Dall’Italia agli Stati Uniti, la destra usa la menzogna come strumento politico

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L’attacco di Meloni alla magistratura è un segnale di indebolimento del tessuto democratico liberale. E non è un problema solo italiano: attraversa in questo momento tante delle democrazie occidentali 

Il video pubblicato qualche giorno fa da Giorgia Meloni non è solo una caduta di stile più o meno grave. Piuttosto è l’esempio perfetto della comunicazione nell’epoca della post-verità: il linguaggio pubblico non mira più a essere vero, ma solo convincente. Per usare una metafora medica, la manipolazione della realtà non rappresenta ormai una patologia della politica – come una febbre temporanea che ogni tanto ritorna – ma uno stato permanente e fisiologico.

Qualcuno potrebbe obiettare che non c’è nessuna novità e che da sempre la politica fa la guerra alla verità. Innegabile. Ma nella scelta del nostro primo ministro di trasformare un semplice atto dovuto in un complotto c’è molto di più. Ci può aiutare la ripresa di una celebre distinzione arendtiana: la negazione della verità di fatto non è un semplice errore, ma è una vera e propria menzogna. Non involontaria, ma intenzionale, volta non a interpretare malamente i fatti, ma a falsificarli. Per Hannah Arendt questa distinzione è dirimente quanto allo status che possiamo assegnare ai regimi politici che abbiamo dinanzi: una democrazia può sopportare gli errori ma non l’uso sistematico della menzogna.

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Delegittimare il potere giudiziario

A che serve in questo caso la pianificazione della menzogna? Certamente serve a sviare l’attenzione rispetto alla gravità inconsueta del caso Almasri, ma non basta. Non è solo una manovra diversiva o un arroccamento. Serve soprattutto come un pretesto per delegittimare il potere giudiziario. Diciamolo con chiarezza: l’accusa di politicizzazione della giustizia è del tutto fuori tempo. La magistratura è un gruppo sociale che segue le tendenze generali, e non c’è dubbio che questa sia una delle società meno politicizzate che la storia repubblicana ricordi.

È quantomeno improbabile che questo processo inarrestabile di progressivo disincanto politico riguardi l’intera società a eccezione dei magistrati, che non sono di certo gli ultimi giapponesi a portare avanti la lotta di classe mentre tutto intorno della lotta di classe non vi è alcuna traccia. E anche la separazione delle carriere sembra più uno specchietto per le allodole che un problema reale. I passaggi da una funzione all’altra riguardano meno dell’1 per cento dei componenti della magistratura. Non proprio il problema essenziale per cui il sistema giudiziario non è all’altezza delle aspettative. Basta leggere in filigrana le proposte governative di riforma per capire il perché di quel video: neutralizzare tutto ciò che garantisce la separazione dei poteri e sostituirlo con regole che mettano il potere giudiziario sotto la tutela dell’esecutivo. Se si guardano i fatti, le cose sono anche più gravi di quel che pensiamo: la politicizzazione della giustizia non è quello che il governo teme, ma è quello che il governo vuole.

Un problema comune

Potrei fermarmi qui, individuando con preoccupazione una tendenza tutta italiana. Purtroppo le cose non stanno così. Mistificare la realtà per mettere in discussione l’autonomia della giustizia è un tratto tipico della trasformazione globale delle nostre democrazie. Mi pare sempre più evidente che ciò che è in discussione sia il principio elementare della giustizia nei contesti liberali: l’uguaglianza formale di fronte alla legge. Siamo dinanzi a un tentativo di ridefinire i contorni del potere legittimo che le classi dirigenti si sentono in diritto di esercitare.

Chi sono i potenti all’interno delle democrazie liberali? Sono coloro che esercitano la funzione attiva del potere nei limiti del diritto. Chi aspira a essere oggi il potente? Non solo colui che esercita il potere, ma colui che lo fa a partire da una sorta d’immunità preventiva rispetto alla legge. Gli esempi sono così numerosi da non essere più semplici indizi, ma prove. Non solo la riforma che il governo propugna, ma anche i rapporti con la giustizia degli autocrati più vicini a noi geograficamente (Putin, Erdogan, Orbán). Non solo il vergognoso lasciapassare per persone condannate da legittimi tribunali per reati gravissimi (non solo Almasri, ma anche Benjamin Netanyahu), ma anche l’uso disinvolto della grazia presidenziale da parte di Donald Trump e persino di Joe Biden (può avere tutte le ragioni del mondo, ma la grazia nei confronti del proprio figlio non può essere accettata).

Quel che sembra un semplice video è l’ennesima conferma di un attacco ai fondamenti liberali delle nostre democrazie. È la disuguaglianza formale il paradossale principio che si sta imponendo. Di fronte alla legge non siamo più tutti uguali, non solo di fatto, ma ormai anche di diritto. L’impunità dei potenti, uno dei segni più dolorosi del nostro tempo.

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