Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado dell’Emilia-Romagna, sezione n. 1, sentenza n. 752 depositata il 2 settembre 2024
Ai fini Irap, l’art. 1, comma 281, della Legge n. 147/2013, nell’aver previsto, senza soluzione di continuità rispetto alla disciplina previgente, l’applicazione della disciplina del transfer pricing ex art. 110, comma 7, TUIR anche ai periodi d’imposta precedenti alla sua entrata in vigore (dal 2008 in poi), costituisce norma interpretativa. L’efficacia retroattiva non lo espone a fondati sospetti di illegittimità costituzionale e comunitaria per violazione dei principi di certezza del diritto, irretroattività delle leggi, buona fede e legittimo affidamento
***
1. Con sentenza n. XXX/01/2019 del 17.4.2019 (dep. il 3.7.2019) la Commissione Tributaria Provinciale di Bologna dichiarava l’estinzione del giudizio instaurato a seguito di ricorso iscritto al n. XXX/2017 RGR, relativo a Ires 2012, per avvenuta conciliazione giudiziale e accoglieva parzialmente il ricorso iscritto al n. YYY/2017 RGR, compensando le spese del giudizio; detti ricorsi erano stati proposti dalla B. S.C. (di seguito indicata anche solo come B.) avverso gli avvisi di accertamento n. TGB0EMU00XXX/17 per Ires e altro 2012 e TGB0CMU00YYY/17 per Irap 2012 emessi dall’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale dell’Emilia Romagna (di seguito indicata anche solo come Agenzia).
In tale sentenza si esponeva quanto segue.
L’Agenzia aveva eseguito una verifica a carico della B., conclusa con un p.v.c. riportante i seguenti rilievi, relativi all’anno 2012:
A) tre rilievi relativi all’Irap, oggetto dell’avviso di accertamento GB0CMU00YYY/17, impugnato con ricorso iscritto al n. YYY/2017 RGR;
– rilievo n. 3 – Transfer pricing – interessi passivi (su conti correnti) eccedenti il valore normale, in violazione degli artt. 6 e 11 d.lg. 446/1997; art. 1 co 281 l. 147/2013;
– rilievo n. 4 – Svalutazione immobile non deducibile, in violazione dell’art. 6 comma 1 d.lg. 446/1997;
– rilievo n. 5 – omesso ribaltamento di componenti positivi, in violazione dell’art. 6 comma 6 e dell’art. 5 comma 4 d.lg. 446/1997;
B) un rilievo Ires, oggetto dell’avviso di accertamento n. TGB0EMU00XXX/2017, impugnato con ricorso iscritto al n. XXX/2017 RGR; il rilievo era motivato dalle stesse ragioni sottese al rilievo n. 3 (transfer pricing ).
In specie, il contenuto dei rilievi nn. 3, 4, 5 era il seguente:
– rilievo n. 3:
nell’anno in esame B. aveva intrattenuto numerosi rapporti di conto corrente con la società (controllata al 99%) di diritto lussemburghese, B. (Europe) International (di seguito B. LUX); quest’ultima risultava sempre a credito con conseguente corresponsione, da parte di B., di interessi passivi pari a € 3.727.980,00, calcolati con un tasso del 2,94% circa;
dai controlli eseguiti, i verificatori ritenevano che il tasso di rendimento fosse eccessivo, in quanto superiore a quello determinabile in condizioni di libera concorrenza e lo rideterminavano nella misura dell’1,10%, con conseguente recupero a tassazione degli interessi passivi dedotti in eccesso, pari a € 2.210.557,00;
– rilievo n. 4:
era stata riscontrata l’indebita deduzione dell’importo di € 364.470,00, relativa alla svalutazione di un immobile; la ricorrente aveva prestato acquiescenza al rilievo e, sul punto, l’accertamento era definitivo;
– rilievo n. 5:
era stato recuperato a tassazione l’importo di € 4.139.060,00, riferito a ricavi da Commissioni per istruttoria veloce (CIV) e da affitti attivi, ricavi che la B. aveva escluso dalla base imponibile dell’Irap; l’Agenzia riteneva che tali componenti positivi di reddito andassero inclusi, essendo correlati a componenti negativi dedotti (art.6 comma 6 d.lg. 446/1997).
Il giudizio di cui al n. XXX/2017 RGR si era concluso con il deposito di accordo conciliativo (prot. 25777/2019 del 15.4.2019) ex art. 48 d.lg. 546/1992, avendo le parti convenuto di determinare il tasso di interesse da applicarsi ai rapporti fra B. e B. LUX nella misura dell’1,87%, con compensazione delle spese di lite.
La controversia, dunque, proseguiva in ordine ai soli rilievi n. 3 e n. 5, relativi all’Irap di cui al ricorso iscritto al n. YYY/2017 RGR e il tasso d’interesse praticato dalla B. a favore della B. LUX restava definito nella misura dell’ 1,87%.
Riguardo al rilievo n. 3:
– la ricorrente sosteneva che era illegittima l’applicazione in via retroattiva dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 (che estendeva all’Irap il disposto dell’art. 110 comma 7 TUIR anche per gli anni successivi al 2007); tale retroattività violava l’art. 3 comma 1 l. 212/2000 e i principi dell’ordinamento giuridico italiano e comunitario (certezza del diritto, tutela del legittimo affidamento, buona fede e collaborazione tra contribuente e amministrazione finanziaria), come confermato dalla giurisprudenza; la norma doveva
essere disapplicata ovvero rinviata alla Corte Costituzionale o alla Corte di Giustizia;
– l’Agenzia riteneva che l’art. 1 comma 281 l. 147/2013 fosse norma interpretativa, esplicitamente retroattiva, come confermato anche dai successivi commi 282 e 283 che non prevedevano sanzioni per infedele dichiarazione; lo Statuto del contribuente aveva valore di legge ordinaria, derogabile da altra norma di pari grado; non vi erano ragioni per ritenere fondata la questione di illegittimità costituzionale, né era possibile, in caso di contrasto con i principi comunitari, disapplicare la norma senza un rinvio alla Corte di Giustizia (inammissibile, nel caso di specie, trattandosi di un tributo non armonizzato).
Riguardo al rilievo n. 5 (mancato assoggettamento a tassazione Irap di componenti positivi correlati a componenti negativi dedotti):
– la ricorrente sosteneva l’illegittimità del recupero per violazione dell’art. 5 d.lg. 446/1997, in quanto non era stata dimostrata una correlazione diretta fra i suddetti componenti; in specie, secondo le istruzioni della Banca d’Italia, le CIV dovevano essere indicate in bilancio alla voce 190, espressamente esclusa dall’Irap; inoltre, essendo le CIV calcolate in via forfettaria, era impossibile correlarle a specifici costi;
anche gli affitti attivi non avevano correlazione diretta con i costi dedotti;
– l’Agenzia evidenziava che la norma di riferimento era l’art. 6 comma 6 d.lg. 446/1997 (e non l’art. 5 citato dalla ricorrente);
la legge indicava quali componenti positivi e negativi di reddito (ai fini Irap) quelli derivati dal conto economico redatto secondo le disposizioni della Banca d’Italia (principio di derivazione), ma tale principio doveva essere integrato da quello di correlazione (art. 6 comma 6, ultimo periodo, d.lg. 446/1997), secondo il quale potevano essere rilevanti anche componenti positivi inclusi in voci di bilancio escluse dall’Irap, purché correlati a costi rilevanti per la formazione della base imponibile.
La Commissione osservava quanto segue:
– sul rilievo n. 3:
riguardo alla valenza da attribuire all’art. 1 comma 281 l. 147/2013 (se di interpretazione autentica e quindi applicabile retroattivamente o se di natura innovativa), la Commissione non aveva motivo di discostarsi dal proprio orientamento (già espresso in analoga fattispecie:
sent. 1018/2016), nel senso di ritenere la suddetta norma di natura interpretativa e, quindi, applicabile retroattivamente, come peraltro
disposto nel contenuto; la natura interpretativa era confermata anche dai successivi commi 282 e 283, che non prevedevano le sanzioni per infedele dichiarazione per gli anni 2007 e seguenti, previsione che non avrebbe avuto alcun senso se la norma non fosse stata applicabile retroattivamente;
riguardo alla pretesa lesione di principi dell’ordinamento nazionale e comunitario, l’art. 1 comma 2 l. 212/2000 (diretto a limitare la retroattività delle norme tributarie a casi eccezionali e mediante norme espressamente qualificate “di interpretazione autentica”) era comunque una legge ordinaria, derogabile con una norma di pari grado; la disciplina sui prezzi di trasferimento era dunque applicabile anche ai fini Irap; in considerazione dell’intervenuta conciliazione sul medesimo rilievo ai fini Ires e in parziale accoglimento sul punto del ricorso, la Commissione riteneva che l’originaria pretesa impositiva per l’Irap doveva essere ridotta dall’Agenzia, sulla base dell’applicazione ai rapporti di finanziamento intercorsi con la controllata lussemburghese del tasso d’interesse dell’ 1,87% in luogo di quello accertato (pari all’1,10%);
– sul rilievo n. 5:
le somme addebitate ai clienti in caso di sconfinamento in assenza di affidamento oppure oltre il limite del fido (CIV) erano determinate dal d.lg. 385/1993 e dalle disposizioni della Banca Centrale, al fine di non gravare il cliente di oneri eccedenti rispetto ai costi sostenuti dalla banca per la valutazione del credito; la ricorrente, nella procedura interna, aveva individuato i costi sostenuti nelle spese amministrative (per interrogazioni delle banche dati) e nel costo del personale; in mancanza di una esplicita correlazione con i costi dedotti, i verificatori avevano correttamente ripartito e riparametrato i ricavi da CIV (€ 6.058.223,00) sulla base della struttura dei costi (costi del personale dipendente ed altri costi amministrativi) utilizzata dalla B. per determinare la misura della commissione da addebitare al cliente, con un procedimento logico e debitamente illustrato in motivazione; pertanto, il rilievo operato dall’Agenzia era confermato;
riguardo al recupero degli affitti attivi, l’Agenzia li riteneva rientranti fra i componenti positivi di reddito, in quanto correlati a costi dedotti (affitti passivi corrisposti sugli stessi immobili, quote di ammortamento, spese condominiali, di manutenzione, ecc.), mentre B. sosteneva che mancava una correlazione diretta e inequivocabile fra ricavi e costi e che non era stato tenuto conto che la Banca poteva dedursi quote di ammortamento solo per immobili di proprietà e considerati “a uso funzionale”;
la Commissione osservava che, su quest’ultimo punto, al ricorso ed agli altri atti difensivi non era stata allegata alcuna documentazione analitica sugli immobili in questione;
era legittimo il recupero operato dall’Agenzia, che, tenuto conto che i costi avevano contribuito alla determinazione della base imponibile per il 90% (ex art. 6 comma 1 d.lg. 446/1997), aveva considerato i correlati ricavi nella stessa misura; si confermava, pertanto, il recupero a tassazione, ex art. 6 comma 6, d.lg. 446/1997, dell’importo di € 1.275.207,32, pari al 90% degli affitti attivi contabilizzati nel conto di ricavo oggetto di contestazione.
Le spese del giudizio erano compensate, in considerazione sia dell’accordo conciliativo intervenuto, sia della complessità della vicenda, sia dei contrasti giurisprudenziali esistenti in tema di applicabilità all’Irap della disciplina sul “transfer pricing”.
La Commissione, pertanto, dichiarava l’estinzione del giudizio n. XXX/2017 RGR, relativo a Ires 2012, per intervenuta conciliazione giudiziale ed accoglieva parzialmente il ricorso iscritto al n. 876/2017 RGR come in motivazione, con spese compensate.
2. Con Ordinanza n. XX/06/2018 del 15.1.2018 (depositata il 15.1.2018) la CTP di Bologna respingeva la domanda di sospensione presentata dalla B. non sussistendo il “periculum in mora” richiesto dall’art.47 d.lg. 546/1992.
3. Avverso tale sentenza la B. presentava appello, deducendo quanto di seguito esposto:
A) in merito al rilievo n. 3 – ” Transfer pricing” – interessi (su conto corrente) asseritamente eccedenti il valore normale – recupero di € 2.210.557,00:
l’art. 1 comma 281 l. 147/2013 non poteva essere applicato retroattivamente, sia alla luce dei principi previsti dalla l. 212/2000, dalla Costituzione e dalla normativa europea, sia tenuto conto della ” ratio ” della norma e della consolidata giurisprudenza in merito;
dall’evoluzione normativa si evinceva che la disciplina del ” transfer pricing” non poteva dare (e non aveva dato) adito a dubbi interpretativi: fino al 2007 era applicabile all’Irap per effetto dell’art. 11 bis d.lg. 446/1997 (abrogato con l’art. 1 comma 50 l. 244/2007);
dal 2008, secondo il principio di “derivazione diretta” dalle risultanze del bilancio, all’Irap non erano più applicabili le regole del TUIR, fra cui quelle sul ” transfer pricing” ; con l’art. 1 comma 281 l. 147/2013 la disciplina sul ” transfer pricing” era applicabile all’Irap anche per gli anni successivi al 2007;
quest’ultima non poteva essere una norma interpretativa, poiché non vi erano norme di dubbia interpretazione; la norma era innovativa e, quindi, inapplicabile retroattivamente;
il citato art. 1 comma 281 l. 147/2013 era in contrasto con il principio di irretroattività di cui all’art. 3 comma 1 l. 212/2000, derogabile solo espressamente e mai da leggi speciali (art. 1 comma 1 l. 212/2000); ne conseguiva che la disciplina del ” transfer pricing” era applicabile all’Irap dopo il 2014;
l’art. 1 comma 281 l. 147/2013 era norma contraria ai principi interni e comunitari di buona fede e affidamento, per cui si chiedeva rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, poiché la sua applicazione retroattiva ledeva il principio di certezza del diritto e dei rapporti giuridici e della tutela del legittimo affidamento;
la sentenza impugnata non prevedeva un’interpretazione adeguatrice dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 in conformità con i principi costituzionali; di qui la proposizione di una questione di legittimità costituzionale della suddetta norma laddove reintroduceva la disciplina del ” transfer pricing” ai fini Irap con effetto retroattivo; la B. aveva già saldato il proprio debito Irap e la retroattività della suddetta legge era contraria ai principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento e in contrasto con gli artt. 23, 41, 42 secondo e terzo comma, 53 della Costituzione;
la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della prevalente giurisprudenza di merito, sempre più concorde nel ritenere inapplicabile la disciplina del ” transfer pricing” all’Irap fino al 2013;
in ogni caso, la sentenza era illegittima nella parte in cui rideterminava il tasso d’interesse sulla base dell’accordo conciliativo;
dai documenti allegati al ricorso emergeva la legittimità del tasso d’interesse applicato dalla B.; nelle memorie presentate a seguito del p.v.c., la ricorrente evidenziava che, come rilevato dai verificatori, il metodo di determinazione dei prezzi più adeguato al caso di specie era quello del CUP (confronto fra il prezzo praticato fra imprese associate con quello praticato sul libero mercato in circostanze comparabili);
il conto corrente di maggior rilevanza (n. 242051) accoglieva liquidità che a sua volta la B. LUX raccoglieva da una controparte istituzionale indipendente (che garantiva il ” funding” di durata purché ci fosse una garanzia di tasso; a fronte di una giacenza molto elevata nel tempo, B. aveva riconosciuto un tasso in linea con le forme di raccolta analoghe; B. aveva depositato il 16.10.2018 una perizia tecnica in materia di ” transfer pricing” (redatta da PWC Tax and Legal Services – TLS) che evidenziava l’illegittimità del tasso applicato dall’Agenzia e la correttezza di quello applicato da B., pari al 2,94%;
solo per addivenire ad una conciliazione si erano considerati altri elementi valutativi;
qualora non fossero ritenuti sufficienti i documenti prodotti, si chiedeva di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, ex art. 7 comma 2 d.lg. 546/1992, per la valutazione della congruità del tasso d’interesse applicato da B.;
B) in merito al rilievo n. 5 – mancato assoggettamento a tassazione dei componenti positivi asseritamente correlati a componenti negativi dedotti – recupero di € 4.139.059,65, di cui € 2.863.852,33 relativi alla commissione CIV ed € 1.275.207,32 relativi ad affitti attivi per immobili di terzi presi in affitto e per immobili strumentali; detti componenti erano rilevati nella voce 190 del conto economico, conto
espressamente escluso ai fini Irap; la sentenza impugnata era illegittima per violazione del principio di correlazione di cui all’art. 5 d.lg. 446/1997; la suddetta norma recepiva il principio di correlazione in origine previsto dall’art. 11 comma 3 del medesimo decreto (poi abrogato); tale principio prevedeva che potevano concorrere alla base imponibile Irap anche proventi e oneri classificati in voci non rilevanti ai fini Irap, purché correlati a componenti che concorrevano alla determinazione della base imponibile Irap; la correlazione doveva essere stretta ed inequivocabile, ovvero diretta, come affermato dalla stessa Agenzia (risoluzione n. 294/2007, circolare n. 148/E/2000, risoluzioni 8/E/2000, 33/E/2002) e dalla giurisprudenza (Cass. sent. n. 4226/2015); questo non si verificava con la commissione CIV, in quanto le istruzioni della Banca d’Italia imponevano di indicarla nella voce 190 del conto economico (escluso dall’Irap) e di determinarla in via forfettaria; la CIV non era correlata a costi specifici, ma a tutti i fattori della produzione (come affermato dall’ABI nelle soluzioni IAS-ABI n. 152/2013 già allegate al ricorso);
la natura indiretta di tale correlazione era confermata dal D.M. n. 644/2012, dove era stabilito che la commissione doveva essere determinata in misura fissa, differenziata in base a vari elementi e non eccedente i costi “mediamente sostenuti” per svolgere l’istruttoria ed a questa direttamente connessi;
secondo alcune pronunce di merito, la CIV aveva natura di rimborso spese, rilevabile nel conto economico alla voce 190 e irrilevante ai fini Irap; era illegittimo il recupero dei canoni di locazione (per € 1.275.207,32, pari al 90% degli affitti attivi contabilizzati nei conti di ricavo oggetto di contestazione), in quanto anche il riaddebito di canoni di locazione era subordinato alla correlazione diretta con i relativi
costi rilevanti ai fini Irap; nel caso di specie la correlazione era generica e, quindi, irrilevante; in particolare, la locazione attiva non rientrava fra le attività bancarie tipiche da tassare ex artt. 1, 2 e 6 d.lg. 446/1992; inoltre, l’Agenzia aveva considerato solo alcuni costi e non tutti quelli collegabili, in senso ampio, all’immobile; la misura degli affitti attivi era indipendente dai costi e gli affitti riguardavano sia immobili strumentali (per i quali erano stati dedotti alcuni costi), sia immobili non funzionali (irrilevanti ai fini Irap); non era stato dedotto nemmeno il costo del personale dedicato alla gestione degli immobili, anche se certamente correlato ai ricavi;
B. assoggettava già a tassazione ai fini Irap i proventi contabilizzati alla voce 190 del conto economico, derivanti da ” Recuperi di costi contabilizzati a voce 150 B) relativi a immobili locati: imponibile il 90% dell’importo (stessa misura della deduzione dei costi)” , in quanto, nel caso di specie, sussisteva una correlazione diretta fra ricavi e costi sostenuti.
La B. pertanto chiedeva:
– in via pregiudiziale, rimettere gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ex art. 267 TFUE, in ragione del contrasto dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 con i principi comunitari;
– in via pregiudiziale subordinata, ritenere non manifestamente infondata la questione della legittimità costituzionale dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 per contrasto con gli artt. 23, 41, 42 e 53 della Costituzione, con remissione alla Corte Costituzionale e sospensione del giudizio ex art. 23 l. 87/1953;
– in via istruttoria, disporre, ai sensi dell’art. 7 comma 2 d.lg. 546/1992, una consulenza tecnica d’ufficio, al fine di determinare la congruità del tasso d’interesse applicato;
– nel merito, in via principale, dichiarare l’illegittimità dell’avviso di accertamento Irap impugnato e annullare lo stesso;
– condannare l’Agenzia alle spese del presente giudizio.
4. L’Agenzia si costituiva in giudizio mediante deposito di controdeduzioni, ove esponeva quanto di seguito indicato.
A) In merito al rilievo n. 2 – ” transfer pricing” – interessi su conto corrente asseritamente eccedenti il valore normale (recupero di € 2.210.557,00):
– l’Agenzia aveva contestato a B. di avere dedotto, ai fini Irap, interessi passivi (corrisposti alla controllata B. LUX) per importi maggiori di quelli consentiti dall’applicazione del prezzo di libera concorrenza (art. 110 comma 7 TUIR e art. 1 comma 281 l. 147/2013); il medesimo rilievo era stato contestato anche ai fini Ires, con separato accertamento impugnato nel giudizio iscritto al n. XXX/2017 RGR e concluso con accordo conciliativo;
– la B. sosteneva che le rettifiche di ” transfer pricing” erano irrilevanti ai fini Irap, ma tale affermazione era infondata per quanto di seguito esposto;
– il d.lg. 446/1997 (istitutivo dell’Irap) prevedeva, all’art. 11 bis, che la base imponibile di detta imposta era determinata secondo i criteri previsti per le imposte sui redditi; con il d.lg. 506/1999 era stato introdotto il secondo comma del citato art. 11 bis, dove era disposto che rientravano nel calcolo della base imponibile i ricavi, le plusvalenze e gli altri componenti positivi di cui all’art. 76 comma 5 DPR 917/1986 (che era la normativa vigente all’epoca sul ” transfer pricing” ); con l’art. 1 comma 50 l. 244/2007 (c.d. “finanziaria 2008”), l’art. 11 bis d.lg. 446/1997 era stato abrogato, con introduzione del regime di “derivazione diretta” della base imponibile Irap dal bilancio d’esercizio, a far data dal giorno 1.1.2008;
– tale abrogazione, tuttavia, contrastava con la volontà espressa dal legislatore in materia di imposte indirette; infatti, con la stessa legge finanziaria (art. 1 comma 261 lett. c) era stato modificato l’art. 13 comma 3 lett. a) DPR 633/1972, prevedendo che la base imponibile delle operazioni effettuate fra società controllate fosse costituita dal valore normale dei beni o servizi oggetto delle stesse operazioni; sarebbe del tutto illogico e contraddittorio ipotizzare che con la stessa legge, da un lato, si estendeva la disciplina del ” transfer pricing” alle imposte indirette e, dall’altro, la si escludeva dall’Irap;
– non vi era ragione per escludere la suddetta disciplina dall’Irap, tanto più che tale disciplina aveva origine internazionale e trovava la propria ” ratio” nell’intento di evitare lo spostamento di materia imponibile da uno Stato all’altro mediante la manipolazione dei prezzi praticati nelle transazioni fra società multinazionali;
– anche le linee guida dell’OCSE affermavano che la disciplina sui prezzi di trasferimento aveva la funzione di regolare la ripartizione della tassazione tra gli Stati interessati a transazioni multinazionali, tutelando l’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati; tale disciplina era applicabile alla base imponibile delle imposte sui redditi, ma la circostanza che la norma italiana fosse collocata nel TUIR non giustificava l’esclusione della sua applicazione all’Irap, ossia all’imposta che colpiva il valore aggiunto della produzione realizzato dalle organizzazioni economiche in luogo dei redditi personali; la regolazione del potere impositivo degli Stati doveva riguardare tutte le imposte cui le imprese erano soggette e quindi anche l’Irap, come confermato dall’art. 9 della Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni (disciplinante il ” transfer pricing” fra Stati), applicabile anche ai fini Irap, ex art. 44 d.lg. 446/1997; quest’ultimo articolo stabiliva che ai fini dell’applicazione dei trattati internazionali in materia tributaria, l’Irap era equiparata ai tributi erariali aboliti con l’art. 36 (che aveva abolito, fra gli altri, l’Ilor, rientrante nell’ambito di applicazione della disciplina del ” transfer pricing” );
– era dunque evidente che, anche prima della l. 147/2013, tale disciplina era applicabile anche all’Irap; tuttavia, per dirimere ogni incertezza, era definitivamente intervenuta la l. 147/2013, norma di natura interpretativa, rafforzata dal disposto dei successivi commi 282 e 283 dell’art. 1, dove, disponendo per il passato, venivano escluse le sanzioni;
– era infondata l’asserita illegittimità dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013, laddove prevedeva la retroattività, per contrasto con l’art. 3 comma 1 l. 212/2000; infatti, nella stessa l. 212/2000, all’art. 1 comma 2, era prevista l’adozione di norme interpretative, in deroga al principio di irretroattività richiamato dalla B.;
– correttamente la CTP aveva riconosciuto alla norma in questione la natura di interpretazione autentica e la sua conseguente applicazione retroattiva;
– non vi era alcuna violazione delle norme dello Statuto del Contribuente, poiché questo prevedeva che la norma istitutiva di un nuovo tributo non potesse essere retroattiva, ma non disciplinava ipotesi di norme interpretative;
– non esisteva un principio costituzionale che richiedesse l’espressa qualificazione di una norma come di interpretazione autentica perché fosse riconosciuta come tale;
– si doveva, dunque, concludere che la norma in questione era conforme ai principi costituzionali cui era improntato lo Statuto del Contribuente, potendo una norma di grado ordinario derogare ad una norma dello Statuto che non fosse espressione di un più elevato principio costituzionale;
– non erano stati violati i principi di buona fede e collaborazione, in quanto tali principi dovevano improntare i rapporti fra contribuente e Fisco, ma non quelli fra contribuente e legislatore, non potendo vincolare e limitare la potestà normativa del secondo;
– non era stato violato il principio comunitario di certezza del diritto e dei rapporti giuridici, ritenuto applicabile, in via interpretativa, solo in riferimento ad atti legislativi in ambito comunitario (mentre la disciplina dell’Irap non aveva rilevanza comunitaria);
– non era praticabile il rinvio alla Corte di Giustizia della questione interpretativa di una norma non comunitaria (come si evinceva dalla sentenza n. 24823/2015 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite e dalla successiva giurisprudenza di legittimità);
– non erano rilevanti le pronunce citate da controparte, in quanto riferite ad ambiti soggetti al diritto comune; era quindi infondata e inammissibile la richiesta di rimessione degli atti alla Corte di Giustizia Europea;
– era infondata l’asserita illegittimità della sentenza impugnata, laddove non prevedeva un’interpretazione adeguatrice dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 in conformità con i principi costituzionali, in relazione alla retroattività della norma;
– infondato era l’assunto di B. secondo cui la retroattività della norma citata violava i suoi “diritti quesiti” ed era contraria ai principi di certezza del diritto e di affidamento;
– la B. sosteneva che la sua posizione fiscale, per l’anno 2012, era cristallizzata e non poteva essere riesaminata a causa di una legge entrata in vigore in un momento successivo a quello in cui la B. aveva saldato il proprio debito, sulla base delle norme all’epoca vigenti;
– tale affermazione non era condivisibile: la posizione di un contribuente non poteva considerarsi cristallizzata prima dello scadere dei termini di decadenza dell’azione accertatrice a disposizione dell’Amministrazione finanziaria e il legislatore ben poteva emanare leggi interpretative nel rispetto dei principi costituzionali;
– infondata era l’asserita violazione degli artt. 23, 41 e 42 Cost.;
– ugualmente infondata era l’asserita violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.; l’applicazione della disciplina sui prezzi di trasferimento all’Irap comportava l’aumento della base imponibile a seguito della rettifica dei prezzi praticati nelle transazioni ” inter-company” per conformarli a quelli di libera concorrenza; la rettifica tendeva a evidenziare la reale capacità contributiva dei soggetti intervenuti nelle transazioni ed era prevedibile dalla ricorrente, essendo valori variabili in funzione di una disciplina sovra nazionale e di principi generali di diritto internazionale tributario; non si era, dunque, violato alcun affidamento della ricorrente, affidamento che doveva essere valutato anche in relazione alla tipologia del contribuente; nel caso di specie, la ricorrente era una società controllante enti creditizi con sede in vari Stati, dovendosi ritenere che tale struttura societaria comportasse una elevata conoscenza dei principi di diritto internazionale, tra i quali si inseriva la disciplina del ” transfer pricing” ;
– erano pertanto infondati il motivo d’appello e la relativa richiesta di rinvio alla Corte Costituzionale;
– era irrilevante l’asserita mancata considerazione della giurisprudenza di merito in punto di retroattività dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013: premesso che tale giurisprudenza era contrastante, era legittima la posizione assunta dalla CTP, che aveva motivatamente aderito all’orientamento opposto a quello indicato da B.;
– riguardo all’asserita infondatezza della sentenza nel merito (per violazione della disciplina del ” transfer pricing “), nonché alla richiesta di CTU ex art. 7 comma 2 d.lg. 546/1992, si osservava quanto segue;
– col suddetto motivo d’appello B. contestava, nel merito, la determinazione del prezzo di libera concorrenza, pur non essendo stato motivo di ricorso in primo grado, come già rilevato dall’Agenzia con le prime difese (pag. 15 delle controdeduzioni); ne discendeva l’inammissibilità del motivo d’impugnazione ex art. 53 d.lg. 546/1992;
– con memorie depositate ex art. 32 comma 2 d.lg. 546/1992, la B. sosteneva di avere impugnato, nel ” petitum”, l’avviso di accertamento, avendo richiesto, nel merito, di dichiarare l’illegittimità dell’avviso impugnato e di disporne l’annullamento; tuttavia, non erano stati indicati i motivi d’impugnazione, tranne
l’unico motivo inerente l’inefficacia retroattiva dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013;
la B. sosteneva (pag. 4 delle citate memorie) che le argomentazioni circa l’illegittimità del tasso d’interesse proposto dall’Agenzia si evincevano dalla documentazione allegata al ricorso (all. 2);
quindi, secondo B., il motivo d’impugnazione, pur non essendo espresso, si doveva ricavare da un allegato al ricorso e precisamente dalle note al processo verbale di contraddittorio; era evidente che un motivo d’impugnazione doveva essere esplicitato e non poteva essere desunto dal giudice induttivamente da un atto allegato, atto a cui, fra l’altro, non era stato fatto alcun rinvio;
– in ogni caso, il prezzo di libera concorrenza era stato oggetto di conciliazione ai fini dell’Ires;
– legittimamente la CTP aveva rideterminato il tasso d’interesse applicato da B. ai fini dell’accertamento Irap in conformità a quanto convenuto dalle parti ai fini Ires ed era superflua la richiesta di disporre una CTU per valutare la congruità del suddetto tasso d’interesse, essendo le parti già giunte ad un accordo;
– tuttavia, neppure il successivo deposito di una perizia poteva sanare la mancanza di un motivo d’impugnazione, nemmeno se proposto espressamente con le successive memorie;
– né si poteva condividere l’affermazione della B. di aver fornito al giudice tutti gli strumenti per dichiarare l’illegittimità dell’avviso di accertamento anche nel merito, in quanto fornire gli strumenti non equivaleva a chiedere l’annullamento del rilievo, né il giudice poteva supplire alla mancata impugnazione, salvo per motivi rilevabili d’ufficio, non ricorrenti nel caso di specie.
B) In merito al rilievo n. 5 – mancato assoggettamento a tassazione di componenti positivi di reddito asseritamente correlati a costi dedotti e recupero di € 4.139.059,65, di cui € 2.863.852,33 riconducibili a CIV:
– la B. riteneva illegittimo il rilievo, in quanto avrebbe violato il principio di correlazione ex art. 5 d.lg. 446/1997;
– la norma di riferimento era l’art. 6 d.lg. 446/1997, che indicava, per le attività bancarie, i componenti positivi e negativi del valore della produzione netta assunti dal conto economico redatto secondo i criteri dettati dalla Banca d’Italia (principio di derivazione); tuttavia, tale principio doveva essere integrato dal principio di correlazione (art. 6 comma 6 ultimo periodo d.lg. 446/1997, che rimandava all’art. 5 comma 4 dello stesso decreto), secondo il quale, al verificarsi di date condizioni, potevano essere rilevanti ai fini Irap anche componenti iscritti nelle voci del conto economico irrilevanti ai fini della stessa imposta, purché correlati a voci del conto economico rilevanti in relazione alla base imponibile di anni precedenti o successivi; quindi, potevano essere assoggettati a tassazione ricavi e proventi anche inseriti in voci del bilancio irrilevanti ai fini Irap, purché correlati a costi addebitati in voci del conto economico rilevanti;
– nel caso di specie, erano confluiti nel bilancio 2012, alla voce 190, alcuni componenti positivi (CIV e affitti attivi) non tassati ai fini Irap seppure correlati a costi dedotti;
– le CIV (Commissioni d’Istruttoria Veloce), addebitate ai clienti in caso di sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido, in relazione a contratti di conto corrente o di aperure di credito, erano – ex art. 117 bis TUB – determinate in misura fissa, espressa in valore assoluto, commisurata ai costi;
l’ulteriore onere addebitato ai clienti era un tasso d’interesse sull’ammontare dello sconfinamento; le clausole che prevedevano oneri diversi o non conformi erano nulle;
– dal testo normativo discendeva chiaramente che la banca doveva individuare e quantificare i costi per determinare la commissione (che era direttamente correlata al relativo costo), come indicato anche nella procedura interna elaborata ai sensi del DM 644/2012 (la CIV “non eccede i costi mediamente sostenuti dall’intermediario per svolgere l’istruttoria ed a questa direttamente connessi” ); tali costi erano stati individuati nelle spese vive sostenute per le interrogazioni di banche dati e nel tempo impiegato dal personale dipendente;
– dalla documentazione e dalle informazioni fornite dalla stessa B. (come da allegati al p.v.c.) emergeva che i costi sottesi alla quantificazione della CIV comprendevano il costo del personale e altri costi amministrativi (“Struttura ed applicativi IT”); dopo la suddivisione dei clienti in “consumatori” e “non
consumatori”, la B. calcolava il costo per ogni sconfinamento, nel 2011, pari a € 28,89 per i primi e in € 81,43 per i secondi;
tali costi comprendevano costi del personale, pari, rispettivamente al 73,21% e 76,79% e costi amministrativi pari, rispettivamente, al 26,79% e al 23,21%;
– tenuto conto che erano state addebitate CIV pari a € 830.834,89 (ai consumatori) e ad € 5.227.317,70 (ai non consumatori), applicando a detti importi le percentuali di incidenza sopra indicate, erano stati calcolati i costi per il personale e per le spese amministrative che avevano determinato l’importo delle CIV:
– costi del personale (73,21% di 830.834,89 più 76,79% di 5.227.317,70) = € 4.622.294,65
– costi amministrativi (26,79% di 830.834,89 più 23,21% di 5.227.317,70) = € 1.435.857,94;
– inoltre, si evidenziava che, per l’anno 2012, la B. riteneva rilevante ai fini Irap una quota pari al 34% dei ricavi derivanti da prestazioni rese a società del gruppo (corrispondente alla quota del costo del personale dedotto), mentre le altre spese amministrative erano dedotte nella misura del 90% (ex art. 6 comma 1 d.lg. 446/1997); pertanto, l’importo della CIV, una volta ripartito fra quota attribuibile al costo del personale e quota attribuibile alle spese amministrative, doveva concorrere alla formazione del valore della produzione nelle percentuali sopra citate, come segue:
– costo del personale (34% di € 4.622.294,65) = € 1.571.580.18;
– altri costi amministrativi (90% di € 1.435.857,94) = € 1.292.272,15
– maggiore imponibile € (1.571.580,18 + 1.292.272,15) = € 2.863.852,33;
– B. sosteneva che le CIV dovevano essere indicate nel conto economico alla voce 190, esclusa dall’Irap, e che era impossibile individuare i relativi costi, stante l’indicazione dell’ABI di determinare la CIV in via forfettaria;
non vi era una correlazione diretta fra CIV e costi ed anche le istruzioni della Banca d’Italia non stabilivano una correlazione, ma fissavano un limite;
– le argomentazioni di B. erano infondate: le istruzioni dell’ABI (associazione di categoria) erano irrilevanti nei confronti dei terzi e soprattutto nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e la correlazione della CIV ai relativi costi era stata prevista dalla legge e dalle istruzioni della Banca d’Italia; in sostanza, la CIV si risolveva in un recupero di spese che comportava la necessaria individuazione dei costi da recuperare;
– la B. contestava infondatamente il recupero a tassazione dei canoni di locazione per € 1.272.2017,32: detti componenti positivi di reddito erano stati esclusi dall’Irap, pur essendo individuabili i relativi costi dedotti (affitti passivi corrisposti per gli stessi immobili, quote di ammortamento, spese condominiali, spese di manutenzione, ecc.), ma tali costi avevano contribuito alla determinazione della base imponibile per il 90%, per cui l’Agenzia aveva ritenuto corretto considerare la rilevanza dei ricavi nella stessa misura;
– B. sosteneva che non vi fosse correlazione diretta fra ricavi e costi, ma tale assunto era infondato, per i motivi di seguito esposti;
– era necessario distinguere fra gli affitti percepiti per immobili concessi in godimento da terzi e gli immobili di proprietà: rispetto ai primi, i costi rientravano fra le spese amministrative che concorrevano a formare la base imponibile Irap ex art. 6 comma 1 d.lg. 446/1997, con conseguente correlazione diretta fra costi e ricavi; fra l’altro, sul punto, la B. non aveva mosso contestazioni, essendosi limitata a contestare la mancata correlazione fra costi e ricavi per gli immobili di proprietà, in relazione ai quali non era stato tenuto conto che erano ammessi gli ammortamenti solo per quelli ad uso funzionale;
– la contestazione di B. era generica e priva di qualsiasi supporto documentale; era infondata l’argomentazione di parte circa l’irrilevanza degli affitti attivi, in quanto calcolati indipendentemente dai costi; il principio di correlazione non richiedeva una diretta proporzionalità o che i ricavi dovessero essere determinati in base ai costi, ma solo un nesso eziologico fra ricavi e costi;
– era dunque irrilevante quanto sostenuto da B. sulla circostanza che l’IMU e l’ammortamento degli immobili non funzionali non erano deducibili ai fini Irap (peraltro, non era stata prodotta alcuna prova di tali ammortamenti) e che non era stato dedotto il costo del personale dedicato alla gestione degli immobili locati (costi minimi che la ricorrente avrebbe potuto indicare in sede di verifica);
– era, infine irrilevante, il riferimento alla corretta imputazione di altri ricavi operata dalla B. in applicazione del principio di correlazione, imputazione che non provava la legittimità delle qualificazioni operate nei casi contestati dall’Agenzia.
L’Agenzia, pertanto, chiedeva:
– in via pregiudiziale, rigettare l’istanza di remissione degli atti alla Corte di Giustizia Europea, inammissibile non essendo l’Irap un tributo armonizzato soggetto alla giurisdizione di tale organo;
– in via pregiudiziale subordinata, ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del disposto di cui all’art. 1 comma 281 l. 147/2013, per violazione degli artt. 23, 41, 42, 53 Cost.;
– in via istruttoria, rigettare la richiesta di CTU non sussistendone i presupposti di necessarietà ed in forza del principio di economicità degli atti processuali;
– in via preliminare, dichiarare inammissibile il motivo d’impugnazione relativo al merito della determinazione del prezzo di libera concorrenza, proposto per la prima volta in sede di appello;
– nel merito, in via principale, confermare la sentenza di primo grado e dichiarare legittimo l’avviso di accertamento come disposto della CTP;
– condannare la ricorrente in appello alle spese del presente giudizio.
5. La B. presentava memorie, datate 2.7.2024, ribadendo le argomentazioni a sostegno della propria tesi, circa l’irretroattività dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013, la congruità del tasso d’interesse applicato sui conti correnti (confermata da una consulenza tecnica depositata il 16.10.2018), l’inutilizzabilità ai fini Irap dei valori concordati in sede conciliativa ai fini Ires, l’esclusione dall’imponibile Irap delle CIV e degli affitti attivi.
6. Anche l’Agenzia presentava memorie, il 3.7.2024, richiamando, a conferma della legittimità del proprio operato, alcune sentenze di legittimità e di merito. Riguardo alle CIV, l’Agenzia richiamava un’indagine della Banca d’Italia sul costo dei conti correnti del 2022, da cui emergeva che la misura rilevata delle CIV era molto inferiore a quella praticata da B..
7. All’udienza del 15.7.2024 la causa era assunta in decisione.
8. L’appello presentato da B. è infondato, per i motivi di seguito esposti.
Per maggiore chiarezza espositiva, si ritiene opportuno fare una sintesi dei termini della questione, rinviando a quanto sopra esposto per i dettagli.
A seguito di verifica a carico della B., l’Agenzia aveva emesso due distinti avvisi di accertamento:
– ai fini Ires, con unico rilievo, era stato accertato un maggior imponibile di € 2.210.557,00 per la corresponsione da parte di B. ad una collegata (B. LUX) di interessi passivi in misura eccedente il consentito; in sintesi, il prezzo delle transazioni fra le suddette società (nella specie, il tasso d’interesse applicato sulle operazioni di conto corrente) doveva essere calcolato in base al valore normale in regime di libera concorrenza, secondo la disciplina del ” transfer pricing” (art. 110 comma 7 TUIR); sulla base di confronti con transazioni comparabili, l’Agenzia aveva individuato un tasso di rendimento pari all’ 1,10% in luogo di quello praticato da B., pari al 2,94%;
– ai fini Irap, il maggior valore della produzione netta accertato era fondato su tre rilievi, che avevano portato ad altrettanti recuperi a tassazione:
1) deduzione di interessi passivi in misura eccessiva, con rilievo identico a quello contestato ai fini Ires, per € 2.210.557,00;
2) svalutazione di un immobile non deducibile, per € 364.469, 63;
3) esclusione, dal calcolo della produzione netta, di componenti positivi per complessivi € 4.139.059,65, di cui € 2.863.852,33 riferiti a Commissioni per Istruttoria Veloce (CIV) ed € 1.275.207,32 per affitti attivi;
secondo l’Agenzia detti componenti positivi erano rilevanti ai fini Irap, ai sensi dell’art. 6 comma 6 d.lg. 446/1972, in quanto detta norma prevedeva che erano da includere nel calcolo della produzione netta anche quei componenti positivi che, pur essendo indicati in bilancio in voci escluse dall’Irap, erano correlati a componenti negativi dedotti;
al contrario, B. sosteneva che la correlazione fra componenti positivi e negativi doveva essere diretta, circostanza che non ricorreva nel caso di specie.
La B. non aveva contestato il recupero ai fini Irap di cui al precedente punto 2 (svalutazione indeducibile di un immobile) e aveva presentato due distinti ricorsi:
– in relazione all’accertamento Ires, aveva contestato l’applicazione della disciplina sul ” transfer pricing” con varie argomentazioni;
– in relazione all’accertamento Irap, aveva contestato l’applicazione della disciplina sul ” transfer pricing” deducendo solo (con varie argomentazioni) l’irretroattività dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013; riguardo al recupero dei componenti positivi (CIV e interessi attivi) aveva contestato, in sostanza, la carenza di una correlazione diretta fra i ricavi accertati ed i relativi costi dedotti.
Nel corso del giudizio di primo grado l’accertamento ai fini Ires era stato definito in via conciliativa, concordando un tasso d’interesse pari all’ 1,87%.
La CTP, con la sentenza impugnata, ha preso atto dell’intervenuta conciliazione e dell’acquiescenza al rilievo Irap riguardante la svalutazione dell’immobile e ha affermato che ” La controversia prosegue, dunque, in ordine ai soli rilievi Irap n. 3 e n. 5 ” (in tema, rispettivamente, di ” transfer pricing” e di tassazione dei componenti positivi correlati ai costi), richiamando correttamente i motivi del ricorso.
Tuttavia, in tema di ” transfer pricing “, la CTP ha affermato la natura interpretativa dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 e l’efficacia retroattiva della norma (oggetto del ricorso), nonché la legittimità del recupero effettuato, ma, in ragione dell’accordo conciliativo, ha deciso nel merito e ha rideterminato il recupero di interessi passivi sulla base del tasso di rendimento concordato in sede di conciliazione dell’accertamento Ires nella misura dell’1,87%.
Riguardo all’altro rilievo Irap, la CTP ha confermato il recupero a tassazione dei componenti positivi (CIV e interessi attivi), concludendo con il parziale accoglimento del ricorso, con compensazione delle spese di lite.
La B. ha presentato appello, contestando l’applicazione retroattiva della disciplina sul ” transfer pricing” ed il recupero della CIV e degli affitti attivi; ha contestato, inoltre, la determinazione del tasso d’interesse nella misura conciliata, ma solo in ragione dell’irrilevanza – ai fini Irap – dell’accordo conciliativo raggiunto ai fini Ires.
L’Agenzia ha presentato controdeduzioni, eccependo l’inammissibilità del motivo d’impugnazione relativo all’illegittimità della rideterminazione del prezzo di libera concorrenza, in quanto proposto per la prima volta in sede di appello (in violazione dell’art. 53 d.lg. 546/1992) e sostenendo inoltre che, avendo le parti raggiunto un accordo conciliativo, legittimamente la CTP aveva rideterminato l’accertamento Irap in conformità a quanto conciliato ai fini Ires.
E’ evidente che la sentenza impugnata è viziata da extrapetizione (risultando violato l’art. 112 c.p.c.), in quanto la CTP si è pronunciata su una questione che non era stata motivo di ricorso (quantificazione della base imponibile ai fini Irap in relazione al prezzo di trasferimento praticato); tuttavia, né la B., né l’Agenzia hanno ritualmente contestato il vizio di extrapetizione (non rilevabile d’ufficio), con conseguente definitività della statuizione sulla legittimità dell’accertamento sotto il profilo dell’applicazione del tasso d’interesse dell’ 1,87%.
Al riguardo, si rileva che secondo la giurisprudenza ” nel procedimento tributario, l’esame, da parte della commissione tributaria provinciale, di un motivo di nullità dell’avviso di accertamento non dedotto dalla parte interessata da luogo ad un vizio di extrapetizione che, per essere corretto dal giudice del gravame, deve formare oggetto specifico di impugnazione. La mancata impugnazione del vizio in parola davanti la commissione tributaria regionale comporta la formazione del giudicato interno e non è, quindi, deducibile con ricorso per Cassazione” (Sez. 5, Sentenza n. 20393 del 28/09/2007, Rv. 600599 – 01).
Pertanto, ai fini del presente giudizio, sono inammissibili tutti i motivi dedotti in relazione all’applicazione del tasso d’interesse ed alla sua misura ai fini della determinazione della base imponibile Irap.
La controversia, quindi, riguarda le seguenti questioni:
– retroattività dell’art. 1 comma 281 l.247/2013;
– recupero a tassazione dei componenti positivi di reddito (CIV e affitti attivi).
Va qui rilevato che ” il giudice d’appello, il quale accerti un vizio di ultrapetizione a carico della sentenza di primo grado, deve trattenere la causa e deciderla nel merito, nei limiti dell’oggetto delineato dalle effettive domande delle parti, non ricorrendo un’ipotesi di rimessione al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 c.p.c.” (Sez. 2, Ordinanza n. 12570 del 10/05/2019, Rv. 653812 – 01).
8.1. Infondate sono le deduzioni dell’appellante relative alla irretroattività dell’art. 1 comma 281 della l. 147/2013.
La questione può essere ricondotta al riconoscimento della suddetta disposizione quale norma interpretativa o innovativa.
L’art. 1 comma 281 l. 147/2013 è da ritenersi norma interpretativa, in quanto prevede espressamente la sua applicazione anche per periodi antecedenti la sua emanazione, stabilendo che ” La disciplina prevista in materia di prezzi di trasferimento praticati nell’ambito delle operazioni di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, deve intendersi applicabile alla determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive anche per i periodi d’imposta successivi a quello in corso alla data del 31 dicembre 2007″ .
B. assume che la suddetta norma sia illegittima, per contrasto con l’art. 3 comma 1 l. 212/2000, con i principi comunitari di buona fede e affidamento, nonché con i principi costituzionali di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento.
L’assunto di B. è infondato, per i motivi puntualmente esposti dalla Corte di Cassazione, Sez. V Civile, nella sentenza n. 18436/21 del 13.4.2021, depositata il 30.6.2021, in cui sono state affrontate e risolte le stesse questioni oggetto della presente controversia; in specie, nella motivazione di tale sentenza si legge:
” Col quarto motivo – così rubricato: «violazione falsa applicazione dell’articolo 110, comma 7, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, per erronea applicazione della disciplina del transfer pricing, di cui all’articolo 110, comma 7, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ai fini Irap (art. 360, comma 1, n. 3 c. p.c.). Illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 281, legge 27 dicembre 2013 n. 147, per violazione degli articoli 3, 41, 53, 111 e 117 Cost. quest’ultimo in relazione all’articolo 6, comma 1, CEDU» – la società ricorrente deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per aver considerato rilevante, ai fini del comparto impositivo Irap, la disciplina di cui all’articolo 110 cit., dettata ai fini Ires.
4.1. Circa l’applicazione della disciplina del transfer prícing ai fini Irap, la commissione di secondo grado, dopo aver ricostruito l’avvicendarsi delle leggi in materia (dalle abrogazioni di cui alla legge n. 244 del 2007, alla disciplina di cui all’art. 1, comma 281 e comma 282 della legge finanziaria del 2014), correttamente ha affermato che il comma 281, art. 1, L. 147/2013 (Legge di Stabilità per il 2014), ha esteso l’applicazione del transfer pricing anche ai periodi d’imposta successivi a quello in corso alla data del 31 dicembre 2007, senza soluzione di continuità rispetto alla disciplina previgente.
4.2. I secondi giudici hanno affrontato anche il problema della legittimità e coerenza della norma in parola con i principi di rango costituzionale, là dove estende i propri effetti ad un momento anteriore rispetto alla sua entrata in vigore, ritenendo ogni questione di legittimità superabile sulla base dei principi enunciati da questa Corte con le sentenze n. 22175 del 27/09/2013, n. 27883 del 20/12/2011, n. 11141 del 20/05/2011.
4.3. Osserva il Collegio che l’art. 1, comma 281, I. n. 147 del 2013, realizza una norma di interpretazione autentica, sicché, come tale, è volta a produrre effetti anche per il passato, consentendo l’applicazione della disciplina di cui all’art. 110, comma 7, t.u.i.r. per i periodi d’imposta dal 2008 in poi.
4.4. Tali conclusioni sono in linea con la giurisprudenza di questa Corte, richiamata dalla CTR (cfr. Cass., 27/09/2013, n. 22157), secondo cui il principio di irretroattività non assume rango costituzionale nella materia tributaria (Corte costituzionale, sentenza n. 58 del 2009), né, in senso contrario, osta il principio di irretroattività stabilito dall’art. 3 dello Statuto del contribuente, la cui deroga è consentita ove espressamente prevista dalla legge, requisito che sussiste anche quando sia espressamente disposta una decorrenza anteriore della norma.
5. La portata retroattiva, ai fini Irap, del trasfer pricing nei termini indicati, non giustifica una sospetta violazione di principi costituzionali richiamati dalla società ricorrente. Le diffuse considerazioni che la società ricorrente ha articolato, non evidenziano ragioni di “non manifesta infondatezza”, in quanto non sussiste alcun ragionevole dubbio che la scelta fatta dal legislatore vada oltre i confini delle garanzie costituzionali.
5.1. Non è violato l’art. 3 Cost. (eguaglianza sostanziale), né l’art. 53 Cost. (capacità contributiva), né l’art. 41 Cost (libertà di iniziativa economica), perché non è manifestamente irragionevole né contrario alla libertà di iniziativa economica, prevedere, a partire da un certo momento, un effetto più grave, rispetto alla disciplina previgente, per la violazione di una norma, inoltre, non esiste un principio di irretroattività della legge tributaria fondato sull’evocato parametro, né hanno rango costituzionale – neppure come norme interposte – le previsioni della legge n. 212 del 2000 (cfr., Corte Cost. n. 58 del 2009).
5.2. Non sono violati l’art. 111, 117 Cost. in relazione all’art. 6 CEDU, in quanto – come già detto dai secondi giudici – non è ragionevole l’affidamento del contribuente in relazione ad una questione (rilevanza del transfer pricing ai fini Irap) controversa per le varie abrogazioni succedutesi in materia e, quindi, meritevoli di interpretazione autentica, anche considerato il breve lasso di tempo che intercorre tra la legge finanziaria del 2014 e la data a partire dalla quale la disposizione in parola fa risalire i suoi effetti. D’Altro canto, proprio in tema di norma fiscale di interpretazione autentica, questa Corte (v. Cass., 15/11/2017, n. 27093) ha ritenuto la conformità ai principi costituzionali di ragionevolezza e di tutela del legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche, oltre che all’art. 117, comma 1, Cost., sotto il profilo del principio di preminenza del diritto e di quello del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU, dell’art. 7 quinquíes del d.l. n. 193 del 2016 che ha introdotto una norma retroattiva autoqualificata di “interpretazione autentica”.
Da quanto sopra esposto emerge chiaramente la legittimità dell’operato dell’Agenzia e l’infondatezza delle questioni d’illegittimità dell’art. 1 comma 281 l. 147/2013 prospettate da B..
8.2. Infondate sono le deduzioni di B. relative al recupero a tassazione dei componenti positivi costituiti da CIV e da affitti attivi.
Ritiene questa Corte che siano condivisibili le argomentazioni e le modalità di calcolo esposte dall’Agenzia nelle controdeduzioni già sopra esposte sub 4, a cui si rinvia.
In particolare, si osserva quanto segue.
Dal combinato disposto degli artt. 6 comma 6 e 5 comma 4 d.lg. 446/1997 si evince che al valore della produzione netta concorrono componenti indicati in determinate voci del bilancio (principio di derivazione), ma possono essere rilevanti anche componenti positivi e negativi classificabili in voci del conto economico diverse, purché correlati a componenti rilevanti della base imponibile di periodi d’imposta precedenti o successivi (principio di correlazione).
Nel caso di specie, l’Agenzia ha ritenuto soggetti a tassazione le CIV e gli affitti attivi di immobili, in quanto componenti positivi di reddito correlati a componenti negativi dedotti.
Riguardo alle CIV (Commissioni di Istruttoria Veloce), si evidenzia che le stesse sono regolamentate dalla normativa bancaria; in particolare:
– l’art. 117 bis d.lg. 385/1993 (TUB – Testo Unico Bancario) individua due fattispecie di commissioni:
– al comma 1) una commissione onnicomprensiva, prevista nei contratti di apertura di credito, proporzionale rispetto alla somma messa a disposizione del cliente;
– al comma 2) una commissione di istruttoria veloce, a fronte di sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre i limiti del fido, determinata in misura fissa ed espressa in valore assoluto, commisurata ai costi;
– lo stesso art. 117 bis:
– al comma 3) stabilisce che le clausole che prevedono oneri diversi o non conformi a quanto stabilito nei commi precedenti sono nulle;
– al comma 4) prevede che il CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e per il Risparmio) adotti disposizioni attuative.
Queste ultime disposizioni sono state adottate dal CICR con il DM 644/30.6.2012, che riprende le disposizioni di legge, con due precisazioni, qui di interesse:
– all’art. 4 comma 2 lett b) stabilisce che la CIV non eccede i costi mediamente sostenuti dall’intermediario per svolgere l’istruttoria ed a questa direttamente connessi secondo quanto previsto dal successivo comma 4;
– al citato comma 4 prevede che gli intermediari definiscono procedure interne, ai fini della quantificazione e applicazione della CIV, con specifica indicazione (alla lettera b) dei costi.
Da quanto sopra esposto si evince che:
– la CIV è solo quella prevista nel comma 2 dell’art. 117 bis TUB; quella prevista al comma 1 è una diversa commissione applicata a determinati contratti e proporzionale alle somme rese disponibili al cliente (e non riferita ad attività istruttorie);
– la CIV, per legge, è determinata in misura pari ai costi sostenuti per lo svolgimento dell’istruttoria;
– la banca deve adottare procedure interne per individuare i costi della CIV;
– la CIV addebitata al cliente corrisponde ai correlati costi sostenuti per l’istruttoria.
Ne consegue che l’addebito della CIV presuppone necessariamente una individuazione dei correlati costi.
La B. si è adeguata alle disposizioni e ha fornito ai verificatori le procedure interne adottate e le modalità di calcolo dei costi sostenuti per la CIV. Non è in discussione che, nel caso di specie, le CIV ed i relativi costi siano stati inclusi nel conto economico, per cui la controversia è limitata alla sussistenza o meno di una correlazione diretta fra CIV e costi ed alla quantificazione dei costi medesimi.
Riguardo alla correlazione fra componenti positivi e negativi, si osserva che la norma di riferimento (art. 5 comma 4 d.lg. 446/1997) richiede solo che detti componenti siano correlati, senza ulteriori specificazioni, ma – nel caso di specie – è di tutta evidenza che le CIV siano in una correlazione con i costi così diretta da assumerne la stessa misura e la stretta derivazione.
Riguardo alla quantificazione della CIV, si rileva che l’Agenzia ha utilizzato i dati forniti dalla stessa B. e desunti dai documenti contabili; in specie:
– la B. ha indicato che il costo singolo di una CIV era pari a € 28,89 per i clienti definiti “consumatori” ed a € 81,43 per i clienti “non consumatori” e ha altresì indicato le percentuali delle componenti dei costi (costo del personale e altri costi amministrativi);
– l’Agenzia ha applicato al totale delle CIV addebitate ai clienti (€ 830.834,89 ai “consumatori” ed € 5.227.317,00 ai “non consumatori”) le percentuali di incidenza dei costi per il personale e per le altre spese amministrative e ha calcolato che i costi che avevano concorso alla quantificazione delle CIV erano pari a 4.622.294,65 per il personale ed a € 1.435.857,94 per le altre spese amministrative;
– detti importi (per complessivi € 6.058.152,59) rappresentano sia l’importo dei componenti positivi addebitati ai clienti, sia i costi ad essi correlati;
– tenuto conto che, ai fini Irap, i suddetti componenti di reddito, nel 2012, hanno regolarmente concorso non nella misura intera, ma per il 34% dei ricavi e per il 90% dei costi, l’Agenzia ha determinato nella stessa misura la quota delle CIV da assoggettare a tassazione, accertando un maggiore imponibile di € 2.863.852,33 (pari alla somma del 34% dei costi del personale di € 4.622.294,65 e del 90% delle altre spese amministrative di € 1.435.857,94);
– tutti i calcoli risultano correttamente effettuati e sono stati dettagliatamente riportati nelle controdeduzioni presentate dall’Agenzia (alle pagg. 23 ss.).
Sono infondate le deduzioni dell’appellante:
l’asserita quantificazione in via forfettaria della CIV (che avrebbe provato la mancanza di una relazione diretta con i costi) era riferita alle commissioni di cui al comma 1 dell’art. 117 bis TUB e non alle CIV, che – come già detto – erano previste dal comma 2 dello stesso art. 117 bis e la mancanza di una correlazione diretta fra i ricavi ed i costi come accertati era palesemente smentita dalle disposizioni di legge sulla quantificazione delle CIV.
Pertanto, il recupero operato dall’Agenzia è legittimo e fondato.
8.2.1. Riguardo agli affitti attivi, si rileva che sono individuabili i correlati costi dedotti ai fini dell’Irap.
Detti costi sono costituiti, per gli immobili concessi in godimento da terzi, dagli affitti passivi, spese di manutenzione, ecc. e, per gli immobili di proprietà, dalle quote di ammortamento e dalle altre spese di gestione (manutenzioni, spese condominiali, ecc.);
tutti i costi rientravano nelle voci di bilancio riferite agli ammortamenti o alle spese amministrative e, ai fini Irap, hanno inciso nella determinazione dell’imponibile nella misura del 90% (ex art. 6 comma 1 d.lg. 446/1997).
E’ evidente che i suddetti costi sono direttamente correlati agli affitti percepiti e l’Agenzia ha correttamente tassato i proventi delle locazioni nella stessa misura del 90% di quelli percepiti.
La B. ha lamentato la mancata considerazione del fatto che le banche potevano dedurre solo gli ammortamenti riferiti agli immobili di proprietà “ad uso funzionale”, ma l’Agenzia ha correttamente evidenziato la mancata dimostrazione che i proventi accertati fossero riferiti a quote di ammortamento non deducibili, in quanto dal bilancio si rilevava solo che erano state dedotte quote di ammortamento per beni materiali e immateriali per complessivi € 10.451.805,00 ed altre spese amministrative per € 209.458.348,00 e non era stata fornita alcuna prova circa eventuali ammortamenti non deducibili.
Infondate, in quanto prive di positivo riscontro, sono le affermazioni della B. circa l’indeducibilità dell’IMU versata sugli immobili in questione e la mancata considerazione dei costi del personale dedicato alla gestione degli stessi immobili.
Infine, del tutto irrilevante è la circostanza che B. abbia correttamente applicato il principio di correlazione in alcuni casi, poiché ciò non incide sul diverso comportamento tenuto da B. nei casi contestati dall’Agenzia.
Da quanto sopra esposto discende il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate – in ragione della natura della causa, dell’attività svolta e delle vigenti tariffe – in complessivi euro 8.000,00 (già effettuata la riduzione ex art. 15 comma 2 sexies d.lg. 546/1992), oltre spese generali del 15%.
P.Q.M.
rigetta l’appello proposto dalla B. S.C. e conferma l’impugnata sentenza;
condanna l’appellante a rifondere all’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale dell’Emilia Romagna le spese processuali del presente grado di giudizio, liquidate in complessivi euro 8.000,00, oltre spese generali del 15%.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link