Dai dati del Future of Jobs Report 2025, pubblicato dal World Economic Forum all’inizio di quest’anno, emerge che il futuro del lavoro è segnato da un’interazione sempre più stretta tra intelligenza artificiale, formazione e competenze emergenti. Se da un lato l’automazione porta con sé rischi di obsolescenza professionale, dall’altro apre scenari inediti per chi è pronto ad adattarsi e aggiornarsi costantemente.
Il ruolo delle istituzioni e delle imprese sarà determinante nel garantire che l’innovazione sia inclusiva e sostenibile, affinché nessuno venga lasciato indietro in questa transizione epocale. Il valore del capitale umano, arricchito da competenze tecnologiche ma anche da qualità umane insostituibili, resterà il fulcro attorno al quale ruoterà il mercato del lavoro del futuro.
Lavoro e AI, cosa dicono i dati del World economic forum
Nel report del WEF si prevede la creazione di circa 170 milioni di nuovi posti di lavoro entro la fine del decennio, molti dei quali legati direttamente o indirettamente all’intelligenza artificiale. Professioni come specialisti in big data, ingegneri fintech ed esperti in machine learning sono tra le più in crescita. Tuttavia, l’automazione potrebbe portare alla scomparsa di circa 92 milioni di posti di lavoro nello stesso periodo, soprattutto in ruoli amministrativi.
Di conseguenza, 78 milioni dovrebbero farsi carico di sostenere i 92 milioni usciti dal mercato, che vanno ad aggiungersi a una quota altrettanto significativa di lavoratori in pensione. Tuttavia, il calcolo è scorretto. Più che in termini matematici, dal punto di vista occupazionale. Per fortuna, infatti, non abbiamo la conferma che, dei 92 milioni di occupati lasciati a casa, nessuno possa venire reintegrato. Stando a quest’altra eventualità, i lavoratori riqualificati andrebbero a sommarsi ai 170 milioni nuovi arrivati sul mercato e, insieme, darebbero nuova robustezza a uno Stato sociale adesso in affanno. Detto questo, la rapida adozione dell’AI ha generato una nuova forma di ansia tra i lavoratori, definita “Fobo” (Fear of Becoming Obsolete), ovvero la paura di diventare obsoleti.
AI e lavoro, le preoccupazioni
Un sondaggio Gallup ha evidenziato che la percentuale di lavoratori preoccupati per l’obsolescenza tecnologica è aumentata dal 15% nel 2021 al 22% nel 2025. Per affrontare questa sfida, esperti come Tharman Shanmugaratnam e Ravin Jesuthasan, intervenuti a Davos, sottolineano l’importanza di investire continuamente nella formazione dei lavoratori, affinché l’AI completi le competenze umane anziché sostituirle.
La formazione professionale sta evolvendo infatti per rispondere alle esigenze di un mercato del lavoro in trasformazione. Le aziende stanno implementando programmi di upskilling e reskilling per preparare i dipendenti alle nuove sfide. Pensiamo, per esempio, a Infosys, che ha sviluppato piattaforme di apprendimento interne comprensive di corsi su generative-Ai, incentivando i dipendenti a completare la formazione. Inoltre, pratiche come il “reverse mentoring”, dove i dipendenti più giovani e tecnologicamente esperti guidano i colleghi senior, stanno guadagnando popolarità per facilitare l’adattamento alle nuove tecnologie.
Tecnologia e lavoratori Gen Z
Un’area di particolare attenzione riguarda l’impatto della tecnologia sulle capacità cognitive dei lavoratori più giovani. Jonathan Haidt, professore alla Nyu’s Stern School of Business, ha evidenziato come l’uso intensivo di smartphone e social media possa compromettere la creatività e l’attenzione della Generazione Z.
Per contrastare questo fenomeno, si suggerisce di insegnare ai giovani il concetto di “anti-fragilità”, incoraggiandoli a crescere attraverso le avversità e fornendo feedback diretti e sfide.
Il ruolo delle soft skill
Oltre alle competenze tecniche legate all’Ai e alla digitalizzazione, le soft skill stanno acquisendo sempre più importanza. Capacità come il pensiero critico, la risoluzione di problemi complessi, la creatività e l’intelligenza emotiva sono sempre più valorizzate. Il “Future of Jobs Report 2025” evidenzia che, sebbene le competenze tecnologiche siano fondamentali, quelle trasversali rimangono cruciali per garantire l’adattabilità dei lavoratori in un contesto in continua evoluzione.
L’Ocse prevede che, entro il 2030, il 63% dei lavoratori dovrà aggiornare le proprie competenze almeno una volta ogni cinque anni. Di conseguenza, la capacità di apprendere in modo continuo è diventata una componente essenziale. Con l’evoluzione rapida delle tecnologie, i lavoratori devono essere pronti ad aggiornare le proprie skill e ad acquisirne di nuove. Questo approccio proattivo all’apprendimento è fondamentale per mantenere la rilevanza nel mercato del lavoro.
L’impatto dell’invecchiamento della popolazione
Anche i cambiamenti demografici stanno influenzando significativamente il mercato del lavoro. L’invecchiamento della popolazione in molte economie avanzate sta portando a una riduzione della forza lavoro disponibile, mentre nelle economie meno avanzate si osserva una crescita della popolazione giovane. Queste dinamiche demografiche, combinate con la digitalizzazione, stanno ridefinendo le strategie occupazionali a livello globale.
Secondo le previsioni del Wef, entro il 2035 il 40% della forza lavoro europea avrà più di 50 anni, mentre in Africa il 60% della popolazione sarà sotto i 25. Questa polarizzazione generazionale avrà un impatto profondo sul mercato del lavoro. La digitalizzazione offre opportunità per colmare le lacune demografiche. Per esempio, l’automazione può compensare la carenza di manodopera in settori specifici, mentre le piattaforme digitali possono facilitare l’accesso al lavoro per le popolazioni più giovani nei paesi emergenti. Tuttavia, è essenziale garantire che la digitalizzazione non esacerbi le disuguaglianze esistenti. Investimenti in infrastrutture digitali e programmi di formazione mirati sono cruciali per assicurare che tutti possano beneficiare delle opportunità offerte dalla trasformazione tecnologica.
La situazione in Europa
Per quanto riguarda il mercato del lavoro europeo, sempre più in fase di invecchiamento, Paesi Bassi, Svezia, Ungheria e Slovacchia vantano un’avanzata propensione all’aggiornamento professionale. Oltre il 60% degli occupati di questi Paesi, ha partecipato ad attività formative continue nel 2022 (dato più recente). Al contrario, Croazia, Romania, Bulgaria, Polonia, Serbia e Grecia registrano tassi di partecipazione inferiori al 30%. In Italia, nello stesso anno di riferimento, la partecipazione alla formazione continua si attestava al 37,6%, posizionandosi al di sotto di Francia (49,9%) e Spagna (48,5%).
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