Come mai non si parla quasi più di droghe? Non sono più un problema sociale? No. Non è così. “Semplicemente – mi dice l’amico Roberto Sbrana, psicologo e psicoterapeuta – ci siamo abituati alla loro costante presenza, abbiamo deciso che sono un costo sociale come un altro. Che so… come i suicidi. O, forse, siamo diventati più aridi, cinici, distratti, ripiegati su noi stessi”.
“Entrambe le risposte – concordiamo – sono agghiaccianti”. Ecco perché è necessario riparlarne. Tanto più che il fenomeno è in aumento e per nulla sotto controllo.
Pensavo da tempo di scrivere questo articolo. Mi sono deciso quando ho letto, nei giorni scorsi, alcune notizie sui media: l’Amministrazione Comunale di Luni ha organizzato un dibattito pubblico intitolato “Ricominciamo a parlare di droghe”, mentre il segretario del Pd sarzanese Marco Baruzzo ha proposto di “aprire un dibattito pubblico che vada oltre ogni contrapposizione politica per affrontare insieme il tema delle difficoltà giovanili”, definito come “la priorità più urgente per la città”. Mi sono detto: bene, forse si può uscire dal silenzio assordante di questi anni: sulle droghe, sull’alcool, sulla depressione tra i giovani, sui rischi che sta correndo una generazione. E ho incontrato Roberto Sbrana, perché su questi temi è impegnato da una vita: ha operato per oltre trent’anni nel Servizio Tossicodipendenze dell’Asl spezzina, ha diretto il Servizio Tossicodipendenze all’interno del carcere di Villa Andreini, ha insegnato all’Università di Genova, ha scritto il libro “Ricominciamo a parlare di droghe”, ed è tuttora “in prima linea”.
Sbrana mi conferma un dato che conoscevo e che sempre mi impressiona: in Liguria la percentuale di chi fa uso di sostanze stupefacenti è più alta rispetto alla media nazionale, e La Spezia è particolarmente colpita. Forse perché siamo uno snodo tra Liguria, Toscana ed Emilia, ed è più facile procurarsi le droghe. Forse perché abbiamo più giovani smarriti, in preda ad ansie “prestazionali” a cui cercano di rimediare anche con le droghe. “Il 55% delle persone tra 14 e 40 anni alla Spezia consuma droghe, compresa ovviamente la cannabis”, mi dice Sbrana. Droghe storiche come gli oppiacei e la cocaina, e droghe nuove, ogni giorno nuove – come per tutti i prodotti di consumo – perché create in laboratorio.
Ho un ricordo vivo di quando le droghe cominciarono a svilupparsi, a poco a poco nel corso degli anni Settanta, mentre si faceva sempre più evidente la sconfitta dell’utopia umanistica del Sessantotto. Tra i giovani, se negli anni Sessanta e nella prima metà del decennio successivo erano prevalsi l’ottimismo del futuro, stimolo insostituibile per dare significato alla vita, e la coincidenza tra privato e pubblico, nella seconda metà dei Settanta si dissolse la “speranza in un mondo nuovo”, sopraffatta dall’angoscia, così come la categoria di “agire collettivo”. La “comunità giovanile” si disintegrò, e la speranza divenne collera disperata. Il rimpianto per quella comunità perduta portò anche alle droghe. E tuttavia per molti anni si cercò di contrastare il fenomeno: fu un periodo intenso di dibattiti, organizzati dalle associazioni, dai comitati di quartiere, dalle forze politiche. Nel 1975 fu varata una legge – la 685 – che distingueva, dal punto di vista penale, tra chi spacciava droghe senza usarle, chi spacciava usandole e infine chi le usava e non spacciava. Questi ultimi venivano curati. Gli spacciatori puri venivano incarcerati, chi spacciava ed era anche tossicodipendente veniva dapprima incarcerato e possibilmente ammesso a un regime alternativo alla detenzione, dove, se aveva un buon comportamento, scontava la sua condanna curandosi. Era “un buon approccio”, concordiamo con Sbrana.
Tutto cambiò radicalmente in peggio nel 2006, con la legge 49, la Fini-Giovanardi. Tutte le droghe furono considerate uguali e in ugual modo perseguite. Esse e chi le consumava. Fu introdotto un principio giuridico mostruoso, che otto anni dopo fu definito incostituzionale: la “detenzione ai fini di spaccio”. Il solo possesso, al di là della “modica quantità”, significava l’intenzione di spacciare droga, anche se non si era spacciata, e comportava il processo e il carcere. Ecco perché, ancora oggi, circa il 30% dei detenuti nel nostro Paese è tossicodipendente.
Dopo di allora la situazione non è migliorata, anche se la legge è stata modificata. E’ ancora facilissimo andare in carcere, che è il peggior posto per curare. Mentre nel territorio è difficile curare per i tagli alla sanità pubblica, che hanno penalizzato i servizi: i Sert hanno visto diminuire i loro organici e alcune comunità hanno dovuto chiudere perché si sono drasticamente ridotti i budget regionali a loro disposizione.
E tuttavia sono tanti i ragazzi che ne escono fuori, attraverso un faticoso lavoro di ricostruzione delle loro personalità. Roberto Sbrana ha ragione:
“Alla base di tutto c’è la solitudine, il tentativo di riempire con le droghe dei vuoti. ‘Non so come occupare il mio tempo’ mi ha detto un ragazzo. I contatti personali, le relazioni umane con i social si sono andati perdendo. Molti ragazzi ne restano capaci, tanti altri non ce la fanno. Da qui le droghe, l’alcolismo, la depressione. Questi ragazzi vanno aiutati dalla società, dalla scuola, dalla famiglia. E’ difficile per i giovani immaginare il futuro, molti lo immaginano peggiore del presente. E’ qui che bisogna agire”.
C’è un disagio reale. Se quasi un under 25 su tre (30%) negli ultimi due anni si è sottoposto a un intervento di chirurgia o medicina estetica – per parlare di un altro tema – significa che c’è un “clima” sempre più “prestazionale”, amplificato dai social.
I social, paradossalmente, fanno perdere amici, quelli veri. E i giovani sono più soli, più infelici. Secondo un’indagine Istat il 50% ha confessato di sentirsi solo molto spesso.
L’obbiettivo è disconnettersi un po’, dedicarsi ad attività sociali, esserci fisicamente per le persone alle quali vogliamo bene, cercare un “senso della vita”. Ma i giovani non possono essere lasciati soli in questo compito. Ecco allora la necessità di una “città educativa”, di contesti urbani e sociali dove un adolescente possa trovare risposta alle sue passioni e ascolto alle sue inquietudini, riempiendo di vita e di progetti quei “vuoti” di cui parla Sbrana.
Sicuri che valga soltanto per gli adolescenti? Penso proprio di no: stiamo parlando anche di tutti noi.
Donna di Jenin (2005) (foto Enrico Amici)
Post scriptum
Finalmente le armi tacciono nella Striscia di Gaza. Per troppo tempo si è sparso terrore, morte e odio.
Un accordo che doveva e poteva essere raggiunto molti mesi fa, evitando la distruzione di Gaza, oltre 47.000 morti e 110.000 feriti senza contare i dispersi, in totale violazione del diritto internazionale.
Alla gioia per la liberazione degli ostaggi tenuti nascosti per 470 giorni da Hamas e per i prigionieri palestinesi liberati dalle carceri israeliane, dobbiamo unire il ringraziamento a chi, in Israele, in Palestina e in tutto il mondo si è battuto perché cessasse il massacro e non ha mai abbandonato la speranza, ha rifiutato l’odio reciproco e ha sempre lavorato per una prospettiva di pace e riconciliazione.
Ora la tregua deve diventare permanente. Deve partire un vero negoziato per la pace e per la fine dell’occupazione, c’è da ricostruire Gaza, e assicurare giustizia e riparazione per le vittime.
E deve finire l’operazione “Muro di ferro” a Jenin, città martire della Cisgiordania: è la negazione della pace, è la prova che Netanyahu ha l’obiettivo di proseguire il conflitto.
La Spezia ha un legame storico con Jenin, sigillato nel 2005 dal protocollo di intesa per il gemellaggio trilaterale con la città israeliana di Haifa e dalla realizzazione a Jenin del Centro culturale giovanile, a cura del nostro Comune.
Le fotografie di oggi ritraggono donne di Jenin in momenti di serenità, nel 2005 e nel 2011, pur in una realtà mai facile. La speranza è di ritrovare al più presto in ogni volto di Jenin la serenità perduta.
lucidellacitta2011@gmail.com
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