Nord-est Siria, la rivoluzione negli ospedali

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È stato l’ultimo bastione dell’Isis. Dopo quattro anni di occupazione islamista e quattro mesi di combattimenti, terminati nell’ottobre 2017, è dall’Ospedale nazionale di Raqqa che le Forze democratiche siriane e la Coalizione internazionale hanno cacciato i miliziani residui. Della struttura sanitaria era rimasto ben poco, in parte trasformata in prigione, in parte in fortino, il resto distrutto. Come distrutta era la città. «Ricordo una grande nube di polvere da cui sbucavano persone. Donne che si toglievano il velo, uomini che si tagliavano la barba, pastori seguiti dalle pecore», afferma Luca Magno, responsabile dei programmi di Un ponte per (Upp) nel nord-est siriano.

Nei mesi precedenti l’ong italiana aveva sostenuto la Mezzaluna rossa curda (Krc), Heyva sor a kurd, poco dietro le linee del fronte della città che il Califfato aveva eletto a capitale del suo versante siriano. Le organizzazioni avevano creato due centri di emergenza, a est e ovest, mentre le ambulanze recuperavano feriti di ogni schieramento. «Sì, anche quelli di Daesh», dice Magno.

L’ospedale di Raqqa foto Giansandro Merli

«Oggi l’ospedale è sempre aperto, ha un reparto di terapia intensiva, un pronto soccorso, vari laboratori di analisi e servizi di medicina generale e specialistica», dice il direttore amministrativo Baha Al Hilal. Su un muro all’ingresso sono appesi dei cartelli: in arabo contro le violenze sessuali; con una pistola sbarrata; su un programma di salute femminile. Più in là c’è la sigla del ministero degli Esteri francese. «Non fotografatela, hanno smesso di sostenerci», si fa scappare un infermiere. In una riga di una pagina della legge di bilancio di Parigi c’è un finanziamento per questo ospedale. Ma la manovra è ferma in parlamento.

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La tenuta di molti servizi nell’area è messa a dura prova anche dalla sospensione ordinata da Donald Trump del programma di aiuti umanitari Us Aid, che copre il 48% dei fondi globali per la cooperazione. Martedì, almeno, il segretario di Stato Marco Rubio ha firmato un’esenzione per i settori di sanità, cibo e poco altro. Resta il tema della dipendenza delle ong, che con il trumpismo rischiano di andare in crisi.

All’ospedale sono arrivati anche finanziamenti italiani, attraverso Upp. Hanno permesso di riaprire i reparti di ginecologia e pediatria, dove è appena stato trasferito Hazar, 12 anni, steso a letto con un cerotto accanto all’occhio sinistro. Ferito da una granata sulla diga di Tishreen, sul fiume Eufrate.

Da settimane i civili presidiano l’infrastruttura a nord-ovest di Raqqa e sud di Kobane perché i droni turchi la bombardano. Da lì arrivano pazienti ogni giorno, questa struttura riserva dei posti ai civili con ferite da guerra. «Abbiamo protestato alla diga per far sentire la nostra voce», afferma Amira Karo. Vicino ha suo marito, fabbro, e intorno quattro figli. Parla solo lei. «Al presidio saremmo dovuti andare io e mio marito, ma il ragazzo si è imposto: voglio venire. Siamo civili, ci hanno colpiti comunque», continua la donna. La sua famiglia è originaria di Kobane, ma si era trasferita a Manbij per lavoro. È tornata indietro, riattraversando l’Eufrate, lo scorso dicembre quando l’Esercito nazionale siriano (Sna), che riunisce milizie islamiste filo-turche, ha occupato la città. «Siamo curdi, ci considerano infedeli. Non accettano come viviamo, come ci vestiamo o che io non mi copra il capo. Danno la caccia ai curdi casa per casa. Se le milizie superano il fiume e prendono Kobane uccideranno me, mio marito e tutti i nostri figli», afferma Karo.

foto Rojava Information Center
foto Rojava Information Center

Quello di Raqqa è uno dei 21 ospedali gestiti dall’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria. La costruzione di un sistema sanitario capace di rispondere ai bisogni della popolazione, essere accessibile e offrire servizi di qualità è una delle sfide più complesse per la rivoluzione partita dal Rojava, il Kurdistan siriano, e dilagata nel resto della regione attraverso il modello del confederalismo demoratico.

Accanto alle strutture pubbliche, in un sistema tripartito, ci sono le cliniche gestite dalle ong, finanziate dall’estero e gratuite, e quelle private, con costi proibitivi per i più. La sanità pubblica del Nord-est conta su un budget complessivo di 17 milioni di dollari per una popolazione stimata, fino alle occupazioni islamiste di Manbij e Shahba, in cinque milioni di persone. La mancanza di riconoscimento dell’autogoverno dell’area pone ostacoli enormi anche sul piano del sistema di salute: dalla non validità dei titoli di studio medici all’estero e nel resto del paese, alla difficoltà di far entrare farmaci e materiali sanitari. Dinamiche che si aggiungono allo storico sottosviluppo a cui il regime di Assad aveva costretto l’area. La prima facoltà di medicina e la prima fabbrica di farmaci sono state aperte dopo la rivoluzione. «Per noi il focus è l’autonomia. Siamo grati alle ong e crediamo che il privato possa completare il pubblico, ma a fare la differenza saranno i nostri presidi, che resteranno dopo l’emergenza e a disposizione di tutti», afferma Jud Mohammad, la co-presidente dell’autorità di Salute del Nord-est.

Certo a queste latitudini è difficile avere una visione di lungo periodo. Tracciando una linea bisogna sempre considerare che potrà essere interrotta, che bisognerà tornare indietro e ricominciare daccapo. A pesare è la guerra strisciante o aperta, le minacce del gigante turco. Non parole ma attacchi concreti: come la distruzione dell’ospedale di Manbij o i droni sulle ambulanze della Krc. L’ultimo il 18 gennaio contro un mezzo che recuperava i feriti da Tishreen. Tre morti e due feriti. «Sembra un crimine di guerra», ha scritto giovedì Human Rights Watch.

La Krc è l’altro tassello che compone il puzzle della sanità. L’organizzazione non è stata accettata dalla Federazione internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa: per la Siria ha avuto l’ok solo la sezione di Damasco. Così gli attacchi turchi contro le ambulanze sono aumentati. «Ci colpivano anche prima della caduta del regime», afferma Dilgesh Issa, coordinatore generale del Krc. Al momento la Mezzaluna curda conta su 65 ambulanze, 10 centri di emergenza e 1.200 tra medici e paramedici. «In questa regione affrontiamo crisi multiple: guerra, covid, colera, malnutrizione, terremoti. Siamo un’organizzazione indipendente e offriamo aiuto a tutta la popolazione», aggiunge Issa. Nell’ultimo anno con Upp ha lanciato un numero di emergenza sempre attivo e raggiungibile da tutto il Nord-est. Una sorta di 118 che rappresenta un segnale positivo per tutta l’area. Sperando che la caduta di Assad permetta di stabilizzare la regione e integrare a livello paritario la sanità autonoma in quella nazionale. Una sfida per nulla scontata di fronte alla nuova leadership di Damasco e agli interessi regionali che ambiscono a spegnere la luce del confederalismo democratico.



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