«Export di armi, troppe “manine” su una riforma sbagliata»

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Graziano Delrio, ex ministro nei governi Renzi, Gentiloni e Letta, nonché senatore del Partito democratico, è membro della commissione Affari esteri e difesa di Palazzo Madama, che di recente si è occupata della riforma della legge 185/90. Una norma che garantisce da decenni il controllo da parte di Parlamento e cittadini sulle esportazioni di armi. Nonché sui flussi finanziari privati che le consentono.

Tale legge, apprezzata a livello internazionale, è oggi sottoposta a un tentativo di modifica profonda che ne snaturerebbe il contenuto, rendendo lo strumento molto meno efficace e rendendo opache le transazioni. Per questo, la riforma è stata osteggiata con forza non soltanto dall’opposizione al governo Meloni, ma anche dalla società civile. A partire dalla Rete Italiana Pace e Disarmo.

È una legge di cui davvero non si capisce il senso. Se non si ha nulla da nascondere, perché nascondersi?

Sì, se c’era una legge che aveva caratteristiche importantissime, sia a livello ideale che concreto, e che per questo andava difesa, era proprio la 185/90. Una legge di civiltà, nata dal basso e che per anni ha indicato una direzione chiara: il fatto che il commercio di armi non è un commercio qualsiasi. Necessita di considerazioni specifiche, legate a politica estera, relazioni internazionali, così come di attenzione a fattori etici. Servono criteri politici e di orientamento. 

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Sul commercio di armi, dunque, la politica deve primeggiare sul business. 

Certo. Fu grazie a persone come Elio Pagani della Aermacchi, che fece obiezione di coscienza sulle armi inviate al Sudafrica dell’apartheid, che si partì. Mettendo in evidenza che la democrazia non può chiudere gli occhi né per motivi industriali, né di convenienza economica, sulle armi fornite a soggetti belligeranti, complici di distruzione e a volte di crimini. È in questo senso che occorre garantire un primato della politica.

Al contrario, le modifiche proposte alla legge 185/90 sembrano andare in direzione contraria. Riducono la trasparenza. E anche il ruolo delle organizzazioni non governative, dal momento che il Cisd (il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa, ndr.) non potrà più ricevere informazioni da queste. È un passo indietro anche sul controllo “dal basso”, che finora è stato fondamentale. 

In un suo intervento al Senato ha parlato di una “manina” che potrebbe aver dettato alcuni passaggi del provvedimento.

Sappiamo che ci sono molti interessi in ballo in questi temi. In primo luogo c’è stata una spinta dalle industrie delle armi. E le manine qui possiamo dire che sono parecchie. La richiesta è stata quella di ridurre gli adempimenti burocratici, ma è una richiesta insensata. I dati sulle esportazioni italiane sono tutti in aumento, non ci sono di certo impedimenti dal punto di vista delle procedure. La teoria sulla necessità di eliminare lacci e lacciuoli non ha alcun tipo di riscontro. 

Qualche “manina” possono averla allungata anche le banche che garantiscono le transazioni finanziarie legate al commercio di armi?

All’interno delle operazioni finanziarie ci sono aree opache, ci sono anche affari sporchi. La direttiva europea del 2012 che abbiamo recepito imponeva attenzione proprio sulla trasparenza. Per esempio, la relazione al Parlamento doveva contenere una parte specifica proprio sul lavoro delle banche italiane e sulle operazioni correlate. Sostanzialmente, con la riforma proposta della 185/90, questo obbligo sarebbe abolito. Il che significa, dunque, andare anche contro una direttiva europea. 

Non la stupisce dunque l’ipotesi di un intervento del mondo della finanza.

È chiaro che non ne abbiamo le prove. Ma ebbi una discussione, quando ero capogruppo nella scorsa legislatura, nel momento in cui facemmo approvare la normativa sul contrasto ai produttori di mine. Sappiamo che tale produzione è vietata. Ma c’erano alcuni intermediari che riuscivano ad aggirare la legge per via di alcuni buchi legislativi. Decidemmo perciò di migliorarne il testo per impedirlo. Era un atto dovuto. Eppure, anche in quell’occasione le modifiche furono osteggiate in modo pesantissimo dal sistema bancario.

Io penso invece che gli istituti di credito guadagnerebbero moltissimo agli occhi degli italiani se mostrassero di accettare più trasparenza. Detto ciò, non è mia intenzione mettere nessuno sul banco imputati. Ma, allo stesso tempo, nessuno deve essere al di sopra delle leggi e dello Stato. Tra l’altro, nel disegno di legge non si menziona neppure il Trattato internazionale sul commercio di armi che l’Italia ha ratificato: mi chiedo perché. È un testo dal valore importantissimo. Non è spiegabile. 

Sempre nel suo intervento al Senato si è rivolto in modo accorato alla maggioranza e al governo: ha ricevuto qualche risposta?

No, purtroppo. Anche se ho capito che qualcuno aveva compreso, da certi sguardi e da certe parole di esponenti della maggioranza. Ma nessuno si è voluto scoprire. Devo dire che anche la presidente della commissione Affari esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi, ha tentato di introdurre alcune modifiche positive. Ma le hanno respinte tutte. Così come tutti gli emendamenti presentati dalla minoranza nella direzione di quanto chiedono le associazioni. Anche quelli semplici da recepire. 

L’impressione, guardando la questione fuori dalle stanze del potere, è che il settore delle armi goda di un potere soverchiante. Che modello di sviluppo è quello che tratta merci di questo tipo come fossero prodotti qualsiasi?

Questo è un elemento significativo. C’è un clima culturale sbagliato. E di propaganda, anche, che è fuorviante. Si cerca di far credere che non ci sia alternativa. Come ha ricordato il Presidente Mattarella, siamo ormai nel mondo a 2.500 miliardi di dollari di spesa militare. L’Europa, con i suoi 27 sistemi d’arma non coordinati tra loro, già stanzia 350 miliardi. Ben più della Russia, Paese in guerra.

E però sembra passare come qualcosa di inevitabile. In qualche modo mi viene in mente la discussione che ci fu sull’abolizione dello schiavismo, negli Stati americani del Sud. Si diceva che non avrebbe potuto esistere un’economia senza gli schiavi. La storia ha dimostrato il contrario. Allo stesso modo, grazie a uno sforzo è stato possibile ridurre le testate nucleari. 

Eppure la Nato e gli Stati Uniti insistono per superare ampiamente il 2% del Pil di spesa militare, ormai sembra un fatto assodato. 

E anche qui è possibile comportarsi diversamente. S’intenda: sappiamo che non viviamo in un mondo di santi e che i sistemi di difesa servono. Ma ad esempio un coordinamento europeo permetterebbe di risparmiare e migliorare l’efficienza della spesa. 

Pensa che in caso di approvazione si possa pensare a un referendum abrogativo?

Non so dire se tecnicamente sia possibile, ma politicamente di certo dovrebbe ripartire un dibattito. In Italia e anche in Europa. Ci potrebbe essere una nuova mobilitazione dal basso. 

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