Piemonte “terra di confino” dove le famiglie di ‘ndrangheta «sono state adottate»

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TORINO «Il Piemonte non è terra originaria di mafie tradizionali, affermazione spendibile per altre Regioni del Centronord quali Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, da cui provengo e da cui mi porto un’esperienza antimafia importante sia in primo grado che in secondo grado, ma non posso non evidenziare che questo distretto “vanta” gravissimi crimini mafiosi in danno di due magistrati». È durissima l’analisi del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino, Lucia Musti, in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2025. Nella sua relazione, infatti, Musti ha posto l’accento sui diversi aspetti legati alla presenza della criminalità organizzata e, in particolare, della ‘ndrangheta calabrese nel territorio torinese e piemontese, cristallizzata dal decine di operazioni e centinaia di arresti. 

A proposito di magistrati vittime della criminalità organizzata, il riferimento di Musti è a Giovanni Selis, Pretore, che il 13 dicembre 1982 ha subìto il primo attentato in Italia riconducibile a matrice mafiosa, morto poi suicida il 9 maggio 1987, e l’omicidio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, risalente al 26 giugno 1983. Per il presidente «è, in ogni caso, questa la sede per una corretta valutazione delle sentenze passate in giudicato che hanno visto emettere condanne per reati aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione di associazioni mafiose, nonché sancito il principio della competenza ed operatività nel nostro territorio di locali di ‘ndrangheta». Ed è anche la sede «per la corretta interpretazione delle indagini svolte dalla Dda, ormai patrimonio comune, da Minotauro a San Michele, fino alle più recenti, di cui alle cronache cittadine», ha osservato la pg Musti.

Lucia Musti – Pg Corte d’Appello Torino

Secondo il procuratore generale, infatti, «la conclusione è che, per riassumerne il contenuto, pericolosa, menzognera e fuorviante è l’affermazione “qui da noi le mafie non esistono” o “le mafie non sono affar nostro” e “noi abbiamo gli anticorpi”, e tanto vale per il Piemonte e la Valle d’Aosta, ma anche per l’Emilia Romagna, per la Lombardia e per il Veneto, che di fatto vedono le rispettive Direzioni Distrettuali Antimafia interagire tra di loro e constatare gruppi criminali in contatto ed interazione, ovvero agire separatamente, in applicazione dell’utile principio della cosiddetta “pax mafiosa”, ed ancora le indagini collegate e di coordinamento operate dalla Direzione Nazionale Antimafia tra le Direzioni Distrettuali Antimafia del Nord con quelle del Sud, di cui è alto testimone il nostro Procuratore Distrettuale Giovanni Bombardieri il quale – già a Reggio Calabria – conosceva perfettamente il funzionamento e l’operatività della ‘ndrangheta in Piemonte e Valle d’Aosta, ma anche nell’America latina». Nella sua relazione, il pg ricorda come sia «indubbio che, per mole di affari e per operatività transnazionale, grazie anche alla connotazione altamente familistica che la contraddistingue, la ‘ndrangheta è la mafia più importante nel globo terracqueo» e «la “confederazione tra cosche” è stata importata in Piemonte cinquant’anni fa, come sottolineato dal procuratore Bombardieri nella recentissima audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia».

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La carta vincente della ‘ndrangheta nel distretto del Piemonte e della Valle d’Aosta è insita in un duplice ordine di ragioni, innanzitutto «la circostanza di essersi inserita in un contesto in cui è forte la presenza di immigrati dal Sud Italia e pertanto di possibile condivisione della mentalità mafiosa seppur da una minima parte di coloro che non si sono pienamente integrati in un contesto culturale e socioeconomico completamente differente da quello di provenienza, ovvero nel caso di seconde o terze generazioni le quali si sono fatte attrarre da un modello complessivo di vita in cui facilmente riconoscersi», ha sottolineato il presidente. In secondo luogo, invece, il Piemonte, come altre regioni del Nord, negli anni 50 è stata terra di confino, «i mafiosi sono stati allontanati dal loro humus naturale nell’irragionevole presunzione che avrebbero dismesso anche il loro abito, cosa non avvenuta nella misura in cui, a parte la sana popolazione emigrata dai territori del Sud che ha iniziato ad inserirsi nel mondo lavorativo, (penso al tessuto operaio di questa Regione), un’altra parte ha continuato a subire il fascino delle proprie origini o meglio delle peggiori origini».  

Secondo la pg Musti, però, la carta vincente delle mafie nel distretto è data dalla «capacità di coinvolgimento e di complicità nei confronti di quei cittadini autoctoni che, per fare affari con le mafie, in relazione alla connotazione altamente imprenditoriale dalle stesse, hanno aderito ad una mentalità assolutamente diversa dalla propria ricavando indubbi vantaggi sulla base del principio “pecunia non olet”». Dunque, in una trasposizione concreta delle considerazioni che ho sopra svolto, è evidente che «il Piemonte e la Valle d’Aosta siano state e sono una preda ambita delle mafie ovvero – per utilizzare un termine familiare in armonia appunto con il vincolo familistico che caratterizza la ‘ndrangheta – possiamo dire che il Piemonte ha pienamente adottato le famiglie mafiose della ‘ndrangheta». (g.curcio@corrierecal.it)

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