Nel presentare disinvoltamente gli obiettivi strategici per la prima parte della sua presidenza, Donald Trump ha sottolineato l’«assoluta necessità» che gli USA controllino la Groenlandia, scatenando una corsa mondiale alla ricerca di notizie sull’isola atlantica
Negli ultimi anni, il nome dell’ex colonia danese era entrato nel circuito dell’informazione solo perché citato dai negazionisti del cambiamento climatico come esempio, naturalmente improprio, di territorio originariamente “verde” ed abitabile, divenuto negli ultimi secoli ghiacciato ed inospitale. O al massimo per le sue risorse minerarie (gas e petrolio) e le “terre rare” sempre più ricercate dalla famelica economia digitale.
È allora forse il caso di mettere alcuni punti fermi a proposito di questo lembo del globo, su cui si è scatenato il circuito globale dell’informazione. In primo luogo, va ricordato che le mire degli USA sulla spopolata isola atlantica – che con 56 mila abitanti e oltre 2 milioni di km2 di superficie ha una delle densità abitative più basse al mondo – sono di lunga data. Come ricorda una bella pagina di Wikipedia, le offerte americane per acquisirla si sono ripetute negli ultimi due secoli. La più importante nel 1946, quando Washington stava ridisegnando gli equilibri mondiali e la Groenlandia era ancora una colonia della corona danese, soggetta dalla madrepatria ad uno stretto monopolio commerciale. Nella sua prima presidenza, a partire dal 2017, Donald Trump e i suoi consiglieri hanno quindi cominciato a lanciare segnali di interesse parlando esplicitamente di «acquistare» (purchasing) la Groenlandia e sollevando la risposta piccata del governo danese.
La Groenlandia non fa parte, come si legge talvolta, dell’Unione europea. Anche se pochi se ne ricordano, è il primo caso di exit dall’integrazione economia e politica del continente, portato a compimento una trentina d’anni prima di quella del Regno Unito. Dopo la sua inclusione nel 1953 nella corona di Danimarca non più con lo status di colonia ma con quello di territorio nazionale, iniziò in realtà per l’isola, i cui abitanti sono in larghissima maggioranza Inuit, un lento e indolore processo di distacco da Copenhagen.
Con l’entrata della Danimarca nella CEE (1972) tale processo si accelerò e condusse all’uscita della Groenlandia dall’allora Comunità Economica Europea, che si compì nel 1985. La decisione venne motivata con la volontà di affrancarsi dai regolamenti europei sulla pesca, ma un ruolo non irrilevante giocarono anche le forti limitazioni alla caccia della foca previste dalla normativa europea (83/129/CEE), che andavano contro la tradizione e la possibilità di sopravvivenza di molte comunità Inuit.
Nel 2008 un referendum popolare approvò un ulteriore grado di autonomia rispetto al parlamento danese, che si era impegnato a rispettarne il risultato. Dall’anno successivo la Groenlandia ha quindi acquisito un’autonomia pressoché completa in tutta una serie di materie, dal sistema giudiziario alla gestione delle risorse minerarie. Ma per quanto riguarda la politica estera e la difesa rimane all’interno della sovranità danese: dunque, naturalmente, all’interno della NATO, dal cui ombrello è coperta grazie al famoso art. 5 del Patto che protegge i paesi membri dell’Alleanza atlantica secondo il principio: “un attacco a uno è un attacco a tutti”. A seguito di un trattato del 1951, Washington dispone quindi di un’importante base missilistica lungo la costa nord-ovest dell’isola, la Pituffik Space Base, che è una pedina fondamentale nel sistema missilistico statunitense.
Una miniera di risorse
Negli ultimi anni due questioni globali stanno tuttavia modificando la percezione che si ha della Groenlandia in occidente e la sua importanza politica e strategica. In primo luogo, il fatto che l’isola sia un vero e proprio forziere di risorse naturali. Il suo sottosuolo contiene infatti cospicue quantità di petrolio e gas naturali (le stime, non sempre disinteressate, divergono tra le varie fonti) anche se le particolari condizioni climatiche ne rendono lo sfruttamento, per ora, non sempre economicamente conveniente rispetto alle nuove risorse petrolifere americane e a quelle tradizionali asiatiche. Ma soprattutto la terra groenlandese contiene quelle che anche il grande pubblico ha imparato a conoscere come “terre rare”, cioè quei minerali indispensabili per l’industria informatica e la transizione ecologica.
Si tratta di cobalto, grafite, litio e nichel utilizzati nella costruzione di batterie, ad esempio per i motori elettrici, di rame e di zinco, e anche di metalli di nicchia come il titanio, il tungsteno e il vanadio, utilizzati per creare “superleghe”. Insomma, una sorta di Bengodi minerario simil-africano a due passi dalle coste dell’economica più avanzata al mondo. Come ha scritto l’Economist, l’isola possiede riserve per 43 dei 50 minerali considerati “critici” dal governo americano, con una stima di disponibilità di 42 milioni di tonnellate, circa 120 volte di più di quanto sarà estratto a livello mondiale nel 2023.
L’altra questione, strettamente collegata a questa, è ancor più legata alle macro-trasformazioni del clima planetario. A causa del fenomeno dell’amplificazione polare, che porta la calotta artica a procedere lungo la strada del riscaldamento climatico a velocità doppia, nell’arco di due decenni, secondo uno studio della Brown University, vaste aree limitrofe al Circolo Polare Artico resteranno prive di ghiaccio per mesi. Nell’arco di qualche decina di anni non solo la rotta marittima del North West Passage (NWP), in verde nella cartina, che connette Oceano Pacifico e Oceano Atlantico passando vicino a Canada e Alaska, e la Northern Sea Route (NSR) che costeggia la Federazione Russa e l’Europa scandinava, ma addirittura la Rotta Transpolare (TSR) che taglia attraverso il Polo ed è la meno percorribile potranno diventare in tutto o in parte, e soprattutto più a lungo, utilizzabili.
Al centro della competizione USA-Cina
Chi si è affrettato a sperimentare e investire sulle rotte artiche è la Cina, che ha approfittato negli ultimi due anni dell’eccezionale riscaldamento climatico e del fatto che l’alleata-competitrice Russia è in altre faccende affaccendata.
Nel 2023 la Repubblica Popolare ha effettuato sette transiti lungo questa rotta, incluso uno controverso in cui una nave cinese ha danneggiato un gasdotto, tracciando così un embrione di primo servizio regolare di trasporto container tra Asia ed Europa attraverso i mari artici. La compagnia NewNew Shipping Line ha annunciato che nel 2024 intendeva incrementare ulteriormente il numero di transiti e aumentare la flotta di navi attrezzate per affrontare i ghiacci.
Per adesso la navigazione artica richiede costi fissi ed operativi considerevoli, ma in prospettiva, tenendo conto che la riduzione del percorso rispetto ai consueti passaggi di Suez o di Panama è del 50%, si tratterebbe di una soluzione fortemente conveniente, anche in termini di riduzione delle emissioni di gas serra. Il passaggio a fianco di entrambe le coste della Groenlandia ridisegnerebbe quindi il ruolo commerciale dell’isola, consentendo inoltre fruttuose sinergie in termini trasporto di materie prime e prodotti petroliferi.
Ma la Polar Silk Route non è la sola opzione della strategia win-win di Pechino. Il governo popolare sta infatti cercando di portare avanti grandi progetti di esplorazione e sfruttamento minerario in Groenlandia, che hanno da tempo sollevato l’attenzione preoccupata degli Stati Uniti. Il timore è che attraverso questo tipo di operazioni economiche la Cina giunga a un controllo sostanziale dello spazio groenlandese, o che quantomeno rafforzi in modo considerevole la sua presenza a qualche centinaia di miglia marine dalle coste nordamericane. Alcuni esempi fra tanti: nel 2016, il governo danese è intervenuto per impedire alla società mineraria General Nice, con sede a Hong Kong, di rilevare la base navale abbandonata di Grønnedal. Più di recente, nel 2021, ha posto un bando all’estrazione dell’uranio bloccando il progetto Kvanefjeld dell’azienda mineraria australiana Greenland Minerals e del suo partner cinese Shenghe Resources, che aveva investito più di 100 milioni di dollari per la fase preliminare del progetto. Questo tipo di operazioni sta spingendo il governo di Copenaghen ad un nuovo interventismo anche economico che va nella direzione contraria al processo in atto di assegnazione di una sempre maggiore autonomia all’isola tra i ghiacci, con crescenti frizioni tra Copenaghen e la capitale Nuuk.
Le risposte alla plateale offerta di acquisto della Groenlandia da parte di Trump sono state, da parte danese, inevitabilmente tra l’ironico e lo stizzito. Ma il fatto che l’isola sia diventata l’ennesima pedina del grande gioco globale tra USA e Cina con in palio la leadership mondiale, è una questione molto seria: a Copenaghen come a Washington, come a Nuuk, la capitale della Groenlandia di circa 18.000 abitanti.
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