Le cartiere hanno chiuso, le multinazionali degli elettrodomestici tagliano: «È una desertificazione». Ma c’è chi pensa al futuro: l’esperienza di«Fabriano industry»
Alle 8.07 del 10 dicembre scorso la macchina continua della cartiera di Fabriano si è spenta.
Girava ininterrottamente dal 1976.
Negli stessi giorni la Beko, multinazionale turca degli elettrodomestici, annunciava un taglio di 350 posti (su 550) nel suo sito di Fabriano.
Uno studio della Cna locale certifica che in un anno 187 attività economiche hanno chiuso i battenti. Cosa succede dunque se qui spariscono le fabbriche? «Andiamo verso una desertificazione industriale» lamenta Pierpaolo Pullini, segretario della Cgil fabrianese. Scuote la testa invece Federica Capriotti, rappresentante delle imprese locali in Confindustria che di declino non vuol sentir parlare: «La manifattura è nel nostro dna e lo sarà sempre».
Fabriano è lo specchio fedele di un vasto pezzo di Italia: una piccola città di provincia, tagliata fuori dalle grandi vie di comunicazione, che diventa protagonista del boom economico italiano. La carta a Fabriano si produceva dal XIII secolo; gli elettrodomestici sono invece un fenomeno degli anni ’60. Ariston, Indesit, Electrolux, Whirlpool, Faber sono passati tutti di qua. La famiglia Merloni, fabrianese doc, non ha espresso solo capitani d’industria ma anche figure politiche che tutelavano gli interessi del territorio. Qui c’era la piena occupazione: oggi il centro dell’impiego locale conta 3.500 iscritti in cerca di lavoro. Un’enormità, per una città che non raggiunge i 30.000 abitanti. Ma Fabriano è la spia del momento oscuro dell’intera manifattura italiana. Il sito de Il Sole 24 ore mostra un contatore secondo il quale la produzione industriale italiana, al 30 gennaio, era in calo da 729 giorni filati.
«Desertificazione industriale», dunque? La definizione si trova scritta in documenti ufficiali, portati ai tavoli di trattativa nelle sedi istituzionali, fino al ministero dove le crisi aziendali di Fabriano sono approdate. Ma cosa significa in concreto? «È un fenomeno a cui assistiamo da almeno 15 anni – spiega Pierpaolo Pullini per la Cgil locale – a causa di una mancata capacità di riconversione. Qui si producevano elettrodomestici di tutti i tipi, oggi produciamo quasi solo cappe di aspirazione per cucine. Questo significa che intere filiere stanno scomparendo o che il lavoro diventa sempre più spesso precario: salari bassi, contratti interinali, poco lavoro dignitoso. Inoltre le maggiori imprese locali o hanno chiuso o sono state acquisite da multinazionali, i cui interessi stanno altrove».
Eccoci approdati a un punto cruciale: se la «testa» di un gruppo industriale sta ovunque, anche il lavoro può essere spostato ovunque. «Finché ci sono stati imprenditori locali – ammette Pullini – le aziende potevano permettersi di chiudere per un anno o due i bilanci in perdita senza toccare nessuno. Una multinazionale, appena vede ridursi i suoi margini, se ne va altrove». Ed è esattamente quel che Fabriano sta pagando: si è rotto il patto tra lavoro, imprese, territorio che per decenni ha tenuto insieme un’intera comunità.
Un destino segnato, dunque? Anche a Fabriano c’è chi, nel suo piccolo, non si rassegna e mette in campo esperienze che provano a cambiare non solo la narrazione ma anche lo stato concreto delle cose. «Fabriano Industry» è una iniziativa giovane; perché è nata negli anni a cavallo del Covid e perché alle nuove generazioni appartengono i suoi promotori. Federica Capriotti, presidente degli imprenditori di Fabriano in seno a Confindustria Marche ne racconta la genesi: «L’esperienza è nata da una mostra che voleva raccontare la creatività e le capacità locali di fare impresa. Perché siamo convinti che questo territorio possieda ancora opportunità, occasioni di crescita e di rinnovamento. Abbiamo fatto conoscere la realtà di imprese di Fabriano che stanno sviluppandosi e crescendo. Da mostra temporanea Fabriano Industry si è trasformato in un vero e proprio centro di aggregazione della città: oggi è un campus che mette in comunicazione imprese e giovani. L’obiettivo è far crescere le competenze necessarie alla manifattura del domani, facendo leva sulla cultura che ha fatto grande questa città».
Alessandro Carlorosi è stato il curatore della mostra, nata come evento «spot» e diventato permanente: «Era necessario cambiare la percezione, far capire che accanto alle crisi, restavano grandi potenzialità. Certo è un cammino appena iniziato, è una volontà di cambiare, è un seme che abbiamo piantato confidando nel futuro. Un’indagine che abbiamo condotto tra i giovani ha messo in luce una realtà divisa in due. Se una metà degli interpellati vedeva il suo futuro lontano da Fabriano, l’altra metà mostrava grande attaccamento al territorio. E su questo stiamo concentrando i nostri sforzi».
Certo, il problema restano ancora i grandi numeri: il gap tra i posti di lavoro bruciati dalla crisi delle grandi aziende e quelli che le nuove imprese promettono è ancora troppo largo. Poi le occasioni arriveranno.
A dicembre si è fatto molto parlare di un progetto che, partendo da Torino dovrebbe approdare a Fabriano: una «nanofactory» per la produzione delle Keicar, mini vetture elettriche. Un centro di produzione a Orbassano, in Piemonte, l’altro appunto a Fabriano. Si attendono sviluppi.
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