Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Ogni cinque omicidi nella provincia di Palermo, due sono commessi a Corleone.
Ci sono statistiche quasi infallibili. Talvolta accade che per qualche mese Corleone sia stravolta da una furia assassina e che i crimini vadano oltre la media, sette, otto in una stagione, ma nel periodo successivo la furia improvvisamente si placa, sembra che gli odi si acquietino, la loro stessa ferocia li abbia stancati.
Due, tre omicidi, soltanto, e si ritorna in media. Oppure viceversa accade che, per qualche settimana, questo tragico fenomeno svanisca in una sorta di torpore immobile quasi gli assassini non siano ancora convinti delle loro ragioni ed esitino a scegliere le vittime.
E d’un tratto ci si rende conto di essere rimasti indietro nella media, bisogna far presto a recuperare, gli odi si sono accumulati e fatti insopportabili oramai, gli equilibri si cominciano a spezzare, ed è la strage! Ecco finalmente siamo venuti a Corleone! Vogliamo capire perché, in questo piccolo paese, la gente si uccida più che in qualsiasi altro luogo della Sicilia.
Un paese che non è diverso da qualsiasi altro dell’isola, le case della povera gente, i palazzi dei benestanti, le agenzie delle banche, due o tre belle chiese, la campagna tutt’intorno, le vallate con gli ulivi ed i vigneti, qualche mandria lungo il rivo d’acqua, qualche giardino d’aranci. Potrebbe essere Palagonia, o Petralia Sottana, o Scicli.
Eppure qui, in proporzione al numero degli abitanti la gente si uccide più che in qualsiasi altra parte d’Italia. Qui nacque Luciano Liggio, da una famiglia di piccoli contadini, crebbe nelle campagne portando le bestie all’abbeverata, mietendo il grano, governando l’aratro, caricando pietre per costruire i muri. Aveva solo la terza elementare, era piccolo, gracile, pallidissimo, zoppicante per una malformazione alla schiena, mentre scriviamo ci pare di descrivere l’infanzia di F. Delano Roosevelt…
In un verbale della commissione antimafia un altissimo personaggio, rispondendo ad una domanda diretta del presidente Cattanei, dettò al cancelliere testualmente: «Credo che Luciano Liggio sia l’autorità più alta della mafia. Può fare quello che vuole perché è il più potente. Io credo che sia uno dei personaggi più potenti di tutta la nazione!»
Per capire Corleone, anzi per capire molte sconosciute tragedie siciliane, io credo che bisogni anzitutto intendere bene la causa estrema e fondamentale della mafia, cioè la miseria, che significa anche ignoranza, disperazione, mancanza di lavoro, di servizi pubblici, scuole, ospedali, acqua, fogne, cioè una condizione inumana della vita per la quale tutte le cose infinitesimali dell’esistenza che in un altro luogo della terra non hanno praticamente valore, diventano fatti essenziali per la sopravvivenza. E per essi si può uccidere un uomo.
La prima proposizione dunque è questa: la disponibilità di un uomo ad uccidere un altro uomo per sopravvivere. Poi viene tutto il resto, la prepotenza, l’avidità, l’accumulo della ricchezza, l’assalto a cose sempre più immense, la complicità del potere politico, la corruzione del potere amministrativo. Ma alla base di tutto bisogna che ci sia, dapprincipio, un uomo disposto ad uccidere per un prezzo vile che a lui però consente di sopravvivere.
I grandi mafiosi che hanno dominato trent’anni di vita siciliana non hanno mai ucciso un uomo con le loro mani. Ordinavano, pagavano, controllavano che la sentenza fosse eseguita bene, premiavano i più fedeli e implacabili.
Per capire Corleone, e la genesi della tragedia mafiosa, bisogna anche capire bene come, da questo luogo così lontano da ogni grande interesse civile, industriale e politico, così distaccato da tutto, così remoto da apparire solo fantastico e quasi inesistente, possa venire avanti nella storia criminale del dopoguerra, e quindi anche nella storia politica italiana, un personaggio come Luciano Liggio.
Egli era nato in un luogo della terra dove vivere è stato sempre difficile, sopravvivere una speranza, una lotta continua e feroce. Era miserabile, sapeva appena leggere e scrivere, era malato e quindi non aveva nemmeno la capacità di emigrare, andare a spaccare pietre nel Venezuela, scavare carbone nel Belgio, tagliare le canne da zucchero in Australia.
Non aveva nemmeno il titolo di studio per diventare bidello o usciere. E perché comunque avrebbero dovuto dare un posto a lui che non era nessuno? Si racconta che la storia di Luciano Liggio cominci il giorno in cui cinque campieri decisero di comperare un feudo. Poiché il proprietario non voleva vendere, erano accadute cose strane e violente, il raccolto era andato in fiamme, gli alberi di un agrumeto erano stati abbattuti nottetempo a colpi d’ascia, i garretti di una mandria recisi a roncolate, i cani avvelenati.
I campieri avevano detto alla famiglia dei proprietari: «Questo feudo che vi rende? Vendetecelo!» Avevano proposto un prezzo miserabile che era stato però subito accettato.
Il giorno prima che si andasse dal notaio, uno dei cinque campieri, mentre cavalcava lungo un podere era stato abbattuto da due fucilate alle spalle e il cavallo aveva trascinato il cadavere fino al paese. L’indomani allo studio del notaio si presentò un giovane, piccolino, vestito educatamente di nero, gli occhi neri e lucenti, i capelli ben pettinati e un sorriso triste. Annunciò «Prendo io il posto del defunto!»
Gli altri stettero a guardarlo in silenzio per un minuto, la famiglia dei venditori, gli altri quattro campieri superstiti, forse anche il notaio, e lui sorridente, con quel sorriso gentile. Poiché nessuno parlava, sedette compostamente in fila con gli altri e mormorò: «Possiamo cominciare!» Era Luciano Liggio.
Da allora cominciò la conquista del potere, una storia davvero fantastica, poiché tutto comincia da Corleone, che è sperduta in mezzo alle montagne del palermitano ed ha come protagonista un piccolo contadino, il quale non sapeva scrivere ma aveva una intelligenza demoniaca, non aveva forza fisica ma possedeva una crudeltà senza pari, non aveva alleati potenti ma aveva saputo reclutare killer implacabili, non sapeva fare niente ma sapeva infallibilmente capire chi doveva essere ucciso e, al momento giusto, farlo infallibilmente uccidere.
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