Cassazione, Davigo, 326 c.p. | Sistema Penale

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Cass. Sez. VI, 4.12.2024 (dep. 29.1.2025), Pres. De Amicis, Rel. Paternò Raddusa, ric. Davigo

1. Pubblichiamo in allegato, per i plurimi profili di interesse giuridico di una vicenda di grande risonanza mediatica, la sentenza con la quale la Corte di cassazione ha parzialmente confermato la condanna del dott. Piercamillo Davigo per rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326, co. 1 c.p.), pronunciata dalla Corte d’Appello di Brescia nell’ambito del noto caso “Loggia Ungheria”. Al di là della vicenda in fatto – ampiamente ricostruita dai media –, la sentenza della Cassazione si segnala, come si vedrà, per una serie di rilevanti principi di diritto relativi non solo al delitto di cui all’art. 326 c.p., ma più in generale alla materia del concorso di persone nel reato proprio.

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2. In estrema sintesi, il dott. Davigo, all’epoca dei fatti Consigliere del CSM, è stato chiamato a rispondere: a) per concorso morale nella rivelazione del segreto investigativo materialmente commessa dal pubblico ministero milanese dott. Paolo Storari dando notizia al Consigliere del CSM delle dichiarazioni rese in un procedimento penale dall’avv. Pietro Amara e relative alla presunta esistenza di una associazione segreta di matrice massonica della quale avrebbero fatto parte anche due componenti del CSM; b) per avere a sua volta divulgato a terzi (tra i quali l’allora Vice Presidente del CSM) il contenuto delle notizie così ricevute, anche su supporto informatico.

Giudicato con rito abbreviato in separato procedimento, il dott. Paolo Storari è stato assolto per difetto di colpevolezza (per mancanza di dolo, in particolare), avendo il gip di Brescia ritenuto che egli sia incorso in un errore incolpevole sul fatto che costituisce reato, determinato da un errore su norma extrapenale (art. 47, co. 3 c.p.); ciò, in particolare, a fronte della rassicurazione ricevuta dal dott. Davigo circa l’asserita non opponibilità del segreto investigativo al CSM e, per esso, ai suoi componenti; rassicurazione ritenuta erronea ma affidabile anche perché proveniente da magistrato di indiscussa autorevolezza professionale, contattato nel suo ruolo istituzionale. Questa tesi è stata peraltro incidentalmente criticata dalla Corte d’Appello di Brescia nel procedimento a carico del dott. Davigo, definito dalla sentenza impugnata; critica che la Cassazione, pur non facendone discendere conseguenze sulla posizione del ricorrente, ha peraltro ritenuto ragionevole osservando come la questione relativa al carattere segreto o meno delle notizie oggetto di rivelazione del segreto investigativo fosse “non bisognevole di grandi approfondimenti o di conoscenze imposte da specifiche competenze professionali diverse da quelle ordinariamente proprie del concorrente”.

 

3. Nell’affermare i principi di diritto che di seguito si riportano attraverso nostre massime redazionali, la Sesta Sezione della Cassazione ha, da un lato, confermato e dichiarato irrevocabile la responsabilità dell’imputato in ordine alla condotta di concorso morale nella rivelazione del segreto d’ufficio e, dall’altra parte, ha annullato con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Brescia la sentenza di condanna con riferimento alle condotte di successiva divulgazione delle notizie ricevute.

 

4. Di seguito sei massime che abbiamo isolato nell’articolata motivazione della sentenza:

  • Il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio, previsto dall’art. 326, co. 1 c.p., costituisce un reato proprio e punisce unicamente il propalatore qualificato (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio) della notizia riservata e non il soggetto che la riceve, salvo che quest’ultimo non si sia limitato passivamente a riceverla ma – così realizzando un concorso morale nel reato – abbia, con il proprio contegno, contribuito al disvelamento illecito, istigando, inducendo o comunque supportando l’intraneus nella esecuzione della relativa condotta materiale.
  • In tema di concorso di persone nel reato, il contributo morale offerto dal concorrente extraneus, oltre alle tradizionali forme della determinazione e dell’istigazione, può estrinsecarsi nei modi più vari e indifferenziati, sottraendosi a qualsiasi catalogazione o tipicizzazione, cui invece deve uniformarsi la condotta dell’autore dell’illecito e, quindi, il concorrente che esegue l’azione vietata dalla norma e non già quella del partecipe.
  • In tema di rivelazione di segreti d’ufficio, il contenuto di dichiarazioni auto ed etero-accusatorie rese – nel corso di un’indagine già in corso – da un indagato in sede di interrogatorio davanti al pubblico ministero procedente, integra una notizia d’ufficio che deve restare segreta e, pertanto, l’oggetto materiale della condotta del delitto di cui all’art. 326, co. 1 c.p. Non rileva, in senso contrario, che le propalazioni ineriscano a fatti estranei all’indagine nel corso della quale siano state acquisite, né che le relative notizie di reato (nel caso di specie, quelle sulla presunta ‘Loggia Ungheria’) non siano ancora state iscritte al momento della condotta di rivelazione. La sede di acquisizione delle relative dichiarazioni, infatti, rende le notizie riferite e i relativi atti di verbalizzazione ontologicamente coperti dal segreto investigativo; ancor più quando, riguardando anche la posizione di terzi diversi dal dichiarante potenziale imputato, gli atti siano stati segretati ex art. 329, co. 1 e 3 c.p.p., perché esondanti la posizione del solo dichiarante.
  • In ipotesi di violazione del segreto investigativo, l’onere di riservatezza della notizia risulta imposto ex lege dall’art. 329 c.p.p. a prescindere dalla concreta incidenza che abbia assunto il disvelamento rispetto all’ordinario e utile sviluppo dell’indagine. Il delitto di cui all’art. 326 c.p. si configura come reato di pericolo presunto e sussiste senza che possa sorgere questione circa l’esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa (impositiva del segreto) ha già effettuato la valutazione circa l’esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell’obbligo del segreto. Dall’offensività in sé della condotta di rivelazione consegue, quale logico corollario, l’indifferenza di qualsivoglia indagine in fatto diretta ad accertare la positiva incidenza della rivelazione.
  • In tema di concorso di persone nel reato, fuori dell’ipotesi della inconciliabile ricostruzione del medesimo fatto storico, e fermo il principio del libero convincimento del giudice, l’assoluzione per difetto dell’elemento soggettivo  in capo al concorrente ‘intraneo’ nel reato proprio – giudicato in altro procedimento e assolto per incolpevole errore su norma extrapenale – non esclude di per sé la responsabilità del concorrente ‘estraneo’, che resta punibile nei casi di autorìa mediata di cui all’art. 48 c.p. e in tutti gli altri casi in cui la carenza dell’elemento soggettivo riguardi solo il concorrente ‘intraneo’ e non sia quindi estensibile alla posizione dell’extraneus. Da un lato, infatti, il concorso di persone nel reato è configurabile anche quando uno dei concorrenti non è punibile per difetto di imputabilità o comunque di colpevolezza (artt. 46, co. 2, 48, 111, 112, ult. co., 119 c.p.); dall’altro lato, dalla combinazione delle norme di parte speciale con quelle del concorso di persone nel reato discendono tante fattispecie plurisoggettive differenziate quanti sono i concorrenti, aventi in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma suscettibili di autonoma considerazione riguardo all’atteggiamento psichico di ciascuno dei compartecipi. Ciò alla luce dell’assorbente centralità comunque da assegnare, anche nei reati propri, al fatto tipico principalmente riferito normativamente all’autore qualificato, considerato nella sua oggettiva materialità e prescindendo dalla colpevolezza dell’intraneus, così da recuperare, all’area della responsabilità penale, tutte le condotte partecipative atipiche che a quel fatto accedono e che si risolvono in una indebita strumentalizzazione della posizione del concorrente qualificato.
  • In tema di rivelazione di segreti d’ufficio, ribadito che la fattispecie di cui all’art. 326, co. 1 c.p. punisce unicamente il propalatore della notizia riservata (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio), e non il soggetto che la riceve, un’interpretazione conforme ai principi di legalità e di tassatività (art. 25, co. 2 Cost.) suggerisce di non dare continuità alle opzioni ermeneutiche basate sulla automatica punibilità di colui che abbia ricevuto la notizia ove in seguito la riveli a terzi, sempre che la notizia stessa abbia conservato il suo carattere segreto. In siffatti casi, infatti, l’extraneus deve considerarsi punibile solo se, anziché limitarsi a ricevere e poi a rivelare a sua volta la notizia, abbia influito sulla scelta del pubblico agente di operare la rivelazione. Nondimeno, se l’extraneus che ha ricevuto la notizia (da un pubblico ministero) la rivela, agendo a sua volta in veste di pubblico ufficiale (Consigliere del CSM), tale successiva divulgazione può in via di principio integrare un autonomo fatto rilevante ex art. 326, co. 1 c.p. se la condotta è posta in essere in violazione dei doveri inerenti la funzione o comunque abusando della sua qualità.

 

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(Gian Luigi Gatta)



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