Ormai le presentazioni di Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva in giro per l’Italia iniziano a essere varie, e quelle dei mesi scorsi sono andate tutte più che bene. Ma ancora meglio è andata la presentazione dell’altroieri, di sabato pomeriggio a Villorba, nei dintorni di Treviso, presso la bella libreria Lovat: più di 150 persone, anzi probabilmente anche più di 170 persone, erano lì per parlare di filosofia e farsi firmare il libro. Ed erano lì di sabato pomeriggio, lontani dai centri commerciali dello shopping, in un periodo tra l’altro in cui il quadrimestre (laddove lo si usa ancora) volge al termine e magari quando si è studenti c’è ancora molto da fare.
Insomma, molto bene, sono stato molto contento (e saluto tutti quelli che sono qui a leggere queste righe, dopo essere stati là, magari in coda per un posto a sedere o una dedica). Altre occasioni simili arriveranno nelle prossime settimane, anche in altre zone d’Italia.
Una di queste – anche se più virtuale che “fisica” – la posso già annunciare: lunedì 10 febbraio terrò un webinar online per Garzanti Scuola / Deascuola, l’editore di La storia in scena (trovate altre informazioni su questo libro più avanti). Il titolo dell’incontro sarà “Donne nella storia: da escluse a protagoniste”: se siete docenti, potete iscrivervi qui.
Prima di passare alla newsletter vera e propria, lasciate inoltre che dedichi una menzione alla Giornata della Memoria, che quest’anno capita proprio di lunedì: nella mia scuola cerchiamo di organizzare ogni volta qualcosa di diverso, focalizzandoci certo sull’Olocausto, ma approfondendo anche pagine meno note delle tristi vicende della Seconda guerra mondiale. Quest’anno in particolare i ragazzi del mio PCTO hanno curato una mostra interna dedicata alla storia degli Internati Militari Italiani in Germania, storia a cui ho dedicato anche un video che ho pubblicato proprio oggi e che trovate linkato più avanti. Un piccolo spunto per provare a ricordare e scoprire qualcosa di nuovo su quegli anni terribili.
Ma ora è il momento di tornare a parlare di libri, film (anzi, serie tv) e soprattutto questioni di attualità. Iniziamo.
E cominciamo allora con i libri, come sempre.
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Nel nome dello yoga di Federico Squarcini e Luca Mori: vi ho già parlato, qualche settimana fa, di questo volumetto, ma forse non vi ho detto perché l’ho comprato. È da tanto, infatti, che tantissimi – follower, collaboratori, persone incontrate anche per caso – mi parlano di yoga, e sapendone poco ho deciso di provare ad affrontare l’argomento in maniera un po’ più seria; e questo libro prometteva di farlo partendo dalla stessa parola “yoga” e dal significato che ha assunto in Occidente. Certo, si tratta di un tema che potrebbe deludere i più: se cercare un manuale per praticare questa attività (ammesso che sia un’attività) in casa, non è decisamente il libro che fa per voi. Se invece volete capire quanto spesso abbiamo sbagliato a raccontare e interpretare la cultura orientale qui in Europa e in America, il saggio è assai interessante. Sono ormai arrivato a metà del volume, ma lo si legge piuttosto in fretta: se vi interessa, potete acquistarlo qui.
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Il lupo della steppa di Hermann Hesse: come vi dicevo altrove, Il lupo della steppa è il nuovo libro scelto dagli abbonati del canale YouTube per la prossima riunione del Club del Libro, che si terrà ai primi di febbraio. Lo sto leggendo un po’ a ondate, nel senso che per un paio di giorni mi immergo nelle atmosfere degli anni ’20 di Hesse, e poi in genere mi dimentico del volume per altri tre o quattro giorni, scordandomi addirittura di riprenderlo in mano. Non ne so dire precisamente il motivo, ma Hesse mi fa spesso questo effetto: da un lato mi affascina, trovo intriganti alcuni problemi (spesso filosofici ed esistenziali) che pone e ne condivido certe letture, ma d’altra parte la sua visione del mondo non riesce mai a catturarmi fino in fondo. Lo stesso si può dire per questo strano personaggio al centro del libro, il cosiddetto “lupo della steppa”, un uomo annoiato dalla vita borghese, in cerca di una bellezza artistica – quella, dice lui, degli “immortali” come Mozart – che si fa sempre più sfuggente. Vedremo: per ora è successo, a dir la verità, anche molto poco; sarà anche perché sono appena a un terzo del volume, e dovrei evidentemente accelerare per cercare di arrivare pronto al prossimo appuntamento. Intanto, se volete partecipare anche voi al Club del Libro o se siete solo incuriositi da questa lettura (che comunque è di spessore), potete comprare il volume qui.
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Clear Thinking. Pensa come un agente segreto di Shane Parrish: anche di questo saggio vi ho già parlato nelle settimane scorse, e vi ho detto di come mi abbia incuriosito giocando su un mio punto debole: quello di cercare di capire come aiutare le persone a pensare in maniera più lucida e chiara. In effetti il libro promette di fare proprio questo: grazie all’esperienza dell’autore, che ci racconta di aver lavorato nell’intelligence, dovremmo apprendere delle tecniche pratiche e pragmatiche per far lavorare al meglio la nostra mente e uscire vincitori (o almeno un po’ meno perdenti) da una serie di situazioni quotidiane e lavorative. Ci riesce allora, il libro, a fare tutto questo? Per ora – e sono anche qui più o meno a un terzo delle pagine – direi sì e no: alcuni consigli sono utili e logici, perché inquadrano in effetti proprio quello che serve per pensare in maniera più chiara; allo stesso tempo, però, mi pare che finora non si vada oltre la scorza superficiale di quegli argomenti. Se infatti Parrish indica cosa bisognerebbe fare per pensare più chiaramente, poi il più delle volte non approfondisce, non dà sostanza al suo discorso, limitandosi a ripetere in lungo e in largo il concetto ed eventualmente a rafforzarlo con qualche piccola storiella personale. Insomma, un manualetto con cui ci si trova facilmente d’accordo, ma che temo non lasci poi molto nel lettore, almeno per quello che ho letto finora. In ogni caso, se volete potete acquistarlo qui.
Passiamo ora al reparto film. O sarebbe meglio dire “serie tv”, visto che questa settimana vi propongo proprio tre serie, anche se in almeno un paio di casi hanno il sapore quasi del lungometraggio.
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Colombo episodio 1.01 – Un giallo da manuale (1971), di Steven Spielberg, con Peter Falk, Jack Cassidy, Rosemary Forsyth: come vi raccontavo all’inizio della newsletter, sabato sono stato a Treviso per presentare Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva. Con me, a fare da moderatore della serata, c’era il bravo collega di storia e filosofia Roberto Grigoletto, molto noto in città; e chiacchierando davanti al pubblico proprio questo collega ha tirato fuori una cosa su cui avevamo già discusso qualche settimana prima: la presenza di un breve capitoletto, nel libro, dedicato al tenente Colombo, il celebre detective televisivo interpretato da Peter Falk. Se siete curiosi di sapere in quale modo lego Colombo alla filosofia scettica, comprate il libro; ma qui posso dirvi che aver ritirato fuori l’argomento mi ha fatto venir voglia, una volta tornato a casa, di rivedere per l’ennesima volta qualche puntata del caro vecchio tenente della polizia di Los Angeles. Per fortuna, su Amazon Prime Video al momento ci sono tutte le stagioni, e ho deciso di ripartire dalla prima; anzi, dal primo episodio ufficiale della prima stagione, Un giallo da manuale. Intanto bisogna dire che non si trattò davvero della prima apparizione di Colombo: un po’ perché il personaggio, con un altro nome e un altro interprete, era già comparso sul piccolo schermo americano in una serie gialla antologica; un po’ perché anche con Falk erano già stati realizzati degli “episodi zero” che rimangono all’esterno della numerazione ufficiale. Ma poi soprattutto una cosa che balza agli occhi è il nome del regista di quell’episodio 1: quella puntata del 1971 venne infatti diretta da un giovanissimo Steven Spielberg, all’epoca appena venticinquenne. E l’episodio – poste tutte queste premesse – non delude le attese: forse l’unico neo che gli si può trovare è che alla fine le prove che Colombo raccoglie per incastrare l’assassino sono abbastanza risibili, e credo che non sarebbero risultate poi così decisive in tribunale. Ma il bello della serie non sono le prove né l’esito del processo, ma la capacità di quello scalcinato detective di risolvere il mistero. Nota a margine: l’antagonista della puntata è interpretato da Jack Cassidy, solido attore televisivo che poi sarebbe comparso, più avanti negli anni, in altri due episodi dello show. Quello che non molti sanno è che Cassidy morì tragicamente a 49 anni d’età, quasi come in un episodio di Colombo: il suo corpo venne infatti trovato carbonizzato dopo che, si pensò, si era addormentato sul divano con la sigaretta accesa e quella disattenzione aveva provocato un incendio in tutta la casa. La serie la trovate su Prime Video.
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M. Il figlio del secolo episodi 1.03-1.04 (2025), di Joe Wright, con Luca Marinelli, Francesco Russo, Barbara Chichiarelli: su M. Il figlio del secolo ormai si è detto tutto e il contrario di tutto. Ovviamente andando ben al di là di quello che si vede sullo schermo: perché c’è chi si sente offeso dal fatto che Mussolini sembri una macchietta (indipendentemente dal fatto che lo fosse davvero o meno), chi invece si esalta convinto che semplicemente il fondatore del fascismo ci faccia una brutta figura, e chi ancora si schiera un giorno da una parte e il giorno dopo dall’altra. Ma alla fine, la serie a me sta piacendo? Direi tutto sommato di sì. Negli episodi che ho visto questa settimana ho mal digerito alcuni errori storici un po’ marchiani: ad esempio, il governo Giolitti non andò in minoranza per il voto di Mussolini, e il patto di pacificazione non fu certo proposto dal leader del fascismo, quanto piuttosto dal governo. Anzi, su quest’ultimo punto: il patto a dirla tutta non fu nemmeno Mussolini a firmarlo, ma il suo delegato Giacomo Acerbo (quello della successiva Legge Acerbo), e quindi – per quanto ne so – la scena della stretta di mano è pura fantasia. Queste gag un po’ stupide e false, a mio avviso, gli sceneggiatori se le potevano risparmiare; ma il resto, il Mussolini costretto con le spalle al muro dai suoi ras, il Mussolini voltagabbana a seconda di come gli conveniva, il Mussolini che si approfitta dell’imbecillità dei quattro violenti che ha attorno, quello non è certo un’invenzione. Certo, la regia gioca sui tratti grotteschi, con certe inquadrature, con certe strizzate d’occhio alla telecamera, con un Mussolini che fa la rockstar: ok, si esagera. Ma a mio avviso questa esagerazione tutto sommato ci sta, perché Mussolini fu un po’ anche quello: un furbo, un opportunista, un ostaggio, un violento. Tutto e il contrario di tutto, come si dice anche nella serie. Unica cosa che non mi è piaciuta della recitazione: Giacomo Matteotti, che parla quasi con accento sardo. Era di Rovigo: abbiamo così poche cose degne di memoria, a Rovigo, che vi prego di non toglierci anche il deputato socialista. La serie la trovate su Sky.
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A Man on the Inside episodi 1.03-1.04 (2024), di Michael Schur, con Ted Danson, Mary Elizabeth Ellis, Stephanie Beatriz: Ted Danson è uno di quegli attori che non muoiono mai, sempre pronti a interpretare un nuovo ruolo e sempre capaci di portarsi appresso un pubblico fedele. La prima volta che l’ho visto credo fosse in Tre scapoli e un bebè, film del 1987 interpretato al fianco di Tom Selleck e Steve Guttenberg. All’epoca tutti e tre i protagonisti erano famosissimi: Selleck arrivava dal successo di Magnum, P.I., Guttenberg dalla saga di Scuola di polizia, Danson da un’altra serie popolarissima negli Stati Uniti ma all’epoca poco nota in Italia, Cheers (da noi poi importata anche col titolo di Cin Cin). Poi ha fatto di tutto: ha recitato nella poco conosciuta ma molto divertente Becker, in Curb Your Enthusiasm, in CSI – Scena del crimine, in The Good Place e in altre cose ancora. Ora torna sul piccolo schermo, e in particolare su Netflix, con A Man on the Inside, serie comica che riecheggia, fin dalla grafica, i vecchi film di spionaggio, ma che in realtà finisce per prenderli soprattutto in giro. Il protagonista è il vedovo Charles, un ex professore universitario ora in pensione che, per noia, accetta di lavorare per un’agenzia investigativa, in particolare infiltrandosi in una casa di riposo di lusso. Il clima è sereno, la tensione c’è ma risulta tutto sommato contenuta e le puntate scivolano via in modo piacevole, senza scossoni. Niente di straordinario, ma un buon diversivo. Come detto, è su Netflix.
Lasciate che, per iniziare la riflessione di questa settimana, vi racconti due cose in relazione a quello che ho scritto nei giorni scorsi. Partiamo dal tema scuola: vi ricorderete che nella scorsa newsletter vi ho esposto e motivato alcune critiche alle nuove linee guida che sembrano voler reintrodurre alcuni vecchi elementi nell’insegnamento e nella scuola, togliendo ovviamente spazio ad altro.
Be’, in questa settimana sono usciti articoli completamente deliranti sul tema. Il primo che vi segnalo è l’intervista a Andrea Balbo, uno degli esperti nominati da Valditara per rivedere le indicazioni nazionali, uno che di pedagogia (come buona parte della commissione) non sembra saper nulla, ma che ovviamente è un latinista. Be’, per sostenere la bontà dell’idea di reintrodurre il latino alle medie ha detto che (cito testualmente) «il latino non è una lingua morta, perché a Torino ci sono ancora molte lapidi [in latino]». Le lapidi. Più di metà degli italiani non riesce a spiccicare una parola d’inglese (e spesso neppure d’italiano), ma grazie al cielo sapremo finalmente leggere le lapidi, santo cielo.
Il secondo è un articolo – purtroppo di un filosofo che, immagino, non mette piede in una scuola dell’obbligo da decenni – in cui si sostiene la bizzarra tesi secondo cui, con la reintroduzione delle poesie imparate a memoria, non ci sarà più bisogno dell’educazione affettiva a scuola, perché le poesie già educano all’affettività; tanto è vero, si scrive, che chi conosce la bellezza a memoria non può essere un bullo. Ora, con tutto il rispetto, mi chiedo dove sia mai vissuta questa gente, in quale empireo vivano certi professori universitari che scrivono indicazioni per educare i giovani senza averne conosciuti più di tre nell’ultimo trentennio.
Intanto, vorrei ricordare che alle elementari non ti fanno imparare le poesie sui grandi sentimenti, che forse potrebbero anche insegnarti a sentire ed esprimerti, ma il San Martino di Carducci (il mio ultimo figlio l’ha imparata un mese fa, a menadito); e, onestamente, non vedo come «La nebbia agl’irti colli piovigginando sale» possa insegnarti a gestire i tuoi sentimenti nei confronti dei compagni.
Ma al di là di questo, basterebbe anche solo un minimo di vita vissuta: io ho fatto le elementari quasi quarant’anni fa, quando le poesie si imparavano a memoria in gran quantità, e a ricreazione ci picchiavamo tutti come dei cinghiali, con pugni che volavano e forme di bullismo di ogni tipo. Si era meschini, violenti, umilianti: e le poesie le sapevamo tutte. Quale scriteriato può pensare che un bambino di 8 anni impari l’educazione da Pascoli o Carducci?
(Ah, tra l’altro ho fatto le elementari dalle suore, giusto per dire che neppure la Bibbia in questo senso aiuta troppo.)
Ma perché si sostengono sempre tesi così palesemente deboli? Perché i giornali sono pieni di professori universitari che affermano cose che – a guardarle con un minimo di distacco – sono ridicole, assurde e fanno ridere chiunque viva al di fuori delle aule universitarie?
Diciamolo, bisogna avere il prosciutto sugli occhi per pensare che questi argomenti possano avere una qualche validità. Ma forse non lo si pensa neppure: a me pare che ormai quasi sempre non si cerchi di convincere il proprio uditorio (chi può cambiare idea per discorsi del genere?), ma solo di dare un appiglio a chi già la pensa come te. Come se si dicesse: «Dai, lo sappiamo tutti che stiamo facendo una proposta dettata solo dalla nostalgia, o dalla rabbia, o dalla vendetta, o da altre motivazioni poco nobili; ma visto che non possiamo dirlo pubblicamente, inventiamoci almeno una pseudo-motivazione. Così noi facciamo la figura di quelli che hanno delle idee, e tu lettore non sei costretto a metterti in discussione, puoi sempre dire che il latino è bello perché ci sono le lapidi in giro per Torino: meglio di niente».
Ah, tra l’altro lo stesso meccanismo è entrato in gioco quando ho osato scrivere una cosa (tra l’altro: un’impressione, mica un trattato) su Elon Musk e il suo saluto apparentemente simile a quello nazista. Credo sappiate di cosa sto parlando: il giorno dell’insediamento di Trump, Musk ha fatto un discorso alla platea dei sostenitori del nuovo presidente, terminandolo con un saluto che ricordava smaccatamente quello nazifascista. L’ha fatto apposta? Intendeva proprio quello? O è un saluto più normale che gli è venuto male? Ovviamente la risposta non ce l’ha nessuno, ma vedendo il video e leggendo il commento iniziale dei suoi sostenitori (tipo quello del fedelissimo Andrea Stroppa), a me è sembrato che Musk l’abbia “fatta fuori dal vaso”, come si suol dire, trascinato da un palese eccesso d’entusiasmo. E che quindi abbia fatto sì un saluto fascista, rimangiandosi tutto mezzo secondo dopo. Il che non vuol dire che Musk sia fascista: vuol dire semplicemente che chi ama sempre provocare (e ha come strategia la provocazione continua), a volte supera il limite, anche malamente.
Questo ho cercato di dire, qualche giorno fa: si può essere d’accordo o in disaccordo, si può dire che Musk è autistico (senza sapere che gli autistici mica fanno il saluto fascista) o si può dire che era solo molto agitato, e vabbè, ci sta. A me sembrano giustificazioni deboli, ma le posso accettare.
Quello che non riesco ad accettare, invece, è la malafede o la disonestà intellettuale, che ormai pervade tutti i social. Su Threads, ad esempio, il mio commento su Musk deve essere arrivato, a un certo punto, all’attenzione di un gruppuscolo di sostenitori di Trump e di Meloni, che mal hanno digerito che si potesse sospettare della lucidità del loro paladino. E quindi via con vari post a giustificare l’ingiustificabile: Kamala Harris farebbe gesti nazisti a destra e a manca, Musk non ha davvero teso il braccio, è tutta una montatura e via discorrendo. Le solite cose che servono solo a inquinare i pozzi e a buttarla in caciara.
Ma il fatto è questo: teoricamente, se sei un sostenitore di Musk non dovresti neppure arrampicarti sugli specchi, non dovresti aver paura ad ammettere e accettare i suoi comportamenti. Basterebbe dire: «È uno a cui piace provocare, e magari lì non voleva fare quel gesto ma era un po’ gasato, e gli è scappato. Un piccolo inciampo, non cambia nulla». Perché in effetti è vero: quel gesto non cambia nulla, e magari il tycoon neppure c’ha pensato a quello che faceva; magari voleva fare altro, e solo dopo s’è accorto che il suo saluto che poteva apparire equivoco. Basterebbe, insomma, dire la verità, senza andare a inventarsi chissà quale panzana, a prendere foto di Tizio o Caio col braccio teso mentre prende l’autobus per dire che «non è solo Musk a fare il saluto nazista», o che decontestualizzato tutto può sembrare un braccio teso. Il video c’è, ed è chiaro che quello che fa Musk è ben diverso (ma di molto) da tutto il resto.
Oppure, se si è fascisti (e qualcuno di quelli che m’ha replicato qualche simpatia fascista ce l’ha di sicuro), si può anche dire: «Ebbene sì, ha fatto quel gesto, e a me sta bene, viva il saluto fascista». Anche questo sarebbe un messaggio quantomeno onesto, anche se problematico.
E invece no, bisogna mentire. Bisogna arrampicarsi sugli specchi. Bisogna sempre far finta di avere un argomento, di essere razionali. Poco importa che l’argomento non abbia alcuna consistenza, poco importa che vi si ritrovino almeno quattro o cinque fallacie tutte insieme. L’importante è mentire e arrampicarsi sugli specchi sempre e comunque, non ammettere mai nessun errore, negare l’evidenza.
All’inizio non capivo il perché di questa strana tendenza che ormai è diffusissima, dove si volesse andare a parare. Secondo me, non lo sanno nemmeno quelli che la mettono in atto, questa pratica, quale sia il suo fine ultimo. Ma un fine ultimo forse c’è: ed è quello di rendere inutile ogni discussione.
Perché una discussione tra due persone che la pensano in modo diverso sia fruttuosa, bisogna infatti che quelle due persone parlino la stessa lingua, cioè, filosoficamente parlando, usino la stessa logica e la stessa razionalità. In termini più concreti: bisogna che ci sia un minimo di onestà intellettuale. Se vogliamo ragionare insieme, è necessario cioè che ci riconosciamo a vicenda i ragionamenti corretti o convincenti, senza negare l’evidenza, senza usare argomenti palesemente falsi. Perché se io dico che il muro è bianco e tu, nonostante sia bianco, continui a dire che in realtà è nero, non andiamo da nessuna parte, visto che non riusciamo a trovare nemmeno un significato comune per le parole che intendiamo usare per discutere.
Ebbene, non cedere mai su niente con l’avversario, non ammettere mai che l’avversario può avere una parte di ragione (neppure quando ha palesemente ragione) è una strategia che serve unicamente a far saltare il banco e a rendere impossibile ogni discorso. Dire che il latino non è una lingua morta, per esempio, è falso, da ogni punto di vista si guardi la questione; si può dire che è un peccato che sia morta, si può dire che ci sono tante belle lapidi che sarebbe bello leggere in giro per il mondo, ma non si può dire che sia viva. Altrimenti salta ogni logica, salta ogni discorso; altrimenti il concetto di “lingua viva” non ha più alcun significato.
E l’obiettivo, appunto, mi pare in realtà essere proprio questo: far saltare ogni discorso. Si espone una tesi che, apparentemente, sembra voler aprire un dibattito, ma la tesi è talmente fuori dal mondo che non apre alcun dibattito, ma lo chiude immediatamente. E l’obiettivo è infatti chiudere il dibattito, smettere di discutere.
L’effetto di tutto questo è l’estrema polarizzazione che abbiamo sempre davanti, per cui si possono sostenere le cose più assurde e brutali senza che nessuno possa dirti niente (perché tanto non lo ascolti, parlando un’altra lingua). È un trollare senza fine, senza più nemmeno rendersi conto di essere dei troll; è un trollare che ormai non si fa più solo sui social network, ma ha preso possesso addirittura dei giornali, dell’informazione.
Personalmente, trovo sempre più invivibili quei luoghi – ad esempio i social network – in cui avremmo teoricamente dovuto trovare nuovi spazi di discussione, proprio perché alla lunga non riesco a sopportare queste ondate di ignoranza che mi assalgono tutte assieme. Mi deprimo a leggere tanti commenti non in disaccordo con me (che, per carità, a volte ci starebbero pure), ma completamente avulsi dalla realtà. Come mi deprimo a vedere certi commenti su YouTube che farneticano di cospirazioni mondiali, che offendono senza sostenere neppure un’idea, che fungono solo da sfogo alle mille frustrazioni della gente.
Mi deprimo e me ne vado in fretta. Ricordate quel detto che si attribuisce di solito a Mark Twain? «Non discutere mai con un idiota: ti trascina al suo livello e ti batte con l’esperienza». Perché non ha senso provare a replicare o ad argomentare: non si parla la stessa lingua.
Mentre pensavo a queste cose, questa settimana però c’è stato un altro elemento che per sé con la politica e con le opinioni non sembra aver nulla a che fare, ma che mi ha fatto riflettere. Come forse ho già raccontato altre volte, i miei figli praticano diversi sport e cerco il più possibile di seguirli quando vanno a fare le varie partite. Questo, negli anni, mi ha permesso di approfondire la conoscenza, mio malgrado, di tutto il campionario umano dei tifosi degli sport giovanili, costituito perlopiù da padri.
Ovviamente ci sono delle differenze da uno sport all’altro, per via di diverse tradizioni e di diversi stili, ma in ogni sport ogni tanto capita di imbattersi nel padre iracondo, che già al terzo minuto del primo tempo sta litigando con l’arbitro, con gli allenatori e a volte perfino con i giocatori che sono in campo. Non più di un paio di settimane fa, ad esempio, ho visto un padre mandare a quel paese la propria figlia quindicenne, e la figlia rispondergli in modo anche più violento. Urla, strepiti, parolacce, in certi casi anche incapacità di controllare il proprio corpo, fino all’allontanamento dallo stadio o dal palazzetto: ci sono dei giorni in cui succede davvero di tutto. Mi è capitato anche di sentire padri di famiglia apparentemente sereni minacciare di botte poveri arbitri diciassettenni che tentavano, in questo mare di offese, di fare semplicemente il loro mestiere.
Niente di nuovo sotto il sole: sappiamo bene quanto sia difficile generare una sana cultura sullo sport. Ma proprio di questo mi ha capitato di parlare con uno studente della mia scuola, che conosco da qualche anno per via di progetti a cui abbiamo lavorato assieme, ma che adesso, giunto in quinta, nel tempo libero fa proprio l’arbitro di basket. E così, durante una supplenza, gli ho chiesto come ci si sente, a diciott’anni, a dover sopportare le minacce e le parolacce dei cinquantenni.
Mi ha spiegato quella che credo sia un’esperienza comune: che all’inizio si è un po’ impauriti, e che si rischia di farsi influenzare da quelle urla, perdendo lucidità; ma che un po’ alla volta si impara a gestirle, e anzi che il lavoro dell’arbitro è ottimo per imparare a non farsi schiacciare anche dallo stress scolastico. Tra l’altro, io questo ragazzo l’ho visto arbitrare proprio una partita di mia figlia e se l’è cavata egregiamente, con decisioni sempre sicure e chiare, oltre che azzeccate.
Però proprio questo mi ha portato a pensare a quanto i nostri social network, e più in generale il dibattito pubblico in Italia, assomiglino a una partita di basket o di calcio. Ci sono i giocatori che, nel nostro caso, sono i politici, o quelli che in ogni caso gravitano attorno alla politica: Meloni, Salvini, Schlein, Conte, Trump, Musk, Biden, Macron, Netanyahu e via discorrendo. La partita la fanno loro, le decisioni le prendono loro.
Noi seguiamo quello che fanno dagli spalti e lo giudichiamo continuamente, ma non come si farebbe per il lavoro di un proprio dipendente o, banalmente, di un amministratore di condominio; guardiamo loro come guardiamo Leo Messi e Cristiano Ronaldo, Pep Guardiola e Thiago Motta. Li adoriamo o li odiamo, li difendiamo sempre o li attacchiamo in ogni caso. I nostri giudizi non sono quasi mai lucidi, non sono mai veramente motivati, non hanno praticamente nulla di oggettivo o di onesto: sono i giudizi dei tifosi più esagitati, come quelli di chi reclama il rigore quando è evidente che il rigore non c’è, o quelli di chi nega l’evidenza sempre e comunque pur di dare ragione alla propria squadra.
Ecco, io a volte in questo panorama mi sento un po’ come l’arbitro. Cerco di seguire quello che accade in campo e di giudicarlo, cercando di capire quando un’azione è corretta e quando no, di chi è la responsabilità di un eventuale fallo e di segnalarlo. E cerco di farlo, con tutti i miei limiti, con onestà, come credo facciano tutti gli arbitri: non facendo il tifo per una squadra o per l’altra, ma – nel momento del giudizio – astraendosi dalle proprie passioni. A volte ci azzecco e a volte no, come capita anche agli arbitri, d’altra parte; e però come loro mi sembra di essere in un’arena in cui tutti gli altri, invece di lavorare con me e come me, fanno semplicemente i tifosi.
Se io dico, cioè, che un certo politico ha sbagliato a dire una cosa o a varare una legge, non mi imbatto in un altro arbitro che conferma la mia decisione o mi fa notare di non aver visto qualcosa, ma piuttosto in un tifoso che mi sputa contro tesi assurde. Anzi, in un tifoso che inizia a offendermi o a negare l’evidenza se il fallo che ho fischiato colpisce la sua squadra, o che mi applaude senza posa se invece ho avvantaggiato il suo team. Al tifoso non interessa affatto la verità, al tifoso interessa vincere: ed è per questo motivo che ritiene che ogni bugia possa essere utile per arrivare a quello scopo.
Questo, tra l’altro, influisce sul nostro modo di fare politica o di percepirla anche quando il numero dei tifosi non è poi così rilevante. Immaginatevi questo scenario: siamo all’interno di un palazzetto dello sport in cui giocano due squadre di pallacanestro. Ci sono in campo cinque giocatori del team di casa contro cinque dell’altra squadra, più qualche altro giocatore in panchina in attesa di entrare a misurarsi gli avversari. In campo coi giocatori, ovviamente, ci sono poi anche una serie di arbitri: due seguono tutte le azioni correndo da un capo all’altro del campo, ma altri tre sono seduti al tavolo a registrare i falli e i punti; in più, ancora più a bordo campo, ci sono magari anche un paio di funzionari della federazione, interessati ad assicurasi che tutto proceda per il meglio.
Poi ci sono gli spalti. Immaginiamo che lì sia seduti solo un centinaio di persone. Venti o trenta sembrano essere lì per caso, e stanno con gli occhi fissi sul cellulare: probabilmente hanno il figlio in panchina o stanno solo aspettando la partita successiva. Una sessantina di persone segue invece la gara applaudendo qua e là davanti a qualche buona azione, ma non apre praticamente bocca. Infine ci sono dieci personaggi – solo dieci su cento complessivi – assai discutibili, che iniziano quasi subito a urlare e a imprecare, offendendo gli arbitri o i giocatori, e spesso anzi tutti insieme.
Ecco, la politica ormai assomiglia a una cosa di questo tipo: molta gente la guarda, ma con indifferenza, senza scomporsi e senza neppure prendere parte attiva al gioco. La guarda come si guarda un reality show, come se fosse una partita di basket. Poi c’è una parte, più piccola ma molto rumorosa, che la usa per dare sfogo alla propria rabbia, alle proprie speranze, alle proprie frustrazioni. Sono persone che noi con un minimo di sale in zucca cerchiamo di evitare, e da cui ci dissociamo quando siamo dentro a un palazzetto: non è raro, anzi, che le mogli di questi mariti esagitati prima o poi tentino di allontanarsi, e, stufe, finiscano per sedersi un po’ in disparte, in modo da non essere associate a quel consorte che non è in grado di tenere la bocca chiusa davanti ai ragazzini. E infine ci sono gli arbitri, quelli che provano a fare la loro parte, a contribuire alla buona riuscita della partita pur senza giocarla: sono pochi e subissati da tifosi violenti, tanto da non riuscire quasi più a fare il loro lavoro.
Dicevo, la politica ormai è questa: un grande show in mano ai facinorosi, in mano ai tifosi più stupidi e in cui si fa sempre più fatica a contribuire. E il guaio è che ormai gli atleti si sono accorti di questa situazione, e se ne approfittano: Trump, per dirne uno, è come un giocatore che fa continuamente trash-talking, uno che ogni volta che fa canestro inizia a fare gestacci contro la panchina avversaria e ad aizzare il pubblico a suo favore contro quello avversario. È uno che meriterebbe un fallo tecnico ad ogni azione, ma ormai i falli tecnici non si riescono più a comminare, visto che il pubblico dei fan di Trump minaccia di tagliare le gomme alla macchina dell’arbitro o di assalirlo mentre è in spogliatoio.
E però, se questa è la situazione, siamo alla fine della democrazia. Non tanto perché arrivi un dittatore a prendersi tutto il potere, quanto perché noi di fatto stiamo rinunciando al nostro potere. Siamo noi che preferiamo fare gli spettatori, siamo noi che preferiamo urlare parolacce senza però mai toccare un pallone e senza mai scendere dagli spalti. È chiaro che non tutti potranno giocare da titolari ed è anche possibile che uno voglia godersi lo sport senza indossare una canotta; ma perché lo sport funzioni, serve anche una partecipazione attiva e onesta sia degli arbitri che del pubblico; altrimenti la partita degenera in rissa e lo sport in sé perde ogni significato.
E allora ritorniamo al punto di partenza. Discutiamo del latino a scuola, discutiamo di Musk e del suo braccio teso, ma facciamolo prima di tutto ascoltandoci, e non derubricando le idee altrui come un fallo da rigore da negare sempre e comunque. Discutiamone cercando, almeno ogni tanto, di essere come un buon arbitro: uno che mette momentaneamente da parte le proprie preferenze, la propria squadra del cuore, e prova ad essere onesto (e informato) rispetto a quello che ha visto.
Possiamo avere paura di confrontarci con un tifoso, e anzi spesso è meglio evitare di iniziare una discussione con un fanatico; ma non dobbiamo mai avere paura di confrontarci con chi pensa in maniera onesta e cerca di ragionarci sopra.
Facciamo il punto su tutto quello che ho pubblicato questa settimana:
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Gli internati militari italiani (IMI) in Germania: per la Giornata della Memoria, ricordiamo una questione di cui ci siamo spesso dimenticati
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Adam Smith [LibSophia, episodio 7]: il pensiero di Adam Smith, padre del liberalismo, in circa 15 minuti
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L’uomo e la storia per Voltaire (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
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Lo sguardo critico e tollerante di Pierre Bayle (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
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L’India in cerca di autonomia (per il podcast “Dentro alla storia”)
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La Cina dopo la Prima guerra mondiale (per il podcast “Dentro alla storia”)
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i consigli della settimana.
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L’origine delle specie di Charles Darwin: pochi libri hanno avuto un impatto così significativo sulla cultura e sulla scienza occidentali come L’origine delle specie di Darwin. Pubblicato per la prima volta nel 1859, è ancora oggi attualissimo e merita di essere riletto, anche per evitare di cadere in facili fraintendimenti riguardo all’evoluzionismo. Lo si può acquistare qui.
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sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
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C’è poi un ulteriore modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ce n’è uno chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate, passando anche per il Club del Libro e il Simposio. Ulteriori informazioni le trovate qui.
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Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
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È inoltre da poco ufficiale la notizia di un mio nuovo libro. Solo che questa volta io, più che scrivere, ho registrato. DeA Scuola e Garzanti Scuola stanno infatti per far uscire un nuovo manuale di storia per le superiori intitolato La storia in scena, scritto da Giuseppe Patisso, Daniela De Lorentiis e Fausto Ermete Carbone, a cui ho collaborato anch’io per una cospicua parte video. Al grande progetto lavoriamo da molti mesi, ma ormai siamo in dirittura d’arrivo e, se siete docenti, potrete adottarlo se vorrete già dal prossimo anno scolastico. Tra l’altro, oltre a me ci ha messo le mani anche Aldo Cazzullo, ma non mancano anche gli storici di fama internazionale. Io in particolare ho realizzato decine di videoreel che introducono tutti i capitoli dell’opera, e in più ho preparato un ciclo di venti videolezioni specifiche (e inedite) sulla storia delle donne dal Medioevo ai giorni nostri. Ecco intanto la copertina del primo volume, ma nelle prossime settimane vi mostrerò anche altri dettagli:
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Ultima cosa da ricordare: in tutte le librerie è presente il mio nuovo libro, Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva. Il sottotitolo rende piuttosto chiaro di cosa si occupa: Come lo scetticismo filosofico può salvarti la vita nell’epoca della performance. In pratica riprendiamo il pensiero di alcuni grandi filosofia (Socrate, Occam, Montaigne, Hume, Popper e altri ancora) e cerchiamo di trarne degli insegnamenti per vivere meglio oggi, in un mondo in grande cambiamento; e cerchiamo di farlo tramite uno stile non difficile ma stimolante. Il libro è disponibile sia in formato cartaceo che ebook. Ecco qualche link per l’acquisto:
Anche questa settimana siamo giunti in chiusura, e come sempre prima di salutarci provo a prendermi qualche impegno su quello che vi proporrò la settimana prossima sul canale:
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domani cominciamo con uno short, categoria che manca da un po’ di tempo: vorrei parlarvi di un famoso quadro di Velzaquez;
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mercoledì sera farò la diretta mensile riservata agli abbonati, quindi tenetevi liberi;
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giovedì e venerdì torneranno i podcast, con una puntata dedicata a Diderot e una sull’Estremo Oriente negli anni ’20 e ’30 del Novecento;
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sabato sfornerò poi un altro short, incentrato però su Bertrand Russell, visto che il giorno dopo, il 2 febbraio, ricorrerà l’anniversario della sua morte;
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domenica sarà la volta del secondo video su Chomsky, che si focalizzerà sulla sua visione della politica;
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lunedì, infine, vi proporrò il seguito del video Migliorarsi, non vincere che ho pubblicato qualche giorno fa.
E questo è tutto. Ricordatevi il webinar di cui vi parlavo all’inizio, fate girare la newsletter anche tra gli amici e tra chiunque possa appassionarsi a questi temi e ritornate qui, puntuali, tra sette giorni esatti. Ciao!
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