I “riformisti” del PD, sia nella modalità ex-migliorista/comunista, sia in quella catto/degasperiana/scoppoliana – che la dossettiana Rosy Bindi chiama “Orvietani”, quasi si trattasse di una setta di eresiarchi – sia in quella catto/dossettiana – “i prodiani” di Castagnetti e di Ruffini – da qualche tempo scavano cunicoli sotto il prato verdeggiante di Elly Schlein.
“Ben scavato vecchie talpe!”, osserverebbe compiaciuto il vecchio Marx. Ma il terreno continua ad essere solido.
Per un verso, i riformisti “moderni”, per dirla con il leader degli ex-miglioristi Enrico Morando, continuano a constatare che il PD in formato Schlein è il deposito più grosso che c’è a sinistra.
E perciò, se si è fedeli ad una vocazione bipolare-maggioritaria, è lì che bisogna stare. Ma poi ciascuno di loro deve anche constatare ogni giorno di essere solo una “vox clamantis” nel deserto, nel quale sono costretti a cibarsi di locuste e nel quale nessuno ha voglia di andare a farsi battezzare.
Produrre cultura politica e idee
Resta loro un’unica chance: produrre cultura politica e idee per il governo del Paese. Lo hanno fatto in questi anni e continuano brillantemente a farlo. Ma lo stallo dell’impotenza è evidente. Nel PD contano zero. Perché l’invaso-PD non ha un estuario di governo, è una grande palude.
Ma gli Orvietani sono prigionieri politici per scelta. Eppure, se, come ha ribadito Paolo Gentiloni, “Extra Ecclesiam nulla salus”, ma, contemporaneamente, il Pd è dichiarato inadatto a costruire uno schieramento di governo alternativo all’attuale governo di destra-centro, vuol dire che nel PD non c’è nessuna “salus” – solo qualche posticino, ma non per tutti – e che la strategia politica dei riformisti “interni” è paralizzata.
Così, l’ultima risorsa è rimasta la ricerca ricorrente e fallimentare del “federatore” o del “Veltro” dantesco, che riesca a rimettere insieme “il vulgo disperso” dei riformisti, che di nomi ne hanno anche troppi, e a mettere in minoranza i moderni massimalisti.
Altra visione, più terra terra, quella dei prodiani. Che hanno sostenuto e sostengono la Schlein. Si sentono, però, ai margini e rivendicano spazi di rappresentanza del mondo cattolico.
Il quale, tuttavia, si rappresenta ormai benissimo da sé. Se il Card. Ruini faceva valere presso i governi le istanze del mondo cattolico senza più la Dc, il Card. Zuppi lo fa senza passare dai cattolici del PD.
Le correnti politico-culturali del PD
Il PD nacque ufficialmente il 14 ottobre 2007 dalla fusione dei Democratici di Sinistra e della Margherita. Dentro il “nuovo” partito erano confluiti svariati filoni di culture politiche. Per quanto riguarda il cattolicesimo politico, almeno quattro: la corrente cristiano-sociale di Ermanno Gorrieri e di Pierre Carniti, che aveva già aderito ai DS nel 1998; quella dossettiana; quella popolare-morotea di Martinazzoli; quella degasperiano-scoppoliana-fucina.
Da sinistra, il PCI-PDS-DS portava in dote il ventaglio delle sue correnti storiche: una spruzzata di ingraismo, che si era però condensato soprattutto in Rifondazione comunista, un’area migliorista, articolata in socialdemocratici e social-liberali, un correntone berlingueriano, dai toni fortemente etico-giustizialisti, prima rivolti contro Craxi, poi contro Berlusconi.
Il by-passaggio del socialismo di Craxi
Perché il PD non riesce ancora oggi a diventare sinistra di governo? Al suo atto di nascita sta un peccato originale, da cui nessuno lo ha mai più redento.
È rimasto berlingueriano “dentro”, per la parte di sinistra di quell’amalgama mal riuscito.
Quando Achille Occhetto passò dal XVIII Congresso – 18/22 Marzo 1989 – nel quale ancora si fantasticava di un nuovo corso del PCI, sull’onda del gorbaciovismo, al XIX Congresso – 7/11 marzo 1990 – allorchè il PCI precipitò in una “Cosa” con un nome e un simbolo provvisori, fu là che non avvenne nessuna metamorfosi.
Si trattò di un “by-passaggio”, mediante salto mortale da “comunista” a “democratico”: la tappa “socialista” fu, appunto, by-passata. “Socialista” all’epoca voleva dire Craxi.
Si trattava di un socialismo matteottiano e turatiano, di una sinistra di governo, attenta alla base sociale operaia e popolare, sensibile al cambiamento istituzionale – la Grande riforma – disponibile a riforme di un socialismo che oggi definiremmo “liberale”: “meriti e bisogni”, anche Martelli è restio ad accettare quell’aggettivo.
“Il merito” integrava un quid di liberale individualista nel tradizionale discorso egualitario e welfarista della sinistra comunista e socialista. Il PSI di Craxi era la sinistra italo-europea, unica contemporanea del proprio tempo.
Il PCI non si presentò a quell’appuntamento con la Storia, che fu mancato per sempre, per responsabilità degli stanchi epigoni di Berlinguer.
I miglioristi di Giorgio Napolitano, non certo famoso per il coraggio, non osarono fare il grande passo verso Craxi.
Così, la parola “democratico” si è venuta via via riempiendo degli umori mutevoli delle mode del tempo che passa: giustizialismo, girotondismo, grillismo, wokismo, correttismo, identitarismo…
Nel 2008 Elly Schlein è andata alla corte di Obama per apprendere il peggio del Partito democratico americano. È riuscita ad importarlo.
E così oggi capita alla sinistra di avere a che fare con un tempo pericolosamente post-liberale, senza essere mai stata né socialista né liberale.
Occorre riconoscere che il nuovo mix di cultura politica, timbrata Schlein, ha avuto fortuna, non tanto presso la cinica nomenklatura senza fede del PD, ma tra gli iscritti: ha pescato a strascico ogni possibile umore, da un redivivo antifascismo militante all’apertura all’immigrazione totale, all’alleanza cieca, “stile Mani pulite”, con le toghe, al rifiuto di ogni riforma istituzionale, alla difesa di un regionalismo fallimentare, all’opposizione ad ogni cambiamento nella scuola, all’alleanza con il massimalismo cieco di Landini, all’affermazione di ogni possibile diritto, all’oscillazione tra Israele e Hamas, al pacifismo di piazza…
Per scomporre un tale aggregato cementato di luoghi comuni servirebbe una battaglia culturale e politica rigorosa.
C’è quella culturale, manca quella politico-partitica: le strutture di base e le regole democratiche del partito e dei partiti sono evaporate. Non manca affatto il pluralismo. Tutti sono liberi di dire tutto.
Ma la stretta personalistica è ferrea, tutta giocata tra leader e iscritti, via mass-media e social-media. È la democrazia di X, fortemente criticata, ma entusiasticamente praticata. Così il blocco politico-ideologico è diventato inscalfibile.
Se i riformisti dell’Ecclesia sono impotenti, non stanno meglio quelli che hanno cercato la salvezza fuori. Fino ad ora i tentativi extra-Ecclesiam non hanno avuto esiti brillanti. Da parte delle sigle esterne – da Azione a Orizzonti liberali – non è mancato il coraggio politico di scendere sul terreno con gli scarponi.
La domanda “liberal-riformista” emerge, pare mancare l’offerta. Non solo di contenuti, ma, anche qui, di ambiti e strutture di dibattito democratiche. La costruzione del discorso non è separabile da quella dei luoghi condivisi della sua elaborazione.
L’irruzione della comunicazione social ha reso più difficile di ieri il processo di formazione collettiva della volontà politica, riducendolo a consultazione referendaria sui quesiti proposti dal leader, cui si risponde con un tweet individuale. Occorrono, appunto, gli scarponi. Chi ha voglia di calzarli?
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