Quando la Pubblicità flirta con il Sacro (e a volte ci piace pure): il caso della festa di Sant’Agata

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Che religione e pubblicità siano indissolubilmente legate non lo scopriamo certo oggi. Nonostante la teologia cattolica sia formalmente contraria all’idolatria, il business religioso ha da sempre fatto affidamento su santini, calendari, poster e rosari. Rovesciando la prospettiva, anche le grandi aziende hanno legato i loro affari alle feste religiose, mescolando elementi appartenenti tanto al sacro quanto al profano e la festa per la patrona etnea non fa di certo eccezione

La festa di Sant’Agata a Catania, riconosciuta come celebrazione religiosa più importante al mondo dopo la settimana Santa di Siviglia e il Corpus Domini di Cuzco in Perù, è la perfetta sintesi di un fenomeno in cui la “fede” verso la reliquia si sposa perfettamente con “la fedeltà” verso un marchio. In fondo, marketing e fede poggiano entrambe le loro fondamenta sulla costruzione di significati e sulla creazione di una forte identità, e poiché nella comunicazione – come nella religione – appare quanto più importante saper raccontare una storia, ecco che anche i più importanti “brand” hanno sfruttato l’opportunità di pubblicizzare i loro prodotti legandoli alla figura della martire catanese attraverso l’utilizzo di linguaggi narrativi ben definiti. Messaggi brevi e immagini di impatto, attraverso operazioni di real time marketing geolocalizzato a Catania.

Che religione e pubblicità siano indissolubilmente legate non lo scopriamo certo oggi. Nonostante la teologia cattolica sia formalmente contraria all’idolatria, il business religioso ha da sempre fatto affidamento su santini, calendari, poster e rosari. Rovesciando la prospettiva, anche le grandi aziende hanno legato i loro affari alle feste religiose, mescolando elementi appartenenti tanto al sacro quanto al profano. E se scomodare Dio in persona per fare soldi oggi pare blasfemo, ecco che fare sfoggio di Santi e angeli facendo leva sulla cultura popolare non sembra poi così irragionevole.

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La tradizione tra le corsie dello shopping. Sant’Agata è una festa per il nome che mescola tradizione, marketing territoriale e un pizzico di captatio benevolentiae. I Centri Commerciali Le Zagare e Le Ginestre, utilizzano l’immagine della Santa per posizionarsi come luogo di aggregazione. Se Le Zagare puntano tutto sull’empatia collettiva con il claim “Agata che è amata da tutti”, Le Ginestre scendono più sul personale: “Ti chiami Agata?” non è solo uno slogan, ma un vero invito a partecipare, con eventi gratuiti, dolci omaggi e persino trattamenti estetici. L’iconografia sacra si contamina con il marketing territoriale, raccontando la festa non più solo come un evento religioso, ma come un momento di comunità che unisce spiritualità…e shopping.

Una Santa in oro 18 karati. Se la devozione si porta nel cuore, perché non anche al collo? Piazza Oro 79 e Isola Bella Gioielli trasformano Agata in un’icona di stile in 18kt: il busto reliquiario della Santa si indossa (e brilla); diventa ora ciondolo, ora raffinati orecchini, con smalti e gemme semipreziose che aggiungono un tocco di colore al candore della spiritualità. La gioielleria etnea Fecarotta, invece, trasforma uno dei dolci tipici di Sant’Agata in una base preziosa per i suoi anelli, unendo tradizione e lusso con sorprendente leggerezza.

Dolce & Gabbana: «La moda? La nostra religione». Perché fermarsi al sacro quando lo si può trasformare in haute couture? Dolce & Gabbana lo hanno capito benissimo, facendo di questa formula un tratto distintivo delle loro collezioni, spesso ispirate alla Sicilia. La loro sfilata “Fashion Devotion” del 2018 faceva propri i simboli che appartengono alla religione per reimmaginarli in chiave pop. Le T-shirt con scritte come “Fashion sinner” o “Santa moda, ora pro nobis” parlano alla generazione Instagram, quella che mescola bustier vintage e tute da rapper, gonne ispirate ai paramenti sacri e sneakers logate. È l’effetto wow del sacro rivisitato per un pubblico che vive di immagini, di icone, di sovrapposizioni. La devozione è prima di tutto estetica, un credo che si indossa e si condivide, tanto sulla strada quanto su Instagram. Dopotutto, il messaggio è chiaro: anche la spiritualità si inchina allo stile.

Una comunicazione che riscalda il cuore (e il palato). Con la sua campagna “Devozione alla Bontà”, Forno Signorelli rende protagoniste le “minnuzze” di Sant’Agata, trasformando ogni morso in un atto di partecipazione alla festa, ricordando che la devozione passa anche dalla tavola. Un po’ come aveva fatto Tomarchio nel 2021, quando aveva rappresentato la sua famosa “tortina” con il “sacco” bianco e il medaglione agatino: un colpo di genio leggero, divertente e – diciamolo – profondamente catanese. Lo slogan “Catania oggi è ancora più dolce” non è solo una frase, ma una promessa mantenuta, che lega il prodotto alla festa in modo genuino e fresco. Tra le campagne più creative spicca quella del Gruppo Arena, che trasforma un elemento iconico della gastronomia italiana in un omaggio visivo alla tradizione catanese. Gli spaghetti, disposti a richiamare i fuochi d’artificio, diventano protagonisti di un augurio semplice ma efficace: “Evviva Sant’Aita!”.

Sia chiaro, non vi è nulla di indecoroso nel legare il proprio marchio a un evento anche se religioso. Lo ha fatto Caffè Lavazza sin dagli anni ‘90 con le “Campagne del Paradiso”, girate da celebri registi come Alessandro D’Alatri e Gabriele Salvatores, con protagonisti Paolo Bonolis e Luca Laurenti prima, Tullio Solenghi nel ruolo di San Pietro ed Enrico Brignano poi, fino agli spot di Maurizio Crozza; nel 2013. Ma dove Arena, Tomarchio e Signorelli hanno saputo onorare la tradizione con autenticità, recentemente Amica Chips ha scelto una strada più audace, giocando con il sacro in modo irriverente.

“Il divino quotidiano”. Nella campagna “Il Divino Quotidiano” il celebre brand ha scelto di giocare con due momenti significativi – la comunione e il parto – trasformandoli in scenari surreali e ironici. Nel primo spot, un’anziana suora si trova davanti a un imprevisto liturgico: la pisside è vuota. La soluzione? Sostituire le ostie con patatine, lasciando tutti – sacerdoti e novizie – senza parole.

Nel secondo, la scena si sposta in una sala parto: tra il nervosismo del marito e la tensione del momento, un suono croccante attira l’attenzione. È una suora, che, seduta fuori dalla stanza, si gode tranquillamente il suo sacchetto di patatine Amica Chips. Entrambi gli spot si concludono con il claim “Il divino quotidiano”, trasformando il gesto più semplice – mangiare una patatina – in qualcosa di irresistibilmente iconico.

Sui social, gli spot sono diventati immediatamente virali, dividendo l’opinione pubblica tra chi li ha trovati ironico e chi li ha bollati come blasfemi. Perché qui non si parla solo di una patatina, ma del suo ingresso – rumoroso, letteralmente – in uno dei momenti più sacri della fede cattolica. L’Aiart (Associazione Italiana Ascoltatori Radio e Televisione) non ha perso tempo, chiedendo la sospensione immediata della pubblicità, definita “offensiva e oltraggiosa”. E l’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria è intervenuto, mettendo lo stop alla versione più provocatoria. In fondo, anche una patatina può diventare divina, se lo dice la pubblicità.

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Se c’è una cosa che questa festa ci insegna, è che il confine tra tradizione e innovazione, tra sacro e marketing, è un terreno fertile ma scivoloso. Proprio come i “cittadini” portatori dei ceri, ogni brand deve trovare il suo equilibrio: un passo troppo lungo, e si rischia di inciampare. Lo dimostrano i commenti sul web, divisi tra gli ironici «Macari la Red Bull, Catania caput mundi» e «Catania sta volando!», e gli inviperiti «Si pensa solo a monetizzare» o «Manco il dialetto sanno parlare». E allora, forse, è meglio rimandare tutti a Settembre…ops, ad Agosto. In fondo, se anche il sacro si lascia prendere un po’ meno sul serio, forse possiamo farlo anche noi.



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