La crisi finanziaria del 2008 ha avuto dimensioni globali causando effetti negativi anche su economie non direttamente coinvolte. Uno dei canali di questa propagazione sono state le catene internazionali di produzione. Degli effetti della crisi sulle imprese multinazionali e di come queste abbiano deciso di riorganizzarsi per far fronte allo shock finanziario, si occupa un recente studio “Financial crises and the global supply network: Evidence from multinational enterprises” pubblicato su Journal of International Economics.
Per approfondire le implicazioni di questo studio, abbiamo incontrato una degli autori: Giulia Felice, docente di Economia Politica presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano.
Iniziamo con il conoscerci: qual è il suo percorso di studi e di ricerca?
Mi sono laureata in Economia Politica all’Università Bocconi e ho poi conseguito il dottorato in Economia all’Università di Pavia, occupandomi di temi legati alle determinanti della struttura settoriale delle economie mature e alle implicazioni della transizione da una struttura economica dominata dal settore manifatturiero ad una prevalentemente di servizi.
Prima di approdare al Politecnico sono stata post doc presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Milano dove ho iniziato a collaborare con il Centro Studi Luca d’Agliano, di cui sono tutt’ora Resident Fellow, ampliando i miei interessi al tema dei rapporti economici internazionali, in particolare estendendo la mia ricerca all’analisi dei processi di internazionalizzazione e innovazione delle imprese.
Nella mia formazione e successiva esperienza sono state fondamentali le esperienze passate all’estero. Ho trascorso un periodo alla fine del dottorato presso l’United Nations University – Maastricht Economic and Social Research Institute on Innovation and Technology (UNU-MERIT), grazie ad una borsa Marie Curie visiting Scholar. In seguito, sono stata ricercatrice per due anni presso il dipartimento di Economia dell’Università Carlos III di Madrid, con una borsa Marie Curie fellow, dove mi sono occupata in particolare di internazionalizzazione delle imprese come fattore abilitante dell’innovazione. Proprio durante quest’ultima esperienza ho posto le basi della collaborazione con i colleghi con cui ho lavorato alla ricerca sulle catene globali di produzione di cui trattiamo qui.
Ci racconti di cosa si sta occupando, come economista, al Politecnico di Milano…
Una premessa utile da fare è che un economista si può occupare di tantissime cose diverse a livelli diversi. Si può occupare di tecnologia e produzione, consumo e risparmio, lavoro ed istruzione, fertilità e migrazioni, salute e ambiente, moneta e finanza, commercio internazionale, politiche pubbliche e molto altro, a livello di Paesi, settori economici, singoli individui o gruppi. Il contesto generale in cui si muove l’economista però riguarda sempre come si articolano la produzione e la distribuzione delle risorse tra i soggetti attivi in un sistema economico nel suo complesso, per capire se e sotto quali condizioni il livello di benessere degli individui è garantito e, cosa più importante, come accrescerlo.
Se questo è l’ambito generale di studio di un economista, io in particolare mi occupo degli effetti dei comportamenti di consumo degli individui e delle scelte delle imprese sulla composizione settoriale di un sistema economico e sulla crescita del sistema nel suo complesso in Paesi a diverso livello di reddito.
Il filone di ricerca di cui vi parlo qui, in particolare, si concentra sull’impresa, in particolare sui network internazionali di produzione, studiando da un lato, come decisioni di produzione, investimento, innovazione e internazionalizzazione, abbiano effetti sull’economia del Paese dove opera l’impresa e sugli altri Paesi in relazione con esso. Dall’altro lato studio come le attività e le scelte delle imprese siano influenzate da avvenimenti esterni alla loro sfera diretta di influenza, come shock economici globali o politiche implementate da istituzioni nazionali e sovranazionali. Sempre nell’ottica di capire gli effetti delle attività delle imprese sull’ambiente economico attuale e futuro nel suo complesso e quindi sulle risorse a disposizione degli individui.
In questo senso, per la mia attività di ricerca, è significativo il fatto di essere inserita in un Dipartimento di Ingegneria Gestionale, perché mi consente di interagire con colleghi che studiano l’attività e le decisioni di impresa, ma con una prospettiva diversa, generalmente più concentrata su attività e processi decisionali che avvengono all’interno dell’impresa.
Entrando nel merito dello studio recentemente pubblicato, qual è l’oggetto della vostra ricerca?
In questo paper, i miei coautori Sergi Basco, Bruno Merlevede, Martì Mestieri ed io, analizziamo gli effetti della crisi finanziaria del 2008 sui global supply networks, ovvero le reti internazionali di produzione delle imprese. Si tratta di imprese multinazionali, che hanno affiliate in Paesi diversi da quelli in cui è situata la casa madre. In particolare, lo studio si concentra suinetwork delle imprese europee, ovvero di imprese con casa madre e affiliate in Europa, e sui cambiamenti che sono intervenuti in relazione ai Paesi in cui sono collocate e alle decisioni prese dalla casa madre.
Il punto di partenza per cui riteniamo utile questo tipo di analisi è che i network multinazionali di produzione sono un potenziale veicolo di efficienza e quindi crescita per le economie che coinvolgono, perché permettono di utilizzare in modo più efficiente le risorse e competenze specifiche dei singoli Paesi; permettono cioè di sfruttare quello che nella teoria del commercio internazionale si chiama vantaggio comparato, o di avvicinare la produzione ai mercati dove i beni e servizi vengono consumati. Tuttavia, come ogni processo complesso, l’internazionalizzazione della produzione e quindi i networks attraverso cui si attua sono molto fragili, in particolare proprio perché coinvolgono più Paesi. Inoltre, i vantaggi non sono distribuiti equamente tra Paesi, così come non lo sono le possibili conseguenze di uno shock negativo. È importante dunque studiare nel dettaglio le conseguenze che uno shock negativo come la crisi finanziaria del 2008 ha avuto su questi network e attraverso quali canali.
Quali sono il metodo e gli strumenti con cui gli economisti svolgono questi studi?
Tipicamente gli economisti basano le loro analisi su modelli teorici e analisi empiriche e utilizzano una mole consistente di dati, spesso provenienti da fonti secondarie. Su questi dati applichiamo tecniche statistiche, le tecniche econometriche, che ci permettono di individuare le relazioni causa-effetto nei fenomeni.
In questo studio abbiamo utilizzato dati su circa 18.000 network di produzione europei (ciascuno identificato da una casa madre e dalle sue affiliate in diversi paesi europei) con informazioni relative all’indebitamento, il fatturato, la produttività e il livello occupazionale delle singole imprese appartenenti al network. I dati per le singole imprese provengono dalla banca dati Amadeus fornita dal Bureau van Dijk. Il nostro coautore Merlevede ha ricostruito i networks di produzione per un periodo di tempo che va dagli inizi del 2000 agli anni più recenti. Le informazioni sullo shock finanziario sono invece a livello Paese e si basano su dati di fonte Eurostat. Noi poi abbiamo messo insieme questi dati, creando un dataset che ci permette di analizzare quella relazione di causa-effetto tra shock finanziario e network di imprese di cui parlavo prima.
Come avete misurato lo shock in questo studio?
Abbiamo utilizzato il risk premia, ovvero la differenza tra il tasso di interesse di un Paese e quello della Germania. Questo perché la Germania era considerata un Paese sicuro durante la crisi; pertanto se il risk premia di un Paese aumenta vuol dire che il Paese viene considerato meno affidabile di prima.
Abbiamo preso in considerazione il periodo dall’estate 2007, che è considerato l’anno in cui è iniziata la crisi (in Agosto BNP Paribas ha congelato i fondi relativi ai mutui sub-prime americani), al 2012, ovvero l’anno in cui l’allora Presidente della BCE – Banca Centrale Europea, Mario Draghi, annunciò il piano monetario per sostenere i Paesi in difficoltà, con la celebre formula “Whatever it takes”.
Dall’analisi della variazione del risk premia in questo periodo è emerso che molti Paesi hanno visto aumentare la propria inaffidabilità rispetto alla Germania, mentre per alcuni Paesi, come l’Inghilterra e la Danimarca, il risk premia è addirittura diminuito. Per i Paesi che hanno riscontrato un aumento del risk premia nasce da qui la crisi del debito, scaturita dalla preoccupazione che un Paese non abbia la capacità di ripagare il suo debito. Oltre alla misura a livello Paese, costruiamo anche la misura dello shock a livello del network, facendo una media tra gli shock dei Paesi in cui una casa madre ha le affiliate. Per cui, per esempio, due case madri con sede in Germania posso essere esposte a shock di intensità molto diversa perché i loro network internazionali coinvolgono Paesi diversi.
Quali sono i risultati principali dello studio?
Gli shock finanziari, come la crisi del 2008, mettono in luce le fragilità dell’internazionalizzazione della produzione: la crisi si propaga con più facilità attraverso le catene di produzione. Questo significa che anche un’impresa efficiente che si trova in un Paese “forte”, meno colpito dallo shock finanziario, può comunque subirne gli effetti negativi attraverso il network, in termini di performance, occupazione, vendite e fatturato. Questo vale sia per la casa madre, che può essere colpita attraverso il suo network, sia per le imprese affiliate che di quel network fanno parte.
Ma un secondo aspetto è forse ancora più rilevante e meno analizzato ad oggi, ed è appunto il focus del nostro lavoro: lo shock negativo può indurre la casa madre a ristrutturare il network stesso, in termini di numero di imprese, estensione geografica e settori in cui opera. La conseguenza principale che abbiamo osservato è che i network si riducono di dimensioni, cioè nel numero di affiliate, e diventano più concentrati geograficamente. Non solo si riduce la distanza media tra casa madre e affiliate, ma anche la distanza delle affiliate tra loro. Accade cioè che una casa madre situata, ad esempio, in Germania tende a estromettere dal network le affiliate in Portogallo e mantenere quelle in Polonia.
Maggiormente penalizzate, in termini di crescita negli anni successivi, sono le catene internazionali di produzione in cui la casa madre ha frammentato il processo produttivo comprando input da alcuni Paesi, assemblandoli in altri e vendendoli in altri Paesi ancora. Le imprese affiliate che sono cioè in una relazione “verticale” con la casa madre sono più a rischio di chiusura che non quelle affiliate che svolgono tutte le fasi del processo produttivo ed eventualmente vendono il bene finale in un altro Paese, replicando cioè all’estero l’attività della casa madre.
Un altro effetto importante che osserviamo è la riduzione del fatturato e dell’occupazione della casa madre in conseguenza dello shock; questo fenomeno non è così ovvio perché si verifica anche quando la casa madre è in un Paese non direttamente colpito dallo shock finanziario.
La seconda parte del nostro lavoro consiste nel tentativo di individuare i canali attraverso cui questi effetti si manifestano. In generale, osserviamo che il livello di indebitamento della casa madre e delle imprese affiliate sono elementi di fragilità del network. Più è indebitata la casa madre maggiore è l’effetto negativo dello shock negli aspetti che ho citato sopra. Inoltre, affiliate più indebitate e che operano in settori più esposti al credito esterno sono più facilmente soggette a chiusura da parte della casa madre. Queste osservazioni suggeriscono che l’impatto negativo della crisi sui network di imprese avviene attraverso la rottura della relazione di finanziamento dalla casa madre con le affiliate: più le affiliate sono dipendenti finanziariamente dalla casa madre, più il network è fragile e le affiliate corrono il rischio, in situazioni di crisi, di venire escluse dal network durante il processo di riorganizzazione. Questo succede tipicamente ai network di tipo verticale, perché le relazioni produttive tra imprese generano più facilmente flussi di finanziamento tra la casa madre e la affiliata.
Infine, bisogna tener presente che la collocazione geografica delle imprese ha un ruolo importante nel veicolare l’effetto dello shock. In Europa le multinazionali, pur essendo rilevanti in termini di occupazione e di prodotti, sono poche e le case madri sono concentrate in pochi Paesi, in prevalenza quelli del nord Europa. Dal nostro studio emerge che le affiliate che si trovavano nei Paesi mediterranei, più esposti alla crisi finanziaria, i cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono state eliminate dal network in misura maggiore, non necessariamente per la loro inefficienza, ma per la relazione di credito con la casa madre.
Quali sono le implicazioni di questo studio?
Come dicevo, lo studio parte dall’assunto che i network internazionali di produzione abbiano un ruolo potenzialmente positivo, e proprio per questo è essenziale individuarne i punti di fragilità e le implicazioni redistributive.
Il primo messaggio chiaro che emerge è l’importanza del sistema finanziario, che deve essere sano ed efficiente, ovvero deve essere in grado di convogliare le risorse verso le imprese efficienti e sostenerle nei momenti di crisi. Questo permette di ridurre la dipendenza finanziaria dalle case madre. I mercati finanziari non sono abbastanza integrati a livello europeo affinché il sistema finanziario svolga il proprio ruolo in modo efficiente. È un argomento molto discusso ultimamente in Europa: un sistema più integrato a livello europeo aiuterebbe indubbiamente le catene di produzione, migliorando la competitività delle imprese europee e rendendo al contempo alcuni Paesi meno dipendenti in termini di riallocazione delle risorse e quindi più forti.
In secondo luogo, il nostro studio mostra l’asimmetria intrinseca tra casa madre e affiliate nel processo decisionale e ciò che questa asimmetria comporta in caso di crisi. Questo aspetto suggerisce la necessità di integrare la capacità di un Paese di attrarre investimenti esteri, ovvero da parte di case madri situate in altri Paesi, con strategie atte a sviluppare risorse e tecnologie che permettano alle imprese di un Paese di crescere e investire nel resto del mondo. Un sistema finanziario efficiente e integrato dovrebbe essere in grado anche di sostenere le imprese in questa direzione, ma una politica industriale a livello europeo potrebbe giocare un ruolo fondamentale nell’individuare e sostenere le opportunità specifiche dei singoli Paesi.
Perché è importante oggi studiare la crisi finanziaria del 2008?
Le crisi finanziare possono essere di molti tipi: non c’è crisi che sia uguale all’altra, ma gli effetti negativi sono spesso di medio-lungo periodo e interessano le imprese così come le famiglie. La ridotta capacità di accesso al credito porta infatti alla riduzione della produzione da parte dell’impresa e della domanda da parte delle famiglie. Le decisioni che prendono le imprese multinazionali nelle fasi di crisi rivestono una grande importanza in termini non solo di produzione, ma anche di occupazione e hanno quindi effetti socio-economici di larga scala. Studiare le crisi passate e i loro effetti, capirne i meccanismi e i canali attraverso cui agiscono, è utile perché esse ricorrono nel tempo, anche se mai in maniera uguale.
La crisi del 2008 è particolarmente importante perché il mondo dopo di essa non è stato più lo stesso: le relazioni tra le imprese, il commercio internazionale, la crescita globale sono notevolmente cambiati. Lo shock finanziario ha ridisegnato l’organizzazione dei network produttivi; tale riorganizzazione non è stata immediata, ma è ancor più evidente negli anni successivi, come quelli dal 2013 al 2015. La crisi del 2008 è stato un momento di cesura, che ha rappresentato l’inizio di un processo di riorganizzazione che continua nel tempo a causa dei continui shock di cui siamo testimoni, tutti caratterizzati da aspetti che generano sfide in particolare all’integrazione internazionale dei mercati e della produzione.
Su cosa si concentrerà la sua attività di ricerca in futuro?
Vorrei concentrarmi su un altro aspetto importante, legato ai network internazionali europei: l’innovazione. Si parla molto della perdita di capacità competitiva delle imprese europee, soprattutto nei settori manifatturieri, perché non siamo alla frontiera in termini di innovazione.
L’idea per il prossimo studio è quella di analizzare l’impatto della crisi del 2008 sulla capacità innovativa delle imprese dei network internazionali. Al momento siamo in una fase iniziale di brainstorming, ma quello che vorremmo studiare è se la capacità innovativa di un network internazionale di imprese sia maggiore rispetto ad un network nazionale, a sua volta maggiore rispetto a quella delle imprese prese da sole. C’è poca evidenza empirica sul legame tra network internazionali e innovazione, anche se un po’ di letteratura ci porta a pensare che ci sia una relazione positiva: innanzitutto il network internazionale può sfruttare le eccellenze delle imprese collocate in diversi Paesi, con capacità, specificità tecnologiche e sistemi nazionali di innovazione diversi. Un network di imprese dovrebbe dunque essere portatore di un maggior potenziale innovativo che non le singole imprese. In secondo luogo, bisogna pensare alla trasmissione internazionale della conoscenza (Knowledge flow): la casa madre, che probabilmente ha più capacità di sostenere i costi della ricerca e sviluppo, può trasmettere le conoscenze interagendo con le imprese produttive di Paesi diversi; in questo modo l’innovazione si diffonde internazionalmente, con minor necessità di sostenere costi per le imprese affiliate. D’altro canto è necessario capire quali caratteristiche del network e dell’ambiente in cui opera garantiscono questa trasmissione della conoscenza e chi ne beneficia.
Un altro aspetto che esploreremo è quanto la capacità di innovazione dipenda dalla capacità di finanziamento. Ancora una volta il sistema finanziario gioca un ruolo fondamentale perché innovare costa. Anche qui vanno comprese le implicazioni della dipendenza o dell’autonomia di una affiliata rispetto alle risorse provenienti dalla casa madre.
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