Il ritorno in Occidente della forza come metodo per ridisegnare i confini – prima con la guerra in Ucraina, ora con le minacce di Donald Trump sulla Groenlandia – dovrebbe aumentare il nostro grado di sensibilità per quel che sta accadendo nella Repubblica democratica del Congo, dove un gruppo di miliziani – sostenuti e incoraggiati dal governo del Ruanda – si è impossessato di territori sempre più ampi nella regione orientale del Paese, fino a conquistare la città di Goma, che conta più di un milione di abitanti. Gli sfollati nella provincia del Kivu Nord sono già più di 500mila, in un contesto in cui l’Oms segnala un aumento preoccupante degli stupri, da tempo usati come strumento di guerra in una delle regioni più insanguinate del mondo.
La presa di Goma è il culmine di più di due anni di violenza da parte dei ribelli congolesi di M23, un movimento nato per difendere i tutsi congolesi ma che nel tempo si è trasformato in una milizia proxy del Ruanda, il quale punta a estendere la propria influenza in quest’area della Repubblica democratica del Congo ricchissima di minerali, ma anche a eliminare le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda, di etnia hutu. Secondo gli analisti, il Ruanda – che pure continua a negare di essere coinvolto direttamente – ha fino a 4.000 soldati nel Congo orientale a supporto dell’avanzata di M23. Negli ultimi anni – ricostruisce l’Economist – il rapporto tra il governo di Kigali e i ribelli si è rafforzato sempre di più, al punto che il movimento ha utilizzato missili terra-aria e veicoli blindati che lo rendono più simile a una divisione dell’esercito che a una milizia eterogenea. Nelle settimane precedenti l’ultima offensiva, il Ruanda ha bloccato i dispositivi GPS utilizzati dalle forze anti-M23; il 26 gennaio un drone d’attacco ruandese è entrato in azione, mentre i soldati di M23 combattevano contro alcune centinaia di forze speciali congolesi sul monte Goma, alla periferia della città, e poi in scontri strada per strada.
Le intenzioni del governo di Paul Kagame, presidente del Ruanda, sembrano fin troppo chiare: quello che vuole è ridisegnare la mappa della regione, aumentando il proprio controllo su un’area ricchissima di minerali rari. L’anno scorso M23 ha sequestrato una zona attorno alla città congolese di Rubaya che è ricca di coltan, un minerale utilizzato nei cellulari e nei computer. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, a dicembre almeno 150 tonnellate di coltan sono state esportate illegalmente in Ruanda e mescolate alla produzione ruandese. Il ministro degli Esteri del Ruanda Olivier Nduhungirehe ha dichiarato all’Associated Press che il presidente congolese Tshisekedi “dovrà accettare i colloqui con M23” per porre fine al conflitto. Gli analisti affermano che M23, sotto la guida del Ruanda, sta cercando di occupare il Congo a lungo termine. Il piano sarebbe quello di istituire uno stato amministrativo con cui imporre tasse e multe ai residenti (“affinché la gente possa continuare a vivere una vita normale e gli sfollati possano tornare a casa”, nella versione presentata dal movimento stesso all’Associated Press, con assonanze impressionanti alla retorica russa nel Donbass).
Se questo è il piano – preparato e portato avanti nell’indifferenza della comunità internazionale – non sorprende né l’impasse in cui si trova il presidente della Repubblica democratica del Congo Felix Tshisekedi, né la rabbia espressa ieri dai congolesi, che hanno attaccato diverse ambasciate straniere e un edificio delle Nazioni Unite a Kinshasa in un’esplosione di collera verso gli alleati del Congo per non essere riusciti a fermare l’avanzata di M23. In tutto ciò il presidente Tshisekedi ha fatto sapere che non parteciperà alla riunione d’emergenza della Comunità dell’Africa Orientale (Kenya, Tanzania, Uganda, Burundi e Ruanda) focalizzata sulla situazione nel suo Paese. Il tentativo di mediazione del Kenya, per ora, non sta dando alcun risultato, tanto meno gli appelli dell’Onu a sedare le violenze.
In questa storia, gli unici ad avere delle leve sono i Paesi occidentali, che però – come sottolinea il New York Times – negli ultimi anni hanno progressivamente puntato sul Ruanda sotto diversi aspetti. La piccola nazione centroafricana guidata da Kagame ha trascorso l’ultimo decennio a rafforzare la sua reputazione tra le potenze occidentali, diventando troppo utile per essere sanzionata alla svelta, affermano alcuni analisti. L’Unione Europea ha firmato un accordo strategico sui minerali con il Ruanda l’anno scorso, suscitando accuse da parte dei gruppi per i diritti umani di alimentare il conflitto. Il Ruanda, con una popolazione di soli 14 milioni di persone, attualmente fornisce il secondo numero più alto di peacekeeper alle Nazioni Unite. A partire dal 2021, le sue truppe hanno respinto un’insurrezione jihadista in un’area del Mozambico dove un gigante petrolifero francese ha un progetto di gas da 20 miliardi di dollari. E poi c’è la questione migranti, con la disponibilità manifestata dal governo di Kigali ad accogliere i richiedenti asilo dall’Europa, per la gioia dei partiti e delle forze di governo di destra.
“I Paesi occidentali sono stati a lungo reticenti nel punire il Ruanda, che si è coltivato la reputazione di beniamino dei donatori”, ha affermato al Times Dino Mahtani, ex consigliere della missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite in Congo. “Mentre alcuni ora chiedono finalmente a Kagame di ritirare il supporto a M23, è improbabile che agiscano contro quella che vedono come la soluzione militare contro i jihadisti in Mozambico”.
A parte qualche rimprovero, per ora l’Occidente non ha battuto un ciglio, salvo preoccuparsi delle sue ambasciate e dei suoi viaggiatori. Il Belgio è stato il primo Paese a sconsigliare, a partire da oggi, viaggi nella Repubblica democratica del Congo. Il capo della diplomazia americana Marco Rubio ha chiesto al presidente ruandese “un cessate il fuoco immediato nella regione”, invitando “tutte le parti a rispettare l’integrità territoriale sovrana” della Repubblica democratica del Congo, si legge in una nota del Dipartimento di Stato. Nel 2012, quando M23 assaltò per la prima volta Goma, le pressioni americane furono decisive per far rientrare la situazione. Oggi il quadro è radicalmente cambiato: alla Casa Bianca siede un uomo che è il primo a voler cambiare le mappe geografiche a proprio piacimento.
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