regolata da una legge ferma ai tempi della linotype e del piombo. Eppure in Parlamento siedono tanti giornalisti“.

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La legge del 1963 è da buttare?

“Ovviamente non tutta. L’istituzione dell’Ordine dei giornalisti va vista come garanzia verso la collettività. Ed è per questo che non è più accettabile – ad esempio – che si eserciti l’attività di giornalista prima ancora di averne acquisito il titolo. Nessun’altra professione lo permette: si è medici dopo aver preso la laurea in Medicina, così è per gli ingegneri, così per gli avvocati. Eccetera. Per i giornalisti la legge del ’63 fa un’eccezione. E’ invece necessaria una laurea da conseguire prima di entrare nella professione. Oggi occorrono competenze maggiori, sicuramente più adeguate alle opportunità che offrono le nuove tecnologie, senza dimenticare gli obblighi deontologici. Da molti anni ormai sostengo che cambiano i contenitori ma non devono cambiare i contenuti”.

I giornalisti italiani, soprattutto i pubblicisti, conoscono le norme deontologiche?

“Secondo me finché i corsi di formazione sono visti come un peso da molti colleghi, si possono creare dei ‘vuoti’ di conoscenza deontologica, in cui cadono tutti, soprattutto i pubblicisti. In questo scenario si suppone e si spera che i professionisti conoscano le norme deontologiche solo per il fatto che sono materia d’esame professionale. Su alcuni temi, come Carta di Treviso e privacy, vedo ancora qualche confusione. Per non parlare della commistione tra informazione e pubblicità”.

Nell’Ordine di una regione piccola come le Marche tutto è un poco più facile, ma non sarebbe meglio poter avere ovunque una struttura più attrezzata e più costosa?

“Sarebbe certamente più utile avere una struttura più attrezzata e quindi inevitabilmente più costosa. E non sempre in una regione più piccola tutto è più facile. Le incombenze amministrative sono le stesse, le responsabilità uguali. E mentre gli Ordini più grandi hanno funzionari con preparazione specifica, gli organismi più piccoli devono fare affidamento sulla disponibilità preziosissima di impiegati inquadrati in altri ruoli o su conoscenze amministrative personali dei Presidenti di turno. Gli adempimenti burocratici si sono triplicati e le spese fisse aumentate. Per una regione piccola le risorse sono al minimo e margini di intervento sono ridottissimi. Esiste poi il problema dei Consigli di disciplina territoriali: nelle regioni più piccole non è  facile trovare la disponibilità di 18 componenti di esperienza e di equilibrio.”

I professionisti non dovrebbero essere regolati da norme più rigorose rispetto a quelle dei pubblicisti?

“Ribalterei la domanda: i pubblicisti, poiché il prodotto finale, cioè il servizio offerto all’opinione pubblica è spesso lo stesso, dovrebbero essere regolati da norme più rigorose. Mi spingo oltre: per come è scritta la norma esistente, l’Ordine – per esempio -non è a conoscenza di soggetti in attività giornalistica finché non presentano la domanda per diventare pubblicisti. E non può neppure perseguirli in caso di violazione di norme deontologiche. Mi sembra un limite importante”.

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Rispetto a sessanta anni fa, oggi c’è più libertà di informazione, ma perché molti non la vogliono?

“La libertà di informazione significa ricerca della verità. Ma questo è già risaputo e scritto nei manuali. Per me significa anche trasparenza, che a sua volta permette una maggiore conoscenza e quindi consapevolezza sui fatti, tanto da consentire poi scelte responsabili. Chi non la vuole, non vuole che la libertà di informazione diventi approfondimento. Non vuole che pulisca troppo i vetri. Perché potrebbero diventare trasparenti”.

Il mondo della comunicazione è stravolto dalle innovazioni tecnologiche, ma i giornalisti, grazie a queste, scrivono e diffondono un maggior numero di verità o di fake news?

“Le innovazioni tecnologiche permettono sicuramente di diffondere un maggior numero di notizie, in tempi sempre più rapidi e raggiungendo lettori/utenti sempre più lontani. Ma la prima insidia è legata soprattutto alla tempestività chiesta al giornalista nel diffondere la notizia, tempestività inversamente proporzionale alla verifica, alla riflessione. In questo contesto è facile la pubblicazione di una notizia a rischio imprecisione o incompletezza, perdendo per strada l’attenuante della verità putativa”.

Il calo delle copie vendute di giornali può essere causato dalla perdita di credibilità dei giornalisti. Come si fa a recuperarla?

“Può essere una delle cause, non ‘la causa’. La credibilità oggi è per molte realtà ai minimi storici. Va recuperata, secondo me, aumentando le competenze professionali; accrescendo l’approccio critico ai fatti, che non significa metterli in discussioni a prescindere, ma non accontentarsi delle apparenze, sviluppare l’analisi critica. Non essere, come ha detto un maestro del giornalismo, un ‘portatore sano di bugie altrui’. Si può assolvere la buona fede del giornalista, ma non la sua preparazione”.

La pubblicità ormai sostiene, influenza, confonde, mischia tutto, ma secondo lei l’Ordine può riuscire a migliorare questo rapporto? 

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“E una tematica di estrema attualità. L’Ordine non solo può, ma deve migliorare questo rapporto. Sia chiaro: la pubblicità è importantissima per la sopravvivenza dell’informazione, la sua funzione di sostegno è imprescindibile per qualunque media e in particolare per la carta stampata, a cui stanno venendo meno le entrate derivanti dalle edicole, che rappresentavano anche il termometro della fidelizzazione dei lettori. Ma la pubblicità ora sta cambiando pelle, si sta camuffando sempre più da informazione. E’ la proliferazione della mercificazione della notizia. Un fenomeno che tocca piccole-medie emittenti televisive e testate on line locali. E che mina, appunto, la credibilità dell’informazione e quindi del giornalista. Un punto di incontro si può trovare”.

L’Intelligenza artificiale, ad Ancona, aiuta o minaccia i giornalisti?

“Dipende. Molti colleghi qui la usano già da tempo per realizzare i servizi, soprattutto i collaboratori, anche perché con 6-8-10 euro lordi ad articolo, si deve correre e produrre tanto. Ogni giorno. Se usata dai giornalisti come strumento, sicuramente è un aiuto; se usata invece dagli editori come alternativa ai giornalisti, è evidente che diventa una minaccia. Ad ogni modo credo sia fondamentale che i lettori/utenti sappiano se quel servizio è realizzato del tutto o in parte dall’Intelligenza artificiale, oppure è opera dell’uomo. Poi il lettore può scegliere. Rientra anche questo in un concetto di trasparenza”. 

La legge sulla formazione continua non va bene. Le violazioni da parte dei giornalisti sono migliaia. Cosa fare?

“Lo ripeto, molti ritengono la formazione solo un peso. E qualche vecchio giornalista la definisce inutile, convinto che sia sufficiente l’esperienza su strada. Forse questo concetto valeva quando si consumavano veramente le suole. Cosa fare? Alzare ogni volta il livello dei corsi di aggiornamento, distinguendo quelli di base per i nuovi iscritti da quelli di alta formazione per i più esperti, coinvolgendo i direttori e i colleghi di maggiore esperienza a trasferire in prima persona la loro conoscenza ai partecipanti. Confrontarsi con le altre realtà europee. Ma anche convincere gli editori a concedere permessi ai redattori per partecipare alla formazione, senza costringerli a usufruire di riposi o ferie, convincendoli che una maggiore professionalità premierebbe anche l’autorevolezza della testata. E magari prevedere un bonus, in particolare ai collaboratori per quelle ore dedicate alla formazione a fronte dell’effettivo svolgimento dell’obbligo formativo”.

Ammettendo che tu venga rieletto alla guida dell’Ordine c’è una proposta che potrebbe aiutare a migliorare il sistema?

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“Aprire sempre più il dialogo con gli altri Ordini professionali e con le Università per un confronto continuo. Una interazione tra il mondo dell’informazione e le altre realtà professionali, anche a livello europeo, per comprendere i rispettivi ruoli e obiettivi. L’opinione pubblica conosce solo in parte i meccanismi dell’informazione e spesso le convinzioni si basano su luoghi comuni o stereotipi. L’Ordine dei giornalisti delle Marche ha firmato proprio di recente un accordo con l’Università di Camerino per un corso di perfezionamento sull’informazione scientifica, aperto a tutti i colleghi che vogliono aumentare le competenze su questo campo. Un corso all’interno di un master universitario, che vogliamo replicare ed allargare ad altre discipline, coinvolgendo altri Atenei delle Marche”.

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(nella foto, Franco Elisei)



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