La radio delle donne zittita dai taleban e la congiura del silenzio

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«All’inizio ci hanno incoraggiate, dicevano che poiché non potevano garantire la frequenza alle ragazze era utile che la scuola arrivasse nelle loro case. E abbiamo iniziato. Non ci hanno fermato». Così raccontava Hamida Aman ad Avvenire nell’aprile 2024. Poco meno di un anno dopo è accaduto: le hanno fermate. La notizia è di martedì, ma come spesso accade quando si tratta dell’Afghanistan, nei media internazionali non ha avuto il rilievo che avrebbe richiesto la sua rilevanza. Il complotto del silenzio, che ha violentemente zittito Radio Begum, l’unica radio e televisione di donne per le donne nell’Emirato islamico, ha complici anche in Occidente.

Martedì, dunque, un drappello di ufficiali dell’intelligence, assistiti da rappresentanti del Ministero dell’informazione e della cultura, ha fatto irruzione nella sede di Kabul. Gli uomini hanno sequestrato computer, telefoni, hard disk, e arrestato due dipendenti maschi. Le giornaliste, le psicologhe, le teologhe, le educatrici e le dottoresse che dai microfoni dell’emittente nata l’8 marzo 2021 e finanziata anche dall’Unesco (a proposito, ecco a cosa servono i “carrozzoni” da cui Trump sta scendendo precipitosamente: a dare voce a chi non ce l’ha più) non erano presenti negli studi radiofonici e televisivi, perché nemmeno i media sono stati risparmiati dall’odio misogino del regime integralista afghano. Ma lavoravano da casa e resistevano, come tutte le ragazze e le donne in quella prigione a cielo aperto che è diventato l’Afghanistan dal 15 agosto 2021, quando i taleban si sono impadroniti del potere.

Radio Begum, che da un anno era diventata anche una tv satellitare, trasmetteva, in parte da Parigi, le lezioni previste dai programmi scolastici ufficiali nelle due lingue più diffuse, il pashtun e il dari. In un Paese in cui l’analfabetismo femminile è all’80 per cento contro il 51 per cento di quello maschile, la radio era una opportunità unica per le ragazze di continuare a imparare e per le donne adulte di aprire la mente. Radio Begum, che per volontà della fondatrice Hamida Aman, giornalista afghana-svizzera residente in Francia, aveva preso il nome della nonna – “Principessa” –, non diffondeva solo istruzione, ma attraverso le 18 antenne installate in 20 delle 34 province afghane raggiungeva tre quarti del Paese, trasmetteva dibattiti sull’educazione dei bambini, sui rapporti di coppia, su cosa prevede l’islam rispetto all’età del matrimonio, sulla salute fisica e mentale, e approfittando dei minimi spazi che gli occhiuti controllori concedevano, forniva nozioni utili alle donne e alle ragazze che per lo più vivono isolate in casa, aprendo agli interventi delle ascoltatrici da casa.

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Che infatti chiamavano numerose. Hamida Aman aveva raccontato ad Avvenire che una delle ascoltatrici più assidue era Fatima, 16enne di Bamyan, cieca dalla nascita e praticamente analfabeta. «Non aveva mai frequentato scuole speciali, né imparato l’alfabeto Braille. Ora non si perde una delle nostre lezioni, e ci ha detto che così ha la sensazione di andare a scuola. La radio è il suo unico contatto con la realtà».

Un’immagine della redazione di Radio Begum prima della chiusura da parte dei taleban – ANSA

Tutto finito? Se la parola più citata dell’anno è speranza, allora l’augurio è che sia solo una prova di forza, come già in passato era accaduto con alcuni programmi che erano stati sospesi o cancellati dopo il mancato imprimatur dei taleban. Ma questa volta ci sono gli arresti, ci sono le accuse di aver abusato della licenza diffondendo contenuti di reti televisive straniere: un’accusa pesantissima per chi sostiene che tutto ciò che viene dall’esterno è fonte di corruzione.

Restiamo con le nostre domande aperte: a chi davvero interessa che Radio Begum sia stata chiusa? Al silenzio imposto a una delle più importanti emittenti indipendenti in Afghanistan corrisponde l’assordante silenzio dell’Occidente. A parte le doverose dichiarazione di Reporter senza frontiere e dell’Associazione per la protezione dei giornalisti afghani, che lamentano il recente giro di vite alla libertà (sic) di stampa nel Paese (nel 2024 sono state chiuse 12 testate, con numerosi arresti arbitrari), a chi davvero interessa che una emittente di donne per le donne sia stata silenziata? Domanda senza risposta, come quella d’altronde che la giornalista afghana Nazira Karima ha posto l’altro ieri al presidente Donald Trump sull’esistenza di un piano per il futuro del suo popolo. Ed ecco la replica: «Lei ha una bella voce e un bell’accento. L’unico problema è che non capisco una parola di quello che dice. Ma le dirò questo: buona fortuna. Vivi in pace». C’è in gioco davvero più che una radio tv. C’è in gioco il destino di metà della popolazione di un intero Paese. C’è in gioco, in fondo, l’umanità di ciascuno di noi.





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