Nord-est siriano, democrazia in cerca di futuro

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Il primo convoglio è partito da Kobane alla volta della diga di Tishreen l’8 gennaio. Di fronte aveva 70 chilometri e il fuoco delle milizie filo-turche, la galassia salafita e islamista riunita sotto l’appellativo di Esercito nazionale siriano, l’Sna. Auto e furgoncini si sono messi in marcia per andare a proteggere una diga che è molto di più di una semplice infrastruttura: è il punto che segna il passaggio a nord-est, il confine invisibile tra la sopravvivenza del confederalismo democratico e l’occupazione turca. Se cade Tishreen, cade Kobane.

Le marce, dalle comunità più vicine e quelle più lontane, da allora non si sono mai interrotte. Da tre settimane, tra le colline boscose del nord, la popolazione siriana presidia la diga con i propri corpi. Arrivano a piedi, si fanno forza gridando «lunga vita alle Sdf, lunga vita alle Ypj», tributo alle Forze democratiche siriane e alle unità di difesa curde delle donne, uno dei più preziosi patrimoni di 13 anni di rivoluzione. Con le bandiere in mano si affollano sull’impianto che attraversa il fiume Eufrate, quaranta metri di altezza per sei turbine. Il Baath ne avviò la costruzione nel 1991, la terminò nel 1999, a fare il paio con la diga più a sud, sul Lago Assad.

Il rischio è altissimo. Dall’8 gennaio 24 civili sono stati uccisi a Tishreen dal fuoco sparato dai miliziani filo-turchi e dai droni di Ankara. Tra le vittime anche tre operatori sanitari del presidio medico permanente, tre ambulanze e un gruppo di infermieri e paramedici. Almeno 221 i feriti, tra cui sette giornalisti. Gli attacchi dal cielo hanno preso di mira le auto e i piccoli autobus, parcheggiati alla diga o ancora in cammino verso Tishreen, e hanno messo fuori uso l’infrastruttura: centinaia di villaggi sono a secco e al buio.

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«La diga è un’infrastruttura vitale per la popolazione civile – ci spiega Hussein Othman, co-presidente del consiglio esecutivo dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est – Fornisce acqua ed elettricità a tutta la regione, per questo la gente è in prima linea». Un impianto vitale tanto più in un contesto di isolamento: l’accerchiamento del Rojava da parte della Turchia e l’embargo di fatto imposto da Ankara rendono la regione quasi impermeabile al mondo fuori. Sono i paesi vicini a decidere cosa entra e cosa esce. Ogni risorsa naturale a disposizione è preziosa.

«La gente ha ribattezzato Tishreen “diga della resistenza”». Rojhelat Afrin è la comandante delle Ypj. Ci accoglie insieme alle compagne in una base militare: «La linea del fronte è a dieci chilometri da Tishreen e più a nord, sul ponte Qaraqozaq. L’Sna tenta di avvicinarsi e la Turchia colpisce dal cielo. Se i mercenari dovessero raggiungere la riva orientale dell’Eufrate, potrebbero arrivare a Taqba, Raqqa, Kobane. La gente lo sa, la resistenza sua e delle nostre forze sta bloccando l’avanzata islamista».

La comandante delle Ypj, Rohjelat Afrin e altre combattenti foto di Iacopo Smeriglio

Dalla deposizione del presidente Bashar al-Assad, l’8 dicembre 2024, l’unico fronte aperto in Siria è a nord. L’Sna, manovrato ed equipaggiato dalla Turchia, non si è mai diretto verso sud, verso Damasco. Dall’inizio dell’offensiva-lampo di Hayat Tahrir al-Sham, il 27 novembre scorso, l’Sna ha guardato a oriente, all’occasione sempre rimandata di prendersi – per conto di Ankara – l’intero Rojava. Da allora, sono 41 i civili uccisi in tutto il nord-est, 245 i feriti. Il massacro peggiore è del 25 gennaio, 12 vittime al mercato di Sirin.

La via di uscita è solo una: il cessate il fuoco con la Turchia che permetta di salvaguardare la popolazione civile, le conquiste del sistema democratico e il suo scudo difensivo, le Sdf.

La linea delle autorità civili e militari del confederalismo democratico è chiara: mostrarsi aperte al dialogo con la nuova leadership di Damasco, proporsi come partner affidabile e ricco di competenze a disposizione di tutto il paese, tenere la porta aperta al processo di integrazione su base nazionale delle istituzioni regionali. Questa disponibilità di massima, ovviamente, non è gratuita ma possibile solo ad alcune condizioni. In senso generale riguardano il rispetto delle prerogative democratiche, di un certo grado di autonomia, dei diritti di donne e minoranze. I rappresentanti dell’Amministrazione autonoma vogliono essere parte del processo costituente che dovrebbe portare alla scrittura di una nuova Carta, mercoledì scorso Al Jolani ha cancellato quella del regime Baath, e proporre i principi dell’avanzato Contratto sociale del Nord-est, scritto in arabo, curdo e siriaco, come riferimento per il nuovo testo.

Al momento, però, l’unica questione sul tavolo dell’unico incontro tra Abu Mohammad Al Jolani, neopresidente siriano ad interim, e Mazloum Abdi, ministro della Difesa della regione autonoma e capo delle Forze democratiche siriane (Sdf), è stata militare. Il meeting si è svolto nella capitale siriana lo scorso 30 dicembre.

«Stiamo tentando di risolvere le questioni attraverso il negoziato con il nuovo governo. Non vogliamo separarci ma essere riconosciuti. Siamo d’accordo a non dividere la Siria in più entità e avere un unico esercito, ma non siamo entrati nei dettagli. Quelli arriveranno in futuro», ha dichiarato lunedì scorso Abdi davanti a una delegazione internazionale che lo ha raggiunto in una struttura militare. Alle sue spalle la bandiera siriana con le tre stelle rosse, simbolo dei ribelli al regime e della nuova presidenza, e quelle delle Sdf/Ypg, le formazioni armate della regione autonoma.

È proprio nei «dettagli» del rapporto tra Stato centrale e autonomia regionale, però, il problema. Il 19 gennaio il nuovo ministro della Difesa di Damasco Murhaf Abu Qasra, citato da Reuters, ha respinto pubblicamente la richieste delle Sdf di partecipare all’esercito nazionale come un blocco. Devono «entrare nella gerarchia della Difesa ed essere distribuiti in modo militare», ha detto Qasra. Significherebbe sciogliere la federazione di formazioni combattenti, spesso indicata come curda ma in realtà a maggioranza araba e con la presenza di altre minoranze, che tra il 2014 e il 2019 ha sconfitto l’Isis e successivamente ha garantito l’autodifesa del progetto confederale del nord-est.

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«Insistiamo per entrare nell’esercito come un gruppo o brigata speciale, altrimenti la situazione sarebbe peggio di Assad. Butteremmo via tutta la nostra lotta», ha affermato la comandante delle Unità di autodifesa delle donne/Ypj Rojhelat Afrin, parlando davanti ai giornalisti internazionali e ai rappresentanti politici francesi e italiani venerdì 24 gennaio. Afrin lascia intendere che le forze del nord-est puntano a un comando militare regionale, almeno per ora. Perché «con un governo unico rappresentativo di tutti non avremmo problemi a rispondere a un comando unificato. Ma prima serve un processo democratico inclusivo».

I segnali che arrivano dalla capitale, però, vanno in tutt’altra direzione. Nella cerimonia di insediamento a capo della repubblica araba siriani di Al-Jolani le autorità del Nord-est non sono state invitate. C’erano invece le Sna. Non sono loro la minaccia principale al confederalismo democratico, ma il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il suo esercito, il secondo della Nato, preme da nord. Le fazioni armate che finanzia attaccano da ovest. La nuova leadership di Damasco, che prima governava soltanto la regione di Idlib dove la lira turca è la moneta corrente, si è insediata a sud. La regione autonoma e il suo progetto di convivenza pacifica tra i popoli, di eguaglianza tra uomini e donne, di pace rischia così di finire nella morsa di Ankara.
Per questo i vertici militare sperano che le forze della Coalizione internazionale anti-Isis, in pratica: molti Stati Uniti e poca Francia, non lascino l’area. Secondo una dichiarazione del Pentagono dello scorso dicembre i militari statunitensi in Siria erano 2.000, di cui 900 in maniera regolare e gli altri secondo rotazioni temporanee. Resta da vedere, però, cosa deciderà la nuova amministrazione Trump. Voci di un invito del presidente a smobilitare pare siano state smentite. «Il team che lavora con noi ritiene che la posizione degli Usa non cambierà», afferma Abdi.

Altra questione geopolitica riguarda Israele. I suoi attacchi alle infrastrutture militari siriane dopo la caduta di Assad non possono che aver fatto comodo alle forze del Nord-est, che probabilmente senza lo scomodo vicino turco risulterebbero quelle meglio attrezzate e organizzate nella Siria di oggi. Su questa relazione, però, gli ufficiali delle Sdf forniscono risposte evasive. L’impressione è che siano consapevoli tanto della contraddizione che rappresentano le politiche coloniali e genocidarie del governo israeliano rispetto al progetto di democrazia confederale, quanto del fatto che Tel Aviv rischia di rimanere l’unico potente attore non ostile nell’area.

Anche perché le differenze con la presidenza di Al Jolani non sembrano soltanto legate alla contingenza o agli interessi di Ankara. Sono di natura profondamente politica, quasi antropologica. Dopo la rivoluzione nel Nord-est tutte le cariche importanti hanno due co-presidenti: un uomo e una donna. A Damasco l’unica ministra dominata Aisha al-Dibs, nominata su pressioni internazionali, seguirà gli affari femminili. Le sue prime dichiarazioni hanno sollevato polemiche: «Le donne sono responsabili in primo luogo delle loro famiglie e dei loro mariti». Una tensione molto diversa rispetto a quello che è accaduto nella regione autonoma dove le donne hanno prima assunto un determinante ruolo militare e poi si sono impegnate nell’organizzazione politica per occuparsi della vita pubblica. È per questo che la comandante Afrin lancia una sfida ai nuovi leader di Damasco: «Siete pronti a nominare una donna a capo del ministero della Difesa?».



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