In misura e con modalità differenti, tutti i Paesi retti da regimi liberaldemocratici sono oggi in difficoltà. La democrazia liberale è il frutto di una storia secolare e sino a oggi non sono state trovate alternative altrettanto rispettose dei principi di libertà ed eguaglianza che sono propri della sinistra riformista e della destra conservatrice. Di fronte alle difficoltà presenti si pongono allora due interrogativi: a) quale strategia seguire nella situazione internazionale ed europea in cui ci troviamo, e soprattutto nelle condizioni istituzionali, economiche e sociali nelle quali si trova il nostro Paese? b) È ancora perseguibile oggi un ideale liberaldemocratico come lo è stato per i principali Paesi sviluppati nel lungo dopoguerra, almeno sino alla Grande Recessione del 2007/2008? A questi interrogativi cerca di rispondere una letteratura che cresce esponenzialmente. Senza entrare nel merito, la mia personale risposta è che dovremmo rispondere “come se” una riformulazione dell’ideale liberaldemocratico adatta all’attuale fase storica fosse possibile. E di conseguenza auspicabile.
In questi anni ci troviamo in una situazione di cambiamento intenso, in una svolta storica, nella quale dobbiamo ridefinire le nostre concezioni di destra e sinistra. Dobbiamo allora impegnarci in uno sforzo diretto a giustificare, rendere credibile e condiviso un orientamento riformistico liberaldemocratico. E, in secondo luogo, dobbiamo favorire rapporti di dialogo e cooperazione con forze collocate in un campo ideologico diverso da quello che condividiamo, ma vicine a una concezione politica liberaldemocratica. Questo è indispensabile sia nella politica internazionale del nostro Paese, sia in quella interna. Nella prima affinché la posizione e il ruolo dell’Italia siano messi al riparo da variazioni repentine e ingiustificate, provocate dal passaggio del governo dalla sinistra alla destra (…e viceversa, ovviamente). Nella seconda – nelle politiche istituzionali ed economico-sociali – affinché si possano identificare, al di sotto delle inevitabili differenze politico-ideologiche, costanti programmatiche dovute al regime liberaldemocratico a cui i partiti dovrebbero attenersi. Sono queste costanti, e la cooperazione, i compromessi e il mutuo rispetto che esse assicurano, a garantire la coerenza e l’efficacia nel lungo periodo delle riforme che vengono adottate. E di conseguenza stabilità politica e prosperità economica. Questo è quanto ci invita ostinatamente a fare il presidente della Repubblica, ed è quello che ha fatto nel rispetto pieno della Costituzione vigente in un momento di particolare emergenza.
Il presidente sa però assai bene che occasioni di “interventi dall’alto”, “dal Colle”, permessi dalle sue attuali prerogative costituzionali, potrebbero non presentarsi più in futuro e, anche se si ripresentassero, ha dovuto costatare che possono essere facilmente frustrati se parti importanti del ceto politico non sono convinte che ne trarrebbero un vantaggio per il proprio partito. Quello che in realtà il nostro capo dello Stato auspica, e prima di lui avevano auspicato sia Ciampi sia Napolitano, è la diffusione di un cemento di solidarietà nazionale più tenace di quello oggi prevalente. E questo è possibile solo se, “dal basso” – dalla società e dai partiti che ne esprimono l’indirizzo politico – emergono la domanda e l’offerta di un rigoroso indirizzo politico liberaldemocratico. Difficile, ovviamente; ma non si tratta di una visione irenica o impolitica. Non si tratta dei commoventi appelli alla pace di papa Francesco. Si tratta di una visione coraggiosa e molto politica, alimentata dalla convinzione che è proprio questa visione quella richiesta da una parte crescente dei cittadini. E di cui il Paese ha bisogno.
Quello che il nostro capo dello Stato auspica, e prima di lui avevano auspicato sia Ciampi sia Napolitano, è la diffusione di un cemento di solidarietà nazionale più tenace di quello oggi prevalente
I partiti sono però associazioni il cui scopo primario è quello di massimizzare i consensi elettorali che ricevono, e questo fanno con tutti e mezzi consentiti dalla legge, inclusi messaggi elettorali irrealistici e demagogici. Contro demagogia e ignoranza non ci sono rimedi legali. Ma rimedi legali non sono necessari: sono infatti possibili difese di un programma liberaldemocratico orientato a destra o a sinistra, in direzione conservatrice o progressista, senza ricorrere a promesse irrealizzabili, estremistiche o demagogiche. Nell’esperienza dei Paesi sviluppati dell’Occidente ciò è avvenuto per decenni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Potrebbe avvenire ancora. Ed è possibile criticare in modo efficace le misure di un governo, di destra o di sinistra, ricorrendo non a demagogia o estremismo ma ad argomenti razionali e alle migliori conoscenze delle scienze economiche e sociali. È quello che sta facendo, criticando il governo Meloni, Marco Leonardi nei suoi interventi sul “Foglio”, spesso molto duri ma sempre argomentati razionalmente, alla luce delle migliori conoscenze economiche oggi disponibili. E lo sta facendo, sul piano macroeconomico, anche un altro ottimo economista, Mario Baldassarri, certamente non vicino agli orientamenti politici della sinistra. Lo stesso avviene anche al di fuori dell’economia. In campo istituzionale, menziono solo la civile discussione bipartisan sulla riforma costituzionale del premierato promossa dalla Fondazione Magna Carta e dalle Associazioni Io Cambio, Libertà Eguale, Riformismo e Libertà. Diverse le ispirazioni politico-ideologiche, comune la competenza scientifica e l’orientamento liberaldemocratico.
Razionalità e buone conoscenze storiche e scientifiche sono indispensabili, ma ben lontane dal fornire risposte esaurienti ai dilemmi che la politica propone e a soddisfare le domande che un regime liberaldemocratico solleva nelle sue imprevedibili e spesso impopolari evoluzioni. Una classe politica adeguata, progressista o conservatrice che sia, inevitabilmente opera negli enormi spazi di incertezza che scienza e razionalità lasciano scoperti. E, quando attua interventi di riforma, inevitabilmente deve ricorrere a orientamenti ideologici generali: è per queste ragioni che i politici sono costretti a ricadere nelle categorie di destra e sinistra che la storia delle liberaldemocrazie in Paesi capitalistici avanzati ha prodotto.
Molti credono, sia in campo progressista sia in campo conservatore, che una politica realistica di riforme adeguate al nostro Paese non potrà mai essere attuata finché sarà prevalente una divisione dello spettro politico tra destra e sinistra: è questa la credenza che alimenta il confuso dibattito sul centrismo che imperversa nei giornali. Limitandoci al Dopoguerra e fino alla grande crisi economico-finanziaria del 2007/2008 – più di sessant’anni, dunque – la storia dimostra che questa credenza non è sostenibile: si sono realizzate riforme straordinarie che hanno accresciuto enormemente il benessere economico, le chance di vita, le libertà delle popolazioni che hanno avuto la fortuna di vivere in Paesi capitalistici avanzati e in regimi liberaldemocratici. E questo è avvenuto in un contesto politico in cui la dialettica tra destra e sinistra è sempre stata centrale. È solo se si adotta una concezione di destra e sinistra inadeguata alla fase storica e alla situazione concreta del Paese che la dicotomia che ha caratterizzato il sistema politico delle liberaldemocrazie nel corso del Moderno può rivelarsi inutile o dannosa.
È dannoso illudersi che i partiti che rifiutino di schierarsi a destra o a sinistra possano soddisfare la domanda di moderazione, di coesione sociale, di solidarietà nazionale che confusamente percepiscono essere presente nelle società moderne
Ma è forse ancor più dannoso pretendere di farne a meno, illudersi che i partiti che rifiutino di schierarsi a destra o a sinistra possano soddisfare la domanda di moderazione, di coesione sociale, di solidarietà nazionale che confusamente percepiscono essere presente nelle società moderne. La domanda alla quale i grandi, ultimi presidenti della Repubblica hanno dato voce in Italia. Questa domanda può essere assai meglio soddisfatta se fatta propria dagli stessi partiti di destra e sinistra. Nulla impedisce una interpretazione di quella dicotomia che incorpori l’esigenza di solidarietà nazionale e di moderazione del conflitto politico. E avrebbe il vantaggio di ricordare sempre il principale motivo per cui è così difficile tenere insieme – specie in una fase di intense trasformazioni tecnologiche e sociali – due esigenze che vanno necessariamente contemperate in un regime politico liberaldemocratico: libertà d’impresa e condizioni di vita soddisfacenti per la grande maggioranza dei cittadini. Destra e sinistra sono i due orientamenti politici che sono nati in risposta a questo permanente problema del capitalismo e hanno consentito, nella seconda metà del secolo scorso, il difficile compromesso della liberaldemocrazia.
Una interpretazione sfrenata della libertà d’impresa, così come una negazione della sua necessità al fine di consentire libertà politica e di stimolare innovazione e crescita economica, sono entrambe nemiche del compromesso sociale da cui è nata, nel campo ideologico della sinistra, la socialdemocrazia, alla quale si sono poi avvicinate correnti liberali e cristiano-democratiche. E da cui sono nate, nel campo conservatore, le correnti “liberal” e democratiche di una concezione liberale in precedenza ostile a una democrazia rappresentativa. Ostilità che è riemersa con forza nelle recenti elezioni presidenziali americane. Ma il vero nemico della liberaldemocrazia è oggi il tentativo di sfuggire ai problemi che insorgono in un contesto di globalizzazione adottando una politica di chiusura nazionalistica all’interno dei confini degli stati esistenti: i costi e soprattutto i rischi di conflitto sono assai superiori ai vantaggi. E la necessità di dare un compimento al grande disegno di una vera Unione Europea trova in questo obiettivo la sua principale motivazione.
[Le principali giustificazioni di un indirizzo politico presentato così apoditticamente si trovano nel mio articolo pubblicato sul “Foglio” il 29 luglio scorso (Contro il Bi-Populismo). Una giustificazione più distesa si trova nel libro Liberalismo inclusivo (Feltrinelli, 2021), che ho scritto insieme a Norberto Dilmore, e nell’ampia letteratura ivi citata. La mia recensione al recente libro di Michael Walzer (Che cosa significa essere liberale, in Democrazia e riforme, in Scritti in onore di Sergio Fabbrini, Luiss, 2024) cerca di chiarire quanto penso in tema di liberalismo e democrazia. La relazione originaria da cui è tratto questo testo è stata presentata al Convegno di LibertàEguale tenutosi il 18 e 19 gennaio 2025 a Orvieto.]
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