Ricucire relazioni: la giustizia riparativa – [Arci

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Parlare di giustizia riparativa, e del rapporto tra verità, giustizia e democrazia è un dovere morale che controbilancia spinte violente e l’enfasi sulla dimensione della pena. Così Grazia Mannozzi, ordinario di diritto penale e di giustizia riparativa dell’università dell’Insubria di Como ha aperto le sue riflessioni nell’incontro Ricucire relazioni: la giustizia riparativa organizzato il 25 gennaio nella biblioteca dal comune di Moltrasio.

Le decine di atti esecutivi firmati dal presidente Trump nei primi giorni della sua presidenza hanno lasciato in ombra quelli relativi alla sospensione della moratoria sulla pena di morte per i reati federali, sulla spinta a farne maggiore ricorso, in particolare nei confronti di persone immigrate e senza documenti regolari, sulla richiesta di estrema durezza delle condizioni di carcerazione per gli ergastolani. Negli Stati Uniti l’ottavo emendamento della Costituzione stabilisce che l’esecuzione non debba essere “crudele e inusuale”. Negli stati che mantengono in vigore la pena di morte i condannati vivono per lunghi anni, a volte decenni, in attesa dell’esecuzione della sentenza ed è difficile pensare che questa condizione non sia una forma di crudeltà; inoltre, dopo un tempo così lungo le persone hanno avuto modo di trasformarsi ed essere molto diverse da quelle che avevano compiuto il reato.  Nei giorni successivi Trump ha impiegato ufficialmente il termine violento di “deportazione” per le espulsioni di persone migranti irregolari. Ne è stata mostrata l’immagine presa di spalle, senza che se ne vedesse il volto, in fila indiana con le catene ai piedi con una forma arcaica e visibile della minaccia rappresentata da queste persone- non sono più persone, sono solo anonimi e minacciosi criminali- e del ruolo del potere che li incatena e che può infierire su di loro. Pensiamo alla pena di morte e a queste forme come un residuo di un passato lontano; sono state invece forme centrali all’origine dello stato moderno, pronte a riemergere quando il potere vuole mostrare la sua forza sugli uomini, sul loro corpo e sulla loro vita. La centralità della pena non ha limiti, fino a legittimare la stessa negazione della vita e questo avviene nel consenso di buona parte dell’opinione pubblica.  La deumanizzazione è un terreno scivoloso, toglie poco a poco dignità e spinge verso l’indifferenza, la paura, forme sempre più estreme di violenza. Deumanizzare deumanizza anche chi la mette in opera.  Come scrisse Primo Levi, “quando la premessa maggiore è che l’altro è il nemico, la conclusione è Auschwitz” e l’estrema negazione dell’umanità è quanto ci mostra l’esperienza della Shoah che ricordiamo in questi giorni.

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La giustizia riparativa si pone all’opposto di queste visioni e dà una diversa risposta alla domanda di giustizia dove “fare giustizia” non sia una forma di vendetta, affidata allo stato e alla misura stabilita dalla sentenza che si traduce in tempo di detenzione. Pone al suo centro il pieno riconoscimento di quella pari dignità di tutte le persone che costituisce il valore fondante della nostra carta costituzionale.

L’inasprimento delle pene e la moltiplicazione delle fattispecie penali non  incide sul fenomeno criminale (si pensi per esempio al reato di omicidio stradale), vuole dare rassicurazione, mentre esistono altri modi di garantire la sicurezza non limitate al carcere. Non è realmente a favore delle vittime. Il procedimento penale non va incontro ai bisogni delle persone e in particolare delle vittime che non sono accolte, non trovano ascolto se non come testimoni e con il rischio di vittimizzazioni secondarie.  Sono lasciate alla loro solitudine, a emozioni che si irrigidiscono e consolidano in sentimenti legati a quell’evento che ha segnato un prima e un dopo nel racconto della loro vita e della loro identità. La giustizia riparativa, che esce dal solco della pura punizione, si prende cura, ha una funzione clinica, nel senso etimologico della parola del chinarsi su.

La giustizia riparativa non è affatto una giustizia buonista, non è una forma di arbitrato, di negoziazione, di mediazione economica; non è neppure necessariamente una forma di perdono che è una scelta intima, personale, una forma di dono.

L’assetto relazionale è in frantumi dopo il reato, le persone non vengono riconosciute come tali, vengono reificate nel procedimento penale; occorre lavorare sul trauma, sugli aspetti relazionali, superare la vittimizzazione, sulla perdita della fiducia negli altri, in sé stessi. Le forme di protezione e attenzione dei bisogni e dei diritti delle vittime e le forme di mediazione reo-vittima e altri percorsi di giustizia riparativa che coinvolgono anche le persone vicine e la comunità hanno trovato espressione nelle direttive e nelle raccomandazioni europee a partire dalla fine degli anni ’90. Una lunga tradizione culturale caratterizza molti popoli nativi e le loro pratiche attente alle relazioni nella comunità. Hanno ispirato anche l’esperienza della Trc (commissione per la verità e la riconciliazione) che ha permesso al Sudafrica di uscire dalla terribile esperienza dell’Apartheid con la possibilità delle vittime di raccontare pubblicamente le loro sofferenze e a chi aveva commesso i reati di riconoscerne la responsabilità. Attualmente la riforma del diritto penale, la cosiddetta riforma Cartabia definisce e riconosce pienamente la giustizia riparativa in ogni fase del procedimento e stabilisce il ruolo dei mediatori e la loro rigorosa formazione.

La fase attuativa della legge è di fatto ancora in itinere ma, come sottolinea Maria Luisa  Logatto sulla base della sua esperienza di magistrato, le pratiche di giustizia riparativa hanno molto seminato e dato stimoli, aperto orizzonti nella crisi di identità del giudice rispetto al suo ruolo e al senso della sua azione. In un sistema carcerocentrico e in un contesto economico-sociale che riduce le garanzie del welfare state è difficile riconoscere i diritti, la pari dignità, le forme di eguaglianza, senza ridurre il sistema penale a una mera funzione di legittimazione e mantenimento dell’ordine sociale e delle sue gerarchie. Il carcere dovrebbe mantenere una funzione residuale, applicando misure sostitutive che già la normativa rende possibile. La funzione rieducativa e risocializzante prevista dalla Costituzione non è soddisfatta da forme che isolano e limitano le relazioni sociali, che ritengono di guarire il male attraverso il male.

Il sistema penale è tutto rivolto al passato, non si occupa di quello che sarà, di sanare quello che è stato traumatizzato; le forme di cura e guarigione  e la giustizia riparativa sono invece volte al futuro, a ricucire le lacerazioni nel tessuto sociale, nelle relazioni umane, nell’identità delle persone a seguito di azioni negative che ci fanno provare un senso di ingiustizia, anche quando non assumono la forma di reato penale. Chi ha causato l’offesa può essere stigmatizzato per questo ed essere poi ridotto in modo immutabile alla negatività delle azioni commesse. Pensiamo per esempio all’etichettamento di “bullo” apposto a un ragazzo a cui si rimanda solo questa dimensione, consolidandola come elemento caratterizzante della sua identità. L’identità non è una sostanza fissa, è un racconto che nasce dalla riflessione su di sé, ma non come impresa solitaria; è sempre legata all’interazione con gli altri. In Italia la mediazione e la giustizia riparativa si sono sviluppate in particolare con il tribunale per i minori. Come racconta Claudio Fontana nella sua esperienza di mediatore, la lettura dei fascicoli di minorenni autori di reato crea aspettative fortemente negative molto diverse dalla realtà dei ragazzi quando li si incontra, dopo qualche tempo, timorosi di non poter uscire dall’ombra di quanto avvenuto, vogliosi di dimostrare che sono cambiati. Nella giustizia riparativa il reato non viene affatto minimizzato e sminuito e permane in tutta la sua gravità. La persona però non è mai riducibile alle sue azioni negative, ha sempre aspetti più vasti e possibilità di trasformazione e questo, ancora più evidente nelle fasi dell’adolescenza, è sempre possibile.

La responsabilità come imputabilità è riferita semplicemente a un articolo del codice; può essere intesa invece come responsabilizzazione verso la sofferenza di una persona concreta, guardandola in volto. Una cosa molto diversa da una lettera di scuse o da parole generiche. Per questo avviarsi a un percorso di giustizia riparativa richiede molto coraggio, sia da parte degli autori delle offese, sia da parte di coloro che le hanno subite. Molto delicate sono le fasi preliminari che precedono gli incontri perché possano avvenire in uno spazio protetto di parola e di ascolto reciproco, riconoscendo quanto commesso, da un lato,e sapendo, d’altro lato,di poter manifestare la sofferenza subita, vederla accolta e riconosciuta. La delicatezza e le cautele nelle fasi preliminari sono ancora maggiori nei casi di vittime particolarmente vulnerabili, in situazioni particolari come nel caso di violenze di genere. In alcuni casi può essere opportuno ricorrere a “vittime surrogate”, cioè far incontrare persone che hanno vissuto esperienze simili e non direttamente le persone coinvolte.

La giustizia riparativa ha un carattere di confidenzialità e di volontarietà, di libertà nell’accedervi, ma anche libertà di interromperne il percorso in ogni momento. È un percorso che ha i suoi tempi, che non è definibile in modo standard, ha esiti non prevedibili e non predeterminati e l’abilità dei mediatori, che agiscono in équipe, consiste proprio in un ascolto attivo ed empatico che muova le persone coinvolte verso la riconquista di autonomia e libertà secondo modalità e strade loro proprie.

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Le azioni riparative non sono da intendere come risarcimento economico,anzi può essere umiliante monetizzare la sofferenza per una perdita irreparabile, e non devono avere carattere afflittivo, cosa che reintrodurrebbe la dimensione della pena in altra forma. Hanno un grande valore simbolico. Possono essere a vantaggio della persona offesa, ma più in generale avere un valore sociale. Sono importanti anche per la persona che le svolge che  prende così consapevolezza della sua capacità di svolgere un’azione socialmente positiva e di vederla riconosciuta.

Un ruolo fondamentale riguarda la formazione degli operatori e, in particolare,dei mediatori; nel curriculum di studi universitari di discipline giuridiche e non solo, è importante un corso specifico sulla giustizia riparativa, come in modo pionieristico ha fatto l’università di Como. È importante poi che, in modo coerente, tutte le persone coinvolte a vario titolo abbiano un approccio ripartivo; in modo più ampio  solo un’informazione diffusa a livello sociale renderà possibile l’accoglimento della giustizia riparativa come risposta al bisogno di giustizia, in modo complementare al sistema penale.

I conflitti fanno parte della normalità delle relazioni e delle diversità personali, ma possono degenerare. Le situazioni conflittuali, i non detti che scavano in modo sotterraneo, avvelenano l’aria in ogni contesto sociale e lavorativo; comportano un vissuto pesante, anche quando non hanno rilevanza penale. Per questo prima di dover ricucire le relazioni sociali lacerate è importante in modo preventivo curare gli stili relazionali, praticare l’ascolto e attivare l’empatia. In questo la scuola può svolgere un ruolo fondamentale, educare alla normalità di condividere e affrontare insieme le situazioni emotive difficili.  [Claudio Fontana, ecoinformazioni]



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