Chi decide quanto può governare la presidente Stefania Proietti?

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Una domanda ai lettori. Non possiamo ancora sapere come governerà l’Umbria Stefania Proietti, neogovernatrice. Ma se dovesse farlo bene e se dovesse entrare nel cuore degli elettori, a che titolo una legge potrebbe impedirle di governare per chissà quanto tempo ancora se i cittadini la volessero per più mandati al vertice della regione?

Il nodo del terzo mandato sta tutto qui e ha fatto bene a porlo anche nella recente conferenza stampa della Meloni il nostro direttore Sergio Casagrande.

È questione di democrazia, dicono tutti. Non ci possono essere limiti alla volontà del corpo elettorale, dicono alcuni; non ci possono essere potentati locali, dicono gli altri. E fanno l’esempio dell’America, che non è certo l’Umbria e nemmeno il Veneto o la Campania, dove il Capo dello Stato dura al massimo otto anni. È la più grande potenza del mondo, non scherziamo.

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E soprattutto non scherziamo dall’Italia, dove gli ultimi due presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, sono stati e sono più longevi dei loro predecessori rispetto alla durata del mandato al Quirinale (sette anni, ma senza alcun vincolo di durata, e ci torniamo sopra più avanti).

La questione è maledettamente seria, perché inasprisce le tensioni politiche e spariglia le posizioni a seconda di quali assetti si vogliano tutelare per le convinzioni del momento.

Ad esempio, resta in piedi la questione veneta, con Fdi che punta alla successione a Luca Zaia. Cioè, sarebbero i partiti a decidere che finisce un tempo e non gli elettori. Il tema apparentemente giusto è che il partito della Meloni è il primo della regione. Con questa logica tutte le regioni dovrebbero essere guidate da un esponente di Fratelli d’Italia: ma in una democrazia di coalizione è difficile sostenerlo. A meno che da una parte e dall’altra nascessero due partiti unici contrapposti, è complicato dire ai propri alleati “no, tu no”.

E qui esplode il caso De Luca. Il governatore campano ha reagito in malo modo alla Meloni, rivendicando il diritto a ricandidarsi e citando altre leggi regionali, non tutte sovrapponibili al caso della sua regione. Ma non è qui l’oggetto della discussione.

Perché sul ricorso del governo contro la nuova legge della Campania deciderà la Corte Costituzionale.

A noi preoccupa più il metodo, che vale sia quando il governatore è di sinistra come De Luca che quando è di destra (se non è offensivo il termine…) come Zaia. In entrambi i casi si ulula al notabilato – non da parte della Meloni ma dei suoi aspiranti successori ai governi locali, esattamente come nel Pd – mettendo le carte sottosopra nel tentativo di non far capire nulla alla pubblica opinione.

La realtà è che gli elettori non devono contare niente se si continua a restare nella logica del doppio mandato (che, sia detto tra parentesi, lo aboliscono nel loro partito persino i Cinque Stelle…).

Si parla a vanvera di notabilato, a sinistra come a destra, solo per avere la maniera di ostacolare il nemico del momento, perché tutto è soggetto alle leggi ordinarie, sia a livello statale che regionale. E invece il presidente della Repubblica…

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Qui c’è la questione dei poteri e di chi li conferisce. Noi non abbiamo alcun dubbio nel definire Sergio Mattarella un buon capo dello Stato, sia quando prende decisioni o posizioni che apprezziamo, sia quando non concordiamo. Anche questa è democrazia. Non avevamo, ad esempio, la stessa opinione su Giorgio Napolitano o Oscar Luigi Scalfaro. Ci capitava di applaudire di più a Carlo Azeglio Ciampi.

Ma sia Napolitano che Mattarella hanno superato i sette anni dei loro mandati al Quirinale: contano di più o di meno dei presidenti di Regione? Per chi sta al Colle votano i parlamentari e i delegati regionali. Per chi governa i palazzi locali, comuni compresi, vota il popolo. Che dunque decide di meno rispetto ai deputati e senatori. E non è una cosa strana?

Ma questo succede perché la norma sul doppio mandato non sta in Costituzione (forse ci entrerà sul premierato, ma limitato a chi sta a Palazzo Chigi). Se deve essere una regola ferrea, la si metta nella Carta e valga per tutti: dal Capo dello Stato ai parlamentari, e poi certo a governatori e sindaci. Sarebbe una sciocchezza, ma almeno verrebbe sottratta alle congiunture politiche del momento.

Altrimenti, si lasci stare. Perché con la democrazia e i suoi decisori non si può stabilire che cosa vale di più tra palazzo e popolo.

L’ingordigia non è quella di chi convince il popolo a votarlo quante volte vuole; ma quella di chi usa la “legge” per trafiggere il nemico. E chi sostiene da sempre la democrazia diretta non deve dimenticarlo mai.



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