«I dazi di Trump? Sarebbero controproducenti per gli Usa, e ben presto sarebbero messi in discussione dagli stessi protagonisti dell’economia americana. Ma non è questo il punto. Il punto è che la loro minaccia costituisce una “sveglia” per noi europei». Parole di Patrizio Bianchi, uno dei maggiori economisti industriali italiani nonché ex ministro dell’Istruzione del governo Draghi. Autore di centinaia di pubblicazioni, è stato ordinario (ora emerito) a Ferrara, dove è diventato prima preside di Economia e poi Rettore. È stato presidente di Sviluppo Italia (ora Invitalia) e consigliere di amministrazione dell’Iri. Per Bianchi negli Usa nessuno vuole davvero i dazi perché colpirebbero l’importazione di beni essenziali, aumentando i costi per le aziende e i consumatori: «Il risultato sarebbe un’impennata dell’inflazione, proprio mentre la Fed cerca di contenerla, e un rallentamento dell’economia che danneggerebbe anche il settore manifatturiero americano». Quanto all’Europa, è una questione articolata.
Bianchi riconosce che il modello europeo va ripensato: se temiamo i dazi, è perché non contiamo nulla, e se non contiamo nulla, è perché non sappiamo affrontare le sfide globali. Le istituzioni Ue, pensate per un’epoca diversa, hanno creato un sistema basato sulla regolamentazione anziché sulla crescita. Invece di sostenere le imprese, impongono vincoli che frenano innovazione ed espansione. Il Green Deal poteva essere un volano per l’industria, ma è diventato una gabbia di norme che la soffocano.
Oggi, l’assenza di una politica industriale comune è un disastro. L’Europa è nel pieno di una guerra tecnologica globale, ma resta intrappolata tra burocrazia e frammentazione, mentre Stati Uniti e Cina investono miliardi per dominare settori chiave come intelligenza artificiale, semiconduttori ed energie rinnovabili. Senza una strategia chiara, rischia di ridursi a un semplice mercato di consumo per le potenze esterne.
I bandi europei ne sono un esempio perfetto: invece di favorire la crescita industriale, disperdono risorse in procedure complesse e vincoli amministrativi. Per ottenere un finanziamento, bisogna costruire consorzi tra più Paesi e rispettare regole rigidissime. Il risultato? Fondi polverizzati in mille rivoli senza un vero impatto competitivo. È la politica della sopravvivenza, non del progresso.
Bianchi individua due pilastri per una politica industriale efficace. Il primo è il settore tecnologico e digitale: l’Europa ha le competenze e le infrastrutture per competere, ma servono investimenti unitari in IA, semiconduttori e piattaforme digitali. Il secondo è il welfare, che non deve essere solo un costo, ma un motore di crescita. Investire in formazione, ricerca e protezione sociale crea le basi per un’innovazione solida e sostenibile.
D: Secondo quanto affermato dallo stesso presidente Trump, c’è una seria possibilità che vengano imposti pesanti dazi all’Europa. Come finirà?
R: L’introduzione di dazi avrà inevitabilmente un impatto negativo anche sull’economia statunitense, che può essere suddivisa in due grandi settori. Da un lato, c’è l’economia manifatturiera, che include l’industria automobilistica, la meccanica e la chimica. Questo comparto è già in difficoltà e, nei rapporti commerciali con l’Europa gli Stati Uniti acquistano più di quanto vendano. Dall’altro lato, però, c’è l’economia digitale, che invece è in forte crescita e registra un saldo positivo. Trump, imponendo i dazi, ha di fatto riconosciuto la debolezza del settore manifatturiero americano. Se afferma che l’economia del Paese ha bisogno di protezione, significa che riconosce la fragilità di questa parte dell’economia. Inoltre, la parte più competitiva dell’economia americana, ovvero quella digitale, detiene ormai posizioni monopolistiche a livello globale, il che potrebbe generare malcontento tra gli altri Paesi. Un ulteriore aspetto da considerare è che gran parte dell’economia americana dipende ancora da filiere produttive globali, le global value chains. Le industrie manifatturiere non possono operare senza importare componenti e semilavorati da Messico, Canada e Cina. Anche l’economia digitale, per mantenere la sua competitività, ha bisogno di un mercato interno aperto e dinamico. Un’economia chiusa, infatti, non giova né alle grandi aziende tecnologiche come Tesla di Musk e Meta di Zuckerberg, né agli altri colossi dell’innovazione.
D: E dunque, cosa accadrà secondo lei? Gli attori forti della politica americana accetteranno la politica dei dazi senza fiatare?
R: È probabile, quindi, che all’interno degli Stati Uniti emerga presto una reazione contro questa politica protezionistica. Inoltre, bisogna considerare l’importanza della manodopera immigrata, fondamentale per settori chiave come l’agricoltura. Tutta la parte centrale degli Usa e tutta l’area agricola dipendono dalla presenza di lavoratori stranieri, molti dei quali precari. Se da un lato Trump vuole dimostrare un cambiamento radicale, dall’altro l’economia americana ha un bisogno strutturale di apertura: sia per il settore digitale, che continua a trainare la crescita, sia per il manifatturiero, che necessita di importazioni, sia per l’agricoltura, che dipende dalla forza lavoro immigrata. Per questo motivo, è plausibile che negli Stati Uniti si avvii presto una riflessione sulla sostenibilità di questa politica. Peraltro, molti osservatori ritengono che nel breve termine l’introduzione dei dazi porterà tensioni inflazionistiche: e mentre riportare le aziende in America è un processo lungo, l’impatto immediato sarà un aumento dei prezzi. Di fronte a queste conseguenze, è probabile che ci sia un ripensamento sulle misure estreme adottate da Trump.
D: Guardando le cose realisticamente, da un lato Trump potrebbe danneggiare l’industria europea, ma dall’altro anche l’Europa sta già affrontando sfide enormi: l’aumento dei costi energetici, la concorrenza asiatica, la transizione ecologica. Eppure, l’UE sembra priva di una strategia industriale adeguata.
R: È proprio qui che l’Europa dovrebbe cogliere l’opportunità di questa situazione per definire finalmente una strategia industriale unitaria. Oggi nessun singolo Paese europeo ha le dimensioni necessarie per competere da solo su scala globale, quindi serve un piano condiviso. Il problema, però, è che questa strategia ancora non esiste, anche se sarebbe assolutamente necessaria. Ci sono due aspetti fondamentali da considerare. Il primo è quello della nuova economia digitale: l’Europa possiede le competenze scientifiche, le infrastrutture e persino una rete di supercomputer che potrebbero metterla in una posizione di leadership. Eppure, non riesce a giocare un ruolo dinamico in questo settore. Il secondo aspetto riguarda il modello di crescita europeo, che è storicamente legato al welfare. Finora, questo sistema ha stimolato innovazione e sviluppo, grazie all’attenzione che l’Europa ha sempre riservato a settori come la salute, l’istruzione e la ricerca. In molte altre parti del mondo questi investimenti non esistono con la stessa intensità, ed è proprio questa caratteristica che ha permesso all’Europa di trainare la crescita in passato. Ora, però, è necessario costruire su queste basi per restare competitivi.
D: Molte aziende europee lamentano un eccesso di regolamentazione europea che penalizza la competitività rispetto a Usa e Cina. È un problema reale o una retorica strumentale?
R: Una politica industriale non significa aumentare la regolamentazione. Anzi, se l’Europa smettesse di produrre troppe norme e si concentrasse di più su una vera strategia industriale – cioè su una visione d’insieme di come far crescere il proprio tessuto produttivo – sarebbe molto più efficace. Dal 2008 l’Europa è rimasta in una condizione di stagnazione economica, con alti e bassi a livello nazionale, ma senza una reale crescita complessiva. Il numero di imprese è diminuito in molti Paesi, senza però riuscire a consolidare grandi gruppi capaci di competere con le aziende americane o cinesi. L’Europa potrebbe tornare a crescere solo investendo su un’industria moderna, in grado di affrontare le sfide di un’economia globale. In questo senso, è fondamentale andare avanti con il progetto europeo. Tuttavia, vedo che uno degli obiettivi principali degli attacchi di Trump sarà proprio l’Europa, e questo rappresenta un rischio ulteriore per la sua capacità di reagire e di riorganizzarsi.
D: Certo, Trump attacca l’Europa, ma l’Europa si è indebolita anche per responsabilità proprie.
R: Il problema principale è che non è riuscita a compiere quel passaggio fondamentale di cui parlavamo: invece di evolvere da un sistema basato sulla regolamentazione a una vera politica industriale e di crescita comune, è rimasta bloccata in una logica burocratica. È proprio su questo punto che bisogna intervenire. Se l’Europa continua a girare in tondo senza una strategia chiara, il rischio è che resti sempre più marginale nello scenario globale. Servirebbe un vero cambio di passo, ma se non si prende questa direzione, la situazione rischia di diventare ancora più complicata.
D: Con la reintroduzione del Patto di Stabilità, quali sono i principali rischi per la crescita economica europea e, in particolare, per l’Italia?
R: Più che di un Patto di Stabilità, dovremmo parlare di un vero e proprio Patto di Crescita. Come dicevo, l’Europa è in stagnazione dal 2008 e, se non cambia approccio, il rischio è di strangolare tutti, anche le economie più solide. Quello che servirebbe non è un semplice ritorno alle vecchie regole, ma un passaggio più coraggioso: un nuovo patto che non si limiti a garantire la stabilità, ma che metta al centro la crescita. Questo significa, da un lato, rafforzare il ruolo dell’Europa come attore economico e, dall’altro, riuscire finalmente a coordinare tutte le politiche necessarie per far ripartire lo sviluppo.
D: Il Green Deal, che doveva essere il pilastro della politica industriale e ambientale dell’UE, è ora sotto attacco dal Ppe (Partito Popolare Europeo: è la famiglia politica europeista di Centro e di centro-destra) e da altri partiti nei singoli Stati. Crede che sopravviverà nella sua forma attuale?
R: In un certo senso, il Ppe sta intercettando una questione fondamentale: il Green Deal è stato interpretato più come un insieme di regole e vincoli che come una base scientifica su cui costruire la crescita economica dell’Europa. Questo è un problema che va oltre le posizioni del Ppe o dei Socialdemocratici: in molti Paesi europei stanno emergendo forze di estrema destra che non si limitano a criticare il Green Deal, ma mettono in discussione l’intero progetto di un’Europa unita su una visione comune. Per questo bisogna tornare a discutere nel merito di cosa debba essere oggi un Green Deal. Non può riguardare solo la transizione ambientale, ma deve includere anche risposte a nuove sfide sociali. L’Europa è un continente che invecchia rapidamente: sebbene oggi anche la Cina stia affrontando lo stesso problema, l’Europa ha già da tempo esigenze sociali molto diverse rispetto a 25 anni fa. Questo significa che la sostenibilità ambientale e quella sociale devono procedere insieme, perché una crescita sostenibile deve tenere conto di entrambi gli aspetti.
D: Dunque, qual è il vero punto sul Green Deal?
R: Il vero punto, quindi, è capire come far ripartire un processo di crescita che non sia in contrapposizione con la sostenibilità economica, ma anzi, che la utilizzi come leva per rafforzare il ruolo dell’Europa nel mondo. Al contrario, Trump ha scelto una strada opposta: ha abbandonato completamente l’agenda green per puntare tutto sullo sfruttamento delle risorse fossili, abbassando i costi energetici per le imprese e cercando così di rilanciare l’industria americana. Ma l’Europa non può seguire lo stesso modello. Non abbiamo giacimenti di petrolio o gas paragonabili a quelli americani, quindi la nostra alternativa è investire seriamente sulle energie rinnovabili. Per questo la transizione green non è solo una scelta ambientale, ma una necessità strategica per ridurre la dipendenza energetica dall’estero. Il vero nodo per i prossimi anni sarà proprio questo: trovare il modo di conciliare la sostenibilità ambientale e quella sociale all’interno di un progetto di crescita solido e duraturo.
D: Non è che ci stiamo trasformando nella nuova Repubblica di Weimar, con le forze estreme che avanzano da ogni lato, come gli spartachisti e i nazisti?
R: Onestamente, oggi gli spartachisti non li vedo più. Quello che vedo, invece, è un’avanzata delle destre in tutta Europa, un fenomeno che, dopo il 1989, si è esteso anche all’ex area comunista. Questo è un aspetto molto preoccupante, perché qui si intrecciano sia fattori economici che politici. Ma il vero problema è che oggi neppure le grandi economie europee reggono più come un tempo. La Germania è in difficoltà, la Francia lo stesso, e l’Italia, nonostante i proclami, ha chiuso l’anno con una crescita pari a zero. La realtà è che senza un’industria solida, capace di rispondere ai nuovi bisogni della popolazione, la crescita rimane solo un concetto astratto. Io sono convinto che il punto centrale sia proprio questo: tornare a ragionare seriamente sulla crescita. Ma non una crescita qualsiasi, bensì una crescita basata sull’industria, su nuove tecnologie e su una visione strategica che metta al centro l’innovazione. Per l’Italia e per l’Europa, questa è l’unica strada percorribile. Pensare di risolvere i problemi chiudendoci dentro nuove barriere commerciali o reinventando vecchi blocchi economici è un’illusione. Le economie bloccate e frammentate non hanno mai funzionato, e a pagare il prezzo più alto sarebbero proprio i Paesi più piccoli. Per questo, credo che non ci siano alternative: l’Europa deve ripartire dall’industria e dalla crescita, altrimenti il rischio è quello di restare intrappolati in una stagnazione pericolosa.
D: Sempre guardando le cose con obiettività, non è forse arrivato il momento di riformare profondamente l’Europa? Dopotutto, questa UE è stata costruita attorno alla Germania, come dimostrano i dati sull’inversione (a favore di Berlino) delle partite correnti fra stati europei nei primi anni Duemila. Non sarebbe il caso di ripensarla completamente?
R: Potrebbe essere necessario riformare tutto, ma il punto è farlo con una visione di lungo periodo, superando un’Europa che ancora oggi è modellata sulla Germania di 25 anni fa. La vera questione è quale identità vogliamo dare all’Europa nel futuro. Da una parte, ci sono spinte neo-sovraniste sempre più forti che chiedono di rimettere tutto in discussione. Su questo, sono d’accordo con lei: l’Europa ha bisogno di un ripensamento serio e non possiamo più evitarlo. Ma immaginare che la soluzione sia frammentarla in nazionalismi sempre più rigidi è un’illusione. Come si diceva, nessun Paese europeo, da solo, ha la forza di reggere la competizione globale. E infatti, i movimenti sovranisti stanno diventando sempre più influenti in tutta Europa: dall’Italia alla Francia, dalla Germania all’Austria e all’Olanda. Il rischio è che questa ondata di nazionalismi finisca per indebolire ulteriormente l’Europa in un momento storico in cui le sfide sono troppo grandi per essere affrontate singolarmente. Le faccio un esempio concreto.
D: Un esempio concreto della ragione per la quale non possiamo pensare di agire singolarmente, in quanto Stati?
R: Se guardiamo ai brevetti internazionali richiesti nel 2023, ne sono stati registrati circa 3 milioni a livello globale. Di questi, quasi la metà – circa 1,4 milioni – proviene dalla Cina. Gli Stati Uniti ne hanno registrati circa 500mila. E l’Europa? Il Paese europeo con il maggior numero di richieste è la Germania, che si ferma a circa 100mila. L’Italia è ferma a 21mila. Questi numeri danno la misura della capacità di innovazione mondiale. Se l’Europa agisce unita, può competere con la Cina e addirittura superare gli Stati Uniti. Se invece ogni Paese gioca per conto proprio, siamo tutti irrilevanti, compresa la Germania. Questo dimostra che non è solo una questione di scelta politica, ma di necessità economica. E significa che l’Europa deve essere riformata, certo, ma non per smantellarla, bensì per renderla più efficace. Bruxelles non può limitarsi a produrre regolamenti burocratici: serve una politica industriale che permetta alle aziende europee di competere con quelle americane e cinesi. In un mondo in continuo movimento, l’Europa deve essere un attore protagonista, non un insieme di piccoli stati che cercano di resistere da soli. Per questo, riformare l’UE è essenziale, ma il vero obiettivo deve essere rafforzarla, non indebolirla.
D: Secondo lei i bandi europei funzionano davvero? Per ottenere un finanziamento da un milione di euro bisogna mettere insieme tante aziende per poi dividere somme irrilevanti ai fini della ricerca e dello sviluppo. Servono?
R: Questo rientra esattamente nel problema che dicevo prima. Se guardiamo all’insieme dei fondi europei stanziati in questi anni, il volume di risorse è effettivamente in grado di generare un cambiamento concreto.
Ma il problema è che vengono frammentati troppo. Se ogni bando viene spezzettato per Paese, poi ogni Paese lo suddivide per regione, ogni regione per comune, alla fine nessuno ha risorse sufficienti per fare un salto di qualità: si sopravvive, ma non si cresce. Le faccio un esempio concreto. In Europa oggi esiste una rete di supercomputer di altissimo livello, che potrebbe rappresentare la base per uno sviluppo competitivo dell’intelligenza artificiale a livello europeo, dato che l’IA ha bisogno di enormi capacità di calcolo. Insomma, questi computer potrebbero essere una risorsa strategica. Ma se ogni Paese li usa per conto proprio senza una visione comune, l’infrastruttura diventa di fatto inutile. Se guardiamo alle risorse impegnate dall’Europa e alla sua capacità scientifica, il potenziale per competere a livello globale c’è tutto. Il problema è che, come dice lei, l’approccio attuale sembra più orientato alla semplice sopravvivenza che a una vera strategia di crescita. E qui non si tratta di essere ottimisti o pessimisti, ma di capire che siamo arrivati a un punto critico: o si cambia approccio, o si rischia di restare indietro. Questo è il vero nodo della questione.
D: Cosa devono fare le imprese?
R: Devono iniziare a pensarsi in una prospettiva globale, trovando modalità di crescita che includano forme di collaborazione e di aggregazione. È fondamentale svilupparsi in un’ottica di squadra, perché oggi, più che mai, serve un approccio collettivo per competere a livello internazionale. Questo vale per l’Italia, ma anche per tutta l’Europa.
D: Quindi si riferisce anche al consolidamento dei settori? Meno imprese, ma più grandi?
R: Sì, anche. Il consolidamento dei settori è un passaggio necessario. Siamo stati capaci di far crescere piccole imprese fino a farle diventare realtà intermedie, ma non siamo riusciti a compiere il passo successivo: creare grandi imprese europee che possano competere su scala globale. E questo è un problema che non riguarda solo i governi e la loro visione strategica, ma anche il modo in cui i sistemi produttivi si auto-organizzano. Probabilmente servirebbe un’ulteriore riflessione su questo punto, ma è chiaro che il passaggio a un livello di impresa più strutturato, con dimensioni realmente europee, non è più rinviabile.
D: Trump potrebbe addirittura farci bene, nel senso che ci dà una svegliata?
R: In un certo senso, sì, ma solo se lo interpretiamo per quello che è: una sfida da raccogliere e, potenzialmente, da vincere. Trump può farci bene se ci spinge a reagire, a smettere di rimanere passivi e ad attrezzarci per competere in un contesto globale sempre più complesso. Il problema è che, invece di affrontare la situazione con spirito di iniziativa, molti cercano semplicemente di ritagliarsi un angolino di sicurezza nel nuovo scenario mondiale. Ma così non funziona. Ecco perché questo momento è cruciale. Io sono convinto che possiamo rispondere in modo positivo, ma dobbiamo essere consapevoli della sfida che abbiamo davanti. Trump, in fondo, non ha creato questa situazione, l’ha solo resa più evidente e più drammatica. Il nodo da superare esisteva già prima di lui: ora sta a noi decidere se affrontarlo o subirlo.
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