di Ginevra Barbetti
Lo scrittore irlandese oggi a Santa Croce col suo progetto di narrazione contro i conflitti: «Il collante che ci avvicina all’altro è la nostra storia. Se io racconto la tua e tu la mia scatta l’empatia»
In questo tempo spezzato, le parole devono essere antidoto al male, appiglio per non cadere. Un «pellegrinaggio di riparazione dove re-imparare a raccontare storie, perché ci fanno rendere conto della nostra umanità comune» così lo scrittore irlandese Colum McCann, in Vaticano per il Giubileo della Comunicazione, risponde a chi gli chiede se ancora sia possibile comunicare con speranza. «Stiamo vivendo un’epoca straordinariamente umana e al contempo profondamente disumana — continua McCann — Per conoscerci davvero, dobbiamo ascoltarci e comunicare. Cercando di comprendere».
Anche di questo parlerà durante la lectio «Sto nelle storie», oggi alle 18.30, nel Cenacolo di Santa Croce — il secondo incontro sul concetto di stare, tema portante di Testo — dal 28 febbraio al 2 marzo alla Stazione Leopolda. Autore di romanzi e racconti, McCann è riconosciuto come uno dei massimi romanzieri degli ultimi decenni. Tradotto in tutto il mondo, col bestseller Questo bacio vada al mondo intero vince il National Book Award. Poi Transatlantic, Apeirogon e l’ultimo, Una madre. Con Narrative 4, organizzazione no-profit da lui fondata, invita i giovani di 35 paesi a scrivere, educando all’empatia. Il nuovo romanzo, Twist, uscirà a marzo.
Stare, raccontare e ascoltare. La scrittura è energia risolutiva?
«Nella distanza minima tra ciascuno di noi c’è una storia, è il collante che ci tiene insieme. Non siamo nulla, se non possiamo comunicare. Ma più importante ancora, è dare attenzione alle storie degli altri. Ascoltare è la chiave del cambiamento. In senso empatico, con intenzioni oneste, non come forma di appropriazione culturale, bensì di quella celebrazione culturale che può salvarci».
Con questi presupposti nasce «Narrative 4», progetto che invita a creare connessioni tra i giovani.
«È un’organizzazione no-profit che dà il potere di creare cambiamento attraverso il racconto e l’ascolto. Crediamo di aver trovato una formula semplice per costruire una strada nuova: tu racconti la mia storia, io racconto la tua. In prima persona, faccia a faccia».
«Non si deve vincere una discussione, si deve toccare l’anima tra persone “profondamente” presenti. Abbiamo portato il programma in Irlanda, Messico, Stati Uniti, Nigeria, Sudafrica e altri Paesi del mondo. Sarebbe bello introdurlo anche nelle scuole italiane. Gli insegnanti possono iscriversi sul sito Narrative4.com e diventare facilitatori attraverso il percorso online».
Nei suoi libri attiva il dialogo tra luoghi e persone: il patrimonio culturale del singolo può diventare risorsa collettiva?
«Il mondo è caleidoscopico, multistrato, multicolore. Il dialogo tra persone e luoghi diversi è vitale per la nostra sopravvivenza. La realtà contemporanea va intesa nella pluralità d’esperienze».
In Apeirogon racconta la storia di due uomini dai destini contrapposti ma uniti dalla perdita di una figlia in guerra.
«M’imbatto nelle loro storie nel 2015, durante una visita alla città di Beit Jala, in Cisgiordania. Ero in viaggio con un gruppo di artisti e attivisti. Ho incontrato scrittori israeliani, musicisti palestinesi, coloni, soldati. Conservo tanti ricordi ricchi di sfumature. La sera prima di ripartire sono entrato in un ufficio angusto, salendo una scala traballante. C’erano due uomini seduti, erano Bassam Aramin e Rami Elhanan — palestinese il primo, israeliano il secondo».
Uomini ordinari in un luogo ordinario li ha definiti.
«Così sembrava. “Non dobbiamo necessariamente amarci o nemmeno piacerci, ma dobbiamo imparare a capirci, altrimenti siamo nei guai” dissero. Mi hanno parlato delle loro figlie, Smadar e Abir, entrambe perse nel conflitto. L’emozione di quel momento mi ha tolto il respiro, cambiandomi per sempre. Dovevo scriverne, sapendo che sarebbe stato complesso, ma le uniche cose che vale la pena fare sono difficili».
Joyce diceva: «Sono stato via dall’Irlanda talmente a lungo che adesso sento la sua voce in ogni cosa». Vedere il processo di pace irlandese da vicino è stato utile per capire ciò che sta accadendo in Medio Oriente?
«Quando ero in Palestina, ho superato diversi checkpoint. Altrettanti ne avevo attraversati da bambino, nell’Irlanda del Nord. Il tempo trascorso a Derry, durante l’infanzia, è stato fondamentale. Come l’aver visto da vicino il processo di pace irlandese concluso nel 1998, che mi ha aiutato a capire tante dinamiche connesse alla guerra».
Quando poi ci è andato, ha riconosciuto altre forme di dolore?
«Quel dolore è diventato qualcosa da onorare e trasmettere. Ho riconosciuto la forza del linguaggio come arma, le bugie e le mezze verità. Avendo ben chiaro il senso di un cuore spezzato».
Per definire il conflitto Israelo-palestinese usa l’immagine dell’Apeirogon.
«È un poligono con un numero infinito di lati che ricorda un cerchio: si può far parte di una forma infinita, e approdare a qualsiasi punto “finito” al suo interno. Un titolo complesso, unico e folle. Ma mi fido dei miei lettori, soprattutto di quelli italiani, certo che avrebbero corso il rischio di andare in profondità».
Quasi il simbolo del nostro mondo infranto. A chi spetta la missione di ricostruirlo?
«A te. E a me. La mia responsabilità è di rendere possibile la tua, e viceversa».
Nel libro cita i Parents Circle – genitori che hanno perso i propri figli e testimoniano insieme la necessità di superare l’odio.
«Sono 750 famiglie che hanno perso i loro cari in Israele e Palestina, anime coraggiose in un percorso di non violenza. Una giustizia rigenerativa, lontana dalla vendetta, una riparazione simbolica».
Cosa manca nella copertura mediatica internazionale?
«La narrazione giusta. Le storie personali che danno senso a quelle politiche. Rumi diceva: “Ieri ero intelligente e ho cercato di cambiare il mondo. Oggi sono saggio e cercherò di cambiare me stesso”. In cosa possiamo avere speranza? Magari nelle persone che ignoriamo. Anche nei nostri nemici».
«L’adoro. L’ultima volta che sono venuto, ho girato in macchina con un’auto a noleggio. Guido veloce e distratto. Così ho “vinto” due multe per eccesso di velocità. Bene, non le ho ancora pagate. Finirò in prigione?».
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