Congo. La presa di Goma e la battaglia dell’informazione nello scontro internazionale /1

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Nella tarda mattinata di martedì 28 gennaio – 36 ore dopo lo scadere dell’ultimatum del portavoce dell’M23, che aveva intimato alle force della coalizione governativa della Repubblica democratica del Congo/RDC (esercito regolare/FARDC, milizie etniche/Wazalendo, mercenari europei, ribelli hutu ruandesi delle FDLR [eredi dei genocidari del 1994], unità della SAMIDRC [la missione dell’Africa Australe sotto comando sudafricano], di deporre le armi nelle basi delle Nazioni unite (NU) – , la popolosa città di Goma, più di 1 milione di abitanti, capitale del Nord Kivu nell’Est della RDC, è ormai sotto il pieno controllo dell’Esercito rivoluzionario congolese (ARC, secondo l’acronimo francese), ala militare del Movimento del 23 marzo (M23), la ribellione in guerra col governo dal novembre del 2021.

Mentre si preparano per il loro primo meeting cittadino, indetto alle 15.30, ora locale, le truppe ribelli hanno già occupato i locali della Radio-Televisione nazionale congolese (RTNC) e l’aeroporto. Intanto, gli ultimi nuclei di resistenza dei «lealisti» sono allo sbando nei quartieri periferici. Un fuga disordinata con l’abbandono di decine di mezzi blindati. Altri militari delle FARDC (Forze armate della Repubblica democratica del Congo) hanno approfittato del corridoio umanitario che era stato offerto loro e si sono rifugiati nelle sedi dei Caschi Blu, dove sono entrati in uniforme e usciti… in abiti civili.

Da segnalare, come grottesco e non unico paradosso di una situazione sulla quale i grandi mezzi di comunicazioni di massa hanno fatto disinformazione a piene mani per ragioni che vedremo più avanti, la fuga di centinaia di soldati governativi aldilà della frontiera, dove sono stati accolti benevolmente dalle autorità del Ruanda… Quello stesso Ruanda che, nelle cancellerie occidentali e non solo, oltre che nelle istanze delle NU, è considerato il paese «aggressore» e di cui l’M23 sarebbe solo un burattino in servizio telecomandato.

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Questa narrazione, operante come une spessa cortina fumogena che impedisce la lettura corretta della crisi congolese, e le cui origini risalgono all’inizio degli anni 2000, comincia finalmente a essere messa in discussione, soprattutto da parte africana.

Sabato 25 gennaio, mentre l’M23 si preparava ad entrare a Goma, il comunicato della Commissione dell’Unione Africana (UA) designava, e per la prima volta, l’M23 come «opposizione politico-militare» al governo ed invitava Kinshasa, capitale della RDC, ad aprire i negoziati con i suoi dirigenti.

D’altronde, il fatto che il presidente della RDC, Félix Tshisekedi Tshilombo, continui a non volerne sapere di sedersi al tavolo delle trattative con i capi dell’M23 (argomentando che, dietro di loro, si cela la mano del Ruanda…) comincia ad irritare seriamente soprattutto i suoi partner africani. In particolare i presidenti dell’Angola e del Kenia, JoaoLaurenço e William Ruto, che si adoperano da anni per trovare una soluzione alla crisi nelle due sedi del «Processo di Luanda» e del «Processo di Nairobi».

Tanto più che, dal 15 dicembre 2023, la direzione dell’M23 fa parte di una più vasta coalizione di forze d’opposizione pan-congolesi denominata Alleanza del fiume Congo (AFC), il che rende ancor meno credibile la narrazione di un movimento ribelle che sarebbe in realtà un surrogato dell’esercito ruandese (RDF).

Per il resto, obiettivi e rivendicazioni dell’M23 sono conosciuti da sempre da tutti gli attori e gli osservatori del conflitto. Se nell’immediato Bertrand Bisimwa e Sultani Makenga – rispettivamente presidente e capo militare della ribellione – sono al lavoro par quella che chiamano la «mutazione delle condizioni di sicurezza della città di Goma» per tutti i suoi abitanti, da anni perseguitati dalle violenze e dagli abusi di una soldatesca indisciplinata e mal pagata, e per il ritorno conseguente degli sfollati fuggiti in seguito ai recenti combattimenti, questa linea di condotta è assolutamente iscritta nel programma di fondo del movimento.

Programma in cui la protezione delle popolazioni (R2P, responsabilité de protéger, secondo la dottrina dell’ONU) resta l’asse principale della sua azione e, più in generale, della sua esistenza.

Nelle cosiddette «zone liberate», i militari e i civili dell’M23 svolgono un’attività profonda di sensibilizzazione volta alla riconciliazione delle diverse comunità, specialmente laddove erano insorti dei conflitti o dove le autorità governative avevano creato le condizioni per deprecabili litigi e violenze inter-tribali, diffondendo discorsi di odio per dividere i diversi gruppi etnici.

Ci si domanda allora: cosa ha a che vedere una presunta “macchinazione di Kigali”, la capitale del Ruanda, con l’insorgenza di un gruppo di militanti e di combattenti che, nell’Est della RDC, si battono da anni per ricreare le condizioni della sicurezza della vita collettiva e della coesistenza pacifica tra le differenti comunità?

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Se l’M23 è un movimento di Congolesi, per la maggior parte originari delle provincie orientali, e il conflitto che imperversa da lunghi anni nella zona è l’espressione di una crisi tutta congolese, come e perché è nata la cortina fumogena che ne occulta le cause originarie e addita – all’opinione internazionale e ai potenti di questo mondo – il capro espiatorio ruandese come “colpevole” di tutti i mali della RDC, le cui autorità sono per giunta sistematicamente sdoganate da 24 anni nonostante un mal governo costellato da massacri sistemici e da una predazione illimitata?

Le radici della ribellione dell’M23 risalgono alla fine della guerra del 1998-2002. Al termine delle ostilità tra i paesi e i movimenti belligeranti (il Ruanda e l’Uganda contro la RDC, in particolare), l’Est della RDC continuava e essere preda delle violenze dei vecchi genocidari delle FDLR (le Forze democratiche di liberazione del Ruanda, alleate da sempre e per sempre con i diversi regimi e governi congolesi).

Quest’ultimo gruppo era arrivato nell’Est RDC 9 anni prima, nell’estate del 1994,  dopo essere stato sconfitto dalle forze patriottiche ruandesi che avevano messo fine al genocidio dei Tutsi (aprile-luglio 1994). Qui, i suoi combattenti avevano cominciato a dare la caccia ai Tutsi congolesi, per finalizzare l’opera di sterminio cominciata, ma non terminata, in Ruanda.

Da quell’epoca a oggi, questa situazione, invece di risolversi, si è aggravata, e i gruppi etnici oggetto di violenze a carattere genocidario si sono estesi dai Congolesi ruandofoni (Tutsi, ma anche Hutu dell’Est RDC), ai Banyamulenge del Sud Kivu, ai Nande del Grande Nord del Nord Kivu e agli Hema dell’Ituri.

I primi gruppi antigovernativi di resistenza a questa situazione di violenze endemiche – favorita dalle autorità secondo il vecchio principio del divide et impera, hanno cominciato a formarsi nel 2003. Nel 2005, il generale tutsi Laurent Nkunda ha fondato il Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP), di cui l’M23 è l’erede.

Durante tutto questo periodo, dal 2003 all’incirca – ma anche a partire dall’inizio della guerra scoppiata nel 1998 – fino ad oggi, una narrazione romanzesca si è sviluppata invadendo le onde, la stampa, i social, le Nazioni Unite e la diplomazia internazionale.

Questa versione artificiale dei fatti ha cancellato dal contesto storico le fonti della crisi, la presenza di politiche tribaliste e razziste da parte del potere congolese, e quella di forze operanti di conseguenza. Il tutto per rinviare all’opinione l’immagine di un Ruanda “destabilizzatore” dell’Est RDC, animato dall’intenzione mal celata di appropriarsi delle sue ingenti ricchezze in minerali strategici.

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Non deve meravigliare che Parigi sia il motore principale di questa questa narrazione che è stata elaborata, e continua ad esserlo attraverso i suoi pseudo “esperti”, mobilitati nel Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace delle NU (DPKO, secondo l’acronimo inglese), da sempre un suo feudo, ed incaricati di divulgare ed aggiornare la versione fittizia. 

Corresponsabile del genocidio di 1 milione de Tutsi nel 1994, la Francia continua ad avere il dente avvelenato contro Kigali, i cui dirigenti attuali le hanno fatto subire, 31 anni fa, una delle rare sconfitte in terra africana. Se è vero che da qualche anno è stato messo in atto dalle due capitali un riavvicinamento tutto diplomatico, l’Eliseo continua a mestare nel torbido ed accusa ancor oggi Paul Kagame, presidente del Ruanda, di teleguidare l’M23 in un’aggressione contro il suo vicino congolese.

Il tutto avviene con la piena consapevolezza che il persistere di questa narrazione è diventato oggi forse l’ostacolo principale alla soluzione della crisi.

Ma che importa alla Francia, e alle altre grandi e medie potenze che la seguono in questa avventurosa disinformazione, quando la demonizzazione del Ruanda è simmetrica al sostegno di un regime, quello della RDCD, da cui si aspettano, come ritorno, fior di contratti a buon mercato e svendita delle risorse naturali strategiche?

Sia comunque aggiunto, come stimolo alla riflessione, che l’azione dell’M23 si iscrive a pieno titolo nelle dinamiche decoloniali ed antifasciste del Multicentrismo e dell’opposizione a un mondo unipolare dominato dal blocco euro-atlantico, in cui la continuità di un Congo «mercato aperto» alle multinazionali, come dai tempi di Re Leopoldo (1865-1908) è uno dei presupposti da cui non derogare.

Spiace allora veder cadere nella trappola della narrazione imperialista diverse forze progressiste che si esprimono oggi in appoggio ad un regime congolese che pratica ormai da anni una politica di oppressione e di massacri di stampo genocidario sulle proprie popolazioni civili.

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E’ d’obbligo allora una domanda: si può sostenere la lotta dei Palestinesi contro il genocidio a Gaza ed appoggiare nello stesso tempo, direttamente o solo indirettamente, il regime della RDC che pratica lo sterminio delle sue sue popolazioni?

Comunque sia, su questa complessità, ritorneremo periodicamente con altri interventi nello svilupparsi degli avvenimenti che si preannuncia tumultuoso.

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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