Green deal al tramonto, la politica fa i conti con la realtà

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È venuta l’ora di fare i conti con la realtà. Dopo anni in cui si è quasi fatto a gara a rincorrere certi ideologismi solo perché sognavano un bel mondo dove tutto poteva svolgersi senza problemi, si è costretti a misurarsi con la complessità delle scelte. Perché se è vero che viviamo un’epoca di grandi transizioni e che è doveroso prendere coscienza che un progresso disordinato ha prodotto guai, lo è altrettanto che riassettare quel disordine non lo si fa con le utopie sulle alternative assolute e sulle inversioni ad U rispetto a quanto è avvenuto.

Se ne sta rendendo conto l’Unione Europea, facendoci sapere che verrà rivista la decisione di costringere tutta l’industria dell’automotive a passare massicciamente all’elettrico entro il 2035, altrimenti scatteranno multe pesantissime. La ragione è banale: ammesso e non concesso che la soluzione dell’auto elettrica sia la panacea di tutti i mali, non ci si può arrivare in tempi brevi come sognano quelli per cui tutto è fattibile, basta volerlo. I costi dell’operazione, multe incluse, metterebbero in ginocchio un’industria chiave, il che significa milioni di posti di lavoro che saltano, cioè l’aprirsi di una ondata di povertà sociale insopportabile per qualsiasi sistema.

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Simili ragionamenti si iniziano a fare per un’altra geniale trovata dei passati decenni: il rifiuto secco del nucleare come fonte di produzione dell’energia. Ci si era mossi sull’onda emotiva di catastrofi provocate dagli impianti nucleari, ma pochi hanno poi ragionato sul fatto che l’utilizzo dell’energia nucleare non si è per questo fermato in tutto il mondo e che per fortuna non è che si registrino catastrofi in continuazione. Soprattutto non hanno capito le potenzialità enormi per lo sviluppo industriale e la sicurezza che il nucleare pulito può garantire e l’esigenza, per questo, di tutelare in Italia gli investimenti che solo i grandi player possono attuare. Se non li fanno in casa nostra, finirebbero con il farli altrove.

Non si tratta di contrapporre agli ambientalisti da bar i negazionisti da bar: così va bene se si vuol fare spettacolo (televisivo e non), mentre c’è bisogno di affrontare i problemi nella loro complessità. Così è giusto valutare i costi di certe tecnologie in termini di rischi, ambientali e di altro genere, ma lo è altrettanto valutare se sia fattibile e se siano sopportabili i costi derivanti dalle velleità di rapido azzeramento del nostro modo attuale di rispondere ad esigenze che hanno un fondamento nella realtà.

Prendiamo il problema del passaggio dai motori termici ai motori elettrici. Se i primi sono responsabili di inquinamento, siamo certi che i secondi non pongano problemi? Gli esperti seri che non seguono le mode del consenso ne hanno già messi in evidenza un buon numero: l’elettricità necessaria per alimentarli deve essere disponibile in grande quantità e produrla comporta interventi certo non a basso costo per l’ambiente; le batterie elettriche andranno smaltite e sono molto inquinanti; ci sono settori della mobilità “pesante”, come quella marittima e quella aerea, dove l’elettrico non è impiegabile. Significa che ci si deve arrendere a subire passivamente i limiti del motore a combustione? Certo che no. Innanzitutto non si vede perché si debba abdicare alla ricerca sui biocarburanti, dove si intravvedono sviluppi interessanti (e l’Italia ha fatto buone cose). L’inquinamento prodotto dai motori tradizionali è già stato ridotto, sappiamo tutti la sequela da Euro1 a Euro6, e si può cercare di andare oltre. Ragionare su questo significa contemperare la giusta battaglia per la sostenibilità ambientale con l’altrettanto giusta esigenza di consentire una transizione sopportabile in un settore chiave per l’industria europea (tenendo anche conto che se noi la azzoppiamo, altri paesi ne profitteranno per occupare i mercati senza farsi problemi per l’inquinamento…).

Il discorso appena fatto si intreccia col tema del ricorso al nucleare come fonte per la produzione di energia. Anche qui si deve partire da un dato di realtà: quanta energia serve per far funzionare tutte le complessità del nostro mondo sviluppato? Non si tratta solo di fare colonnine per alimentare i motori elettrici. Tutto l’ambiente del digitale, adesso anche con lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale, consuma quantità molto elevate di energia e di conseguenza inquina. La gente non se ne accorge perché i computer non emettono fumo e le operazioni che tutti usiamo quotidianamente a cominciare dalle mail sembrano non richiedere energia particolare, ma così non è.

Dove troveremo l’energia necessaria per tutte le attività che formano il tessuto della nostra civiltà? Gli studiosi seri ci dicono che non è immaginabile che si faccia ricorso solo alle fonti di energia cosiddetta pulita, fotovoltaico ed eolico. Non solo perché comunque non si riuscirebbe a produrre abbastanza potenza, ma anche perché non è che possiamo tappezzare ogni centimetro del nostro territorio di batterie solari e di pale eoliche. Il problema sta già cominciando a porsi nei comprensibili termini di tutela di paesaggi che non possono essere manipolati senza limiti. Questo significa buttarsi sul nucleare alla brutta ignorando i problemi che porta con sé? Certamente no, vuol solo dire che anche in quel campo la tecnologia ha fatto progressi, che il nucleare cosiddetto pulito comincia ad essere già possibile e sicuro (e ulteriori studi per renderlo ancora più sicuro vanno fatti), che oggi si ragiona in termini di centrali di dimensioni che non sono più quelle delle megastrutture di decenni or sono.

L’Unione Europea anziché investire (si fa per dire) in sogni e soggiacere alle mode dei profeti di utopia, dovrebbe impegnarsi a promuovere studi e ricerche per poter affrontare la transizione indubbiamente necessaria in modo da raggiungere l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile senza pagare il prezzo di una insostenibile crisi economica e sociale disastrosa. Fra il resto proprio gli investimenti in studi e ricerche nei campi ricordati contribuiranno intanto a creare lavoro e crescita: lo faranno tanto più quanto più saranno un’iniziativa solidale a livello dei 27 membri, perché non stiamo parlando di piccole imprese affrontabili a livello di singole nazioni.

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