Uno dei mantra della campagna elettorale di Donald Trump è stato il taglio delle tasse, ma per un Paese che finanzia oggi più del 26% della spesa pubblica a debito sarebbe veramente possibile rinunciare a parte delle entrate? Sì, teoricamente sarebbe possibile tramite estensivi tagli alle uscite. Tuttavia, come già accaduto la scorsa settimana quando la sospensione a opera di Trump di migliaia di miliardi di fondi per le sovvenzioni pubbliche è stata bloccata da due giudici federali, sembrerebbe che la caparbietà del presidente statunitense nel perseguire questa strada abbia dei limiti: contrarre il bilancio potrebbe rivelarsi più laborioso e complicato di quanto avesse previsto.
Ormai per i governi nazionali le decisioni di spesa pubblica, siano esse espansive o restrittive, non possono prescindere dall’andamento del debito. Gli Stati Uniti, per quanto rappresentino un unicum da questo punto di vista, non fanno eccezione.
Alcuni numeri
Negli ultimi anni il debito pubblico statunitense non ha fatto altro che crescere, una dinamica ulteriormente accelerata dalla pandemia. Per collocare temporalmente l’entità di questo aumento, oggi il debito federale “detenuto dal pubblico”[1] ammonta a circa 28,3mila miliardi di dollari e circa due terzi di esso si sono accumulati solo negli ultimi 24 anni (Figura 1). La dinamica del saldo di bilancio mostra chiaramente come una tale esplosione sia stata possibile: sono circa 20 anni che gli Stati Uniti non registrano un avanzo primario e devono ricorrere al debito per far fronte non solo alle spese correnti ma anche alla crescente mole di interessi sulle obbligazioni sottoscritte.
Figura 1
Il rapporto debito su PIL è oggi al 97,8%, ma, secondo le ultime previsioni del Congressional Budget Office sulla base della legislazione vigente, arriverà al 118% nei prossimi dieci anni. Nello stesso intervallo di tempo il deficit crescerà da 1,9 a 2,7mila miliardi di dollari annui (attorno al 6% del PIL) (Figura 2), mentre la spesa per interessi ammonterà a circa 21mila miliardi, salendo da una media del 2,1% del PIL (dal 1975 al 2024) al 4,1%. Per mettere tutto questo in prospettiva, le entrate dello Stato oggi valgono solo il 17,3% del PIL nazionale e aumenteranno solo dell’1% nel 2035, mentre la spesa pubblica lieviterà di ben 3 punti percentuali del PIL in più.
Figura 2
La peculiarità del debito pubblico
Il debito pubblico rappresenta una grandezza economica con caratteristiche peculiari che ne determinano dinamiche ed evoluzione. A differenza dei privati, che avendo una vita limitata prima o poi dovrebbero ripagare i debiti, gli Stati hanno un orizzonte temporale di sopravvivenza indefinito: è dunque pratica comune quella di ripagare le obbligazioni sottoscritte che arrivano al termine della loro vita emettendone di nuove e rifinanziando periodicamente il debito senza mai estinguerlo.
Per un Paese come gli Stati Uniti, solido economicamente, profondamente integrato nell’economia mondiale, forte del dollaro e di mercati finanziari liquidi e profondi (i Treasuries sono considerati l’asset sicuro per eccellenza), il default, non volontario ovviamente, è uno scenario se non impossibile quanto meno molto improbabile, almeno finché gli investitori istituzionali decideranno di presentarsi alle aste.
Ci sono però delle variabili che possono creare scossoni importanti e improvvisi. Una di queste è l’inflazione perché, se elevata come è avvenuto in tempi recenti, può essere un’arma a doppio taglio per le finanze pubbliche: da una parte, alleggerisce il peso reale del debito; dall’altra, costringe la banca centrale ad alzare bruscamente il tasso d’interesse di riferimento per tenere a bada la corsa dei prezzi, rendendo più costoso al Tesoro rifinanziare il debito e aggravando il peso degli interessi sulla spesa pubblica.
Infine, un ulteriore fattore di rischio che può influenzare il costo del mantenimento del debito sono le valutazioni da parte delle agenzie di rating. Tuttavia, nonostante gli outlook sulle obbligazioni statunitensi siano peggiorati negli ultimi anni, i rating non costituiscono ancora fonte di preoccupazione, almeno per il momento, rimanendo ben lontani dal limite dei cosiddetti junk bond.
Il “vero” pericolo del debito
Nel complesso, gli Stati Uniti non rischiano il default per via del loro enorme stock del debito. Il vero problema per il Tesoro e l’economia in generale è rappresentato dal costo per il mantenimento di questo treno in corsa.
Gli interessi pagati ai detentori delle obbligazioni nell’anno fiscale 2024 (ottobre 2023-settembre 2024) sono ammontati a circa 882 miliardi, più del doppio rispetto a 4 anni fa quando la stessa voce assorbiva “solo” 345 miliardi dal bilancio federale. Questa crescita sproporzionata ha portato gli interessi sul debito ad assorbire il 13% del bilancio di Washington dello scorso anno, dietro solo alla previdenza sociale (21%) e a Medicare (13,3%) ma più della difesa (12,5%).
Di per sé ciò dovrebbe già essere un segnale di allarme sulla salute delle finanze pubbliche degli USA e sulla loro sostenibilità nel lungo periodo. Più nel dettaglio, come menzionato sopra, poiché il 26% della spesa federale è finanziata con nuovi disavanzi anche per pagare le passività pregresse, ogni anno il Paese aumenta il suo debito per mantenere quello già esistente, entrando in un circolo vizioso che rischia di soffocare l’economia: tale dinamica distoglie risorse da altri progetti e in più non genera nessun ritorno né di tipo economico né sociale, rimanendo un peso morto per il Paese (Figura 3).
Stante il fatto che la Federal Reserve è un soggetto indipendente, riuscire a invertire questa tendenza richiede all’amministrazione Trump di calibrare con cura manovre restrittive che razionalizzino il budget alla ricerca di un avanzo primario senza però avere effetti distorsivi sull’economia. Per Trump però cercare di tenere sotto controllo il debito potrebbe non rappresentare una priorità anche per via delle decisioni che questa linea lo costringerebbe a prendere.
Figura 3
Una fine ineluttabile?
Escludendo la possibilità di una ristrutturazione del debito (pessimo messaggio da mandare ai mercati), purtroppo rimangono poche alternative percorribili.
La via più diretta prevederebbe una politica fiscale restrittiva che si tradurrebbe in tagli alla spesa pubblica e/o aumenti delle tasse. Per l’attuale inquilino della Casa Bianca intraprendere politiche fiscali di austerityimplica due ordini di problemi.
Il primo è politico. In particolare, l’aumento delle tasse rischia di costare al tycoon la propria popolarità nei confronti della sua base, tanto più avendo promesso il contrario in campagna elettorale. Trump, da questo punto di vista, non ha nessun incentivo né niente da guadagnare a intraprendere il percorso necessario per riportare il debito su una traiettoria sostenibile, tanto più che essendo il suo ultimo mandato potrebbe solo mettere le basi di una strategia che necessariamente richiederebbe un orizzonte di medio periodo per dare i suoi frutti, con il rischio di essere disfatta dall’amministrazione successiva. Allo stesso tempo, proprio perché non deve preoccuparsi di una possibile rielezione, l’attuale presidente si trova nella posizione di poter prendere decisioni almeno inizialmente impopolari, per quanto irrealistico.
Il secondo problema è economico: come anche ricordato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a Davos, per stimolare la crescita dell’economia servono investimenti, che, almeno in parte, devono provenire dal settore pubblico. Ridurre la spesa pubblica e al tempo stesso aumentare le tasse può, e nel recente passato ne abbiamo avuto la conferma, deprimere l’economia più di quanto sia sostenibile per continuare a crescere. In secondo luogo, l’unica voce di spesa sulla quale la Casa Bianca non può avere un controllo diretto sono proprio gli interessi sul debito: paradossalmente, contraendo la spesa pubblica, questi ne impegnerebbero una quota sempre maggiore.
I cittadini americani da questo punto di vista possono però stare tranquilli perché Trump nel suo programma prevede sia il taglio delle tasse che il taglio della spesa pubblica. Superficialmente l’approccio potrebbe sembrare corretto, ma andando a guardare più in profondità emergono i primi nodi. Innanzitutto, di natura temporale: tagliare le tasse è più facile di contrarre la spesa, come lo hanno dimostrato gli eventi della scorsa settimana. Inoltre, la crescita apparentemente incontrollata della spesa pubblica, ormai strutturalmente superiore alle entrate dello Stato, nel recente passato è stata ignorata sia dai repubblicani che dai democratici, il che pone seri dubbi sulla fattibilità di una sua riduzione al Congresso, un’impresa che anche per il nuovo DOGE, il dipartimento per l’efficienza governativa, potrebbe rivelarsi ardua.
Il debito americano, insomma, almeno nel prossimo futuro è destinato a continuare a crescere, nonostante l’impegno del neopresidente. La vera sfida sarà riuscire a riportarlo su una traiettoria controllabile e forse anche per questo Trump vorrebbe avere più influenza sulla politica monetaria stabilita dalla Fed, la cui indipendenza però rimane fondamentale.
[1] L’aggregato, che sarà oggetto di questa analisi, rappresenta il debito che il governo federale deve a soggetti esterni a esso. Esclude dunque sia le passività delle autorità decentrate sia quelle intra-governative.
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