“Eccetera”. Una parola, un soffio, un congedo che racchiude l’infinito. Le luci si spengono, un lungo schermo a LED si accende e proietta una lista vertiginosa di parole, suggestioni, frammenti di un racconto ancora da scrivere. Poi ecco partire una musica martellante: la prima modella calca la scena mentre alle sue spalle scorre una scritta. Con un’immersione totale in una “vertigine lessicale”, Alessandro Michele ha scelto di inaugurare il suo primo show Haute Couture per Valentino, battezzato non a caso “Vertigineux“. Un debutto fulminante, suggestivo, avvolgente, che ha stregato il pubblico presente alla Bourse di Parigi, trasformata per l’occasione in un “teatro immaginario” dove 48 modelli, come attori di un’opera corale, hanno dato vita a una visione onirica e potente.
“Sono stanco ma felice”, confessa Alessandro Michele dopo la sfilata, accolta da un’ovazione. “Per me oggi è una festa, è stato un grande sforzo fino a questa mattina e ora ho un grande senso di pace! Non avevo mai fatto questo incredibile viaggio nella couture […] Adesso che è finito, mi sento svuotato, come alla fine di un film”. Un “film” durato mesi, un viaggio nella “magnificenza di lavorare a un abito come fosse una scultura”, reso possibile dalla maestria delle sarte dell’atelier di Piazza Mignanelli, vere protagoniste, insieme agli abiti, di questo debutto memorabile.
“Vertigineux” non è solo il titolo della sfilata, ma anche una dichiarazione d’intenti. Una “poetica della lista” che si ispira a Umberto Eco e alla sua concezione dell’infinito, “che è come mettere l’oceano in un bicchiere”, spiega Michele. “Sono un grande appassionato di liste, da collezionista”, spiega quindi lo stilista. “Elementi chimici di partenza sono le liste, gli abiti sono infinite liste di virtuosismo tecnico”. Ogni abito diventa così una lista infinita, “un micro mosaico di tessuti e trame spesso incontrollabili perché fuggono dalla realtà”, “una costellazione di visioni che trema e si dissolve nel vortice dell’enumerazione”. Un’idea che si traduce in 48 look, 48 liste, ognuna popolata da suggestioni stratificate: “Grandezze misurabili, fili emotivi, riferimenti pittorici, appunti merceologici, trapunte biografiche, trame cinematografiche, geometrie cromatiche, cuciture filosofiche, segni musicali, orditi simbolici, ricami linguistici, pieghe del tempo, frammenti botanici, archetipi visivi, tessuti storici, intarsi narrativi, nodi relazionali, eccetera”, scrive nelle sue note il direttore creativo, con una magniloquenza che riflette la grandiosità dei suoi abiti.
La sfilata è un viaggio nella meraviglia e nello stordimento, e quando è finita i presenti si sono ritrovati al contempo ebbri e svuotati anch’essi dalla potenza della performance. Ad aprirla è un “abito da ballo Arlecchino”, fastoso e teatrale, un capolavoro di manualità che ha richiesto mesi di lavoro solo per il corpino in georgette. Poi, una “catena di abbagli di bellezza”, come li definisce Michele, che evocano “scene di corti principesche”, con gonne a panier e acconciature da scrigno. L’archivio di Valentino degli anni ’80 e ’90 si fonde con rimandi pittorici, costumi settecenteschi, riferimenti letterari, tracce storiche e cinematografiche, in un’apparente disordine che trova un suo ordine, come in un sogno. C’è l’eco di Barry Lyndon e del Gattopardo, l’ombra della Marchesa Casati, e persino un omaggio a Piero Tosi, il grande costumista, in un abito che sembra uscito da un suo film. “Volevo fare il costumista da ragazzo e si vede, credo“, confessa lo stilista. È un climax continuo, fino all’ultimo abito con “un orlo di 650 metri col birillino fatto a mano”, come rivela Michele, descrivendo un capo che è “una realtà aumentata, un progetto surreale”. È l’apoteosi della vertigine del dettaglio, dell’eccesso, dell’infinita stratificazione di segni che caratterizza il suo linguaggio. Un linguaggio che ora trova la sua massima espressione nell’Haute Couture.
La sfilata si chiude sulle note liriche di “Romeo and Juliet” di Prokofiev, un’allusione allo scontro, al contrasto, ma anche all’amore e alla passione che animano questa collezione. Le modelle non sfilano composte una dietro l’altra ma corrono, controvento, davanti a uno schermo all’apparenza rotto ma che allude più a un sogno onirico o meglio ad una fuga. Sembrano personaggi di una fiaba dei fratelli Grimm che corrono a rituffarsi nel baule incantato in cui sono stati racchiusi fino ad ora. Un invito ad “abbracciare un sogno, prendendo tutto il tempo necessario per sprofondare in nostre personali fantasie”.
“Ho pensato all’autostrada e ai parcheggi, un linguaggio facile e crudo che mi arriva subito”, racconta ancora Michele, spiegando il contrasto tra la tecnologia dello schermo LED, su cui scorrono le liste di parole, e la storicità, quasi sacrale, degli abiti. “I vestiti hanno bisogno di una messa in scena perché la nostra vita è una messa in scena”, afferma con convinzione. “I vestiti non vivono da soli, hanno bisogno di corpi e di suoni, hanno bisogno di quello che li rende vivi: teatro e messa in scena”. E in effetti, “Vertigineux” è una vera e propria pièce teatrale, dove ogni abito è un personaggio, ogni dettaglio una battuta, ogni sarta un’artefice dietro le quinte. “C’è un grande senso, adesso, nell’idea di vedere mani che producono un oggetto. La couture è antenata della moda e quindi i costumi sono antenati della moda”, riflette lo stilista, sottolineando il legame indissolubile tra moda e teatro, tra abito e rappresentazione. “Non sono un sarto, forse non sono neanche un couturier, non so cucire, conosco la teoria, ma nella pratica…maneggio gli spilli molto bene”, ammette con un’umiltà che spiazza la stampa presente. “Sono in grado di raccontare e far vedere qualcosa che renda la moda significante. È un lavoro che faccio con passione, consumando me stesso come le saponette sotto l’acqua”.
Una passione che traspare in ogni dettaglio, in ogni cucitura, in ogni parola. “Ho dovuto guadagnarmi la loro fiducia”, racconta, riferendosi alle sarte dell’atelier. “Pensavo fossero un’eredità, questo luogo è stato ereditato ma è stato anche curato e mantenuto in vita attraverso la vita. Non ha mai smesso di lavorare e si fanno vestiti per persone che vivono”. E ancora, descrive atmosfere che sembrano uscite da Diamanti di Ferzan Ozpetek: “Non sono padrone di questi vestiti, non è una cosa mia, questi abiti hanno un potere sovrannaturale. La couture è una macchina medievale sacra che nessuno può toccare, però è vera e diventa viva”. E questa sua ossessione per il Medioevo è il cuore del suo stesso processo creativo: se in passato la moda partiva spesso dal costume per poi tradursi in abiti reali, per la vita di tutti i giorni, in questa collezione Michele sembra compiere un percorso inverso. Rifugge dalle tendenze, dalla frenesia del contemporaneo, per tornare al costume, all’archetipo, alla purezza di un’arte che si nutre di storia e di immaginazione. “Potevo scalpitare, ma gli abiti chiedevano tempo”, spiega, sottolineando come la Couture richieda una dedizione e una pazienza d’altri tempi. “È bellissimo il suo essere così tridimensionale. C’è un rapporto forte con la terza dimensione, che si materializza attraverso questa lentezza, contro il tempo dello scroll”.
Non è un’operazione nostalgica, però. È piuttosto un proiettare il passato nel futuro, un recuperare tecniche antiche, “l’inizio di tutto”, come il “volume crochet”, il “virtuosismo di saper costruire un abito attraverso strutture che determinano una sapienza”. “Il sotto è quasi più bello”, confessa Michele, rivelando la cura maniacale per ogni dettaglio, anche quello che non si vede. Un capolavoro che, come conclude lo stesso Michele, ci ricorda che “ogni filo, ogni cucitura, ogni traccia di colore si trasfigura in una molteplicità che trascende i confini del visibile”. E forse, proprio in questa trascendenza, risiede il segreto dell’eterna magia dell’Haute Couture.
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