Sarebbe un posto ideale dove sbarcare in Europa per prossimità alle coste africane e capacità di accoglienza, data la presenza di numerosi centri sull’isola. Eppure Malta, grazie anche a un politica migratoria molto più rigida di quella italiana, negli ultimi anni ha cessato di essere (a differenza della vicina ma più piccola Lampedusa), un hub di primo approdo dei migranti in fuga.
I numeri lo certificano: per la prima volta nel 2023 il numero dei rimpatri ha superato quello degli arrivi che, nei primi nove mesi del 2024, si sono fermati a quota 238. Erano 2204 nel 2013, quando la fase di instabilità libica innescata dalla guerra civile che avrebbe portato due anni prima alla deposizione e poi all’uccisione del raìs Mu’ammar Gheddafi, era al suo culmine. Un record assoluto, ma anche l’inizio di una progressiva frenata, frutto di una politica fortemente voluta anche dal governo laburista oggi in carica che, scoraggiando la migrazione economica, sta dando i suoi frutti, diventando un modello a cui tendere anche per altri paesi europei.
Politica migratoria a doppio binario, a Malta
A Malta, infatti, l’accoglienza, il cui sistema è fortemente centralizzato, si sviluppa su un doppio binario: quello dei «centri di accoglienza aperti», gestiti dal governo maltese e riservati ai soli rifugiati e quello dei centri di «detenzione preventiva», sorvegliati dall’esercito e riservati ai richiedenti provenienti dai cosiddetti paesi sicuri.
La differenza tra le due tipologie di accoglienza è enorme. I primi, infatti, hanno facoltà di sviluppare proposte di welfare per i richiedenti e programmi di integrazione e assistenza sanitaria speciale per le persone vulnerabili. I secondi, invece, si limitano a garantire lo stretto necessario per la sopravvivenza. Dodici mesi di permanenza obbligatoria elevabili a un massimo di diciotto in container (o tendopoli) cinti da filo spinato, cameroni da sei con letti a castello al loro interno. Ma anche, sul fronte giuridico, procedure velocizzate per la domanda di asilo.
Insomma, chi ha diritto di restare, resta. Chi non ha diritto, viene espulso. E in tempi rapidissimi. Risultato: coloro che provengono da un paese nella lista dei paesi sicuri, preferiscono virare verso altri lidi, Italia in primis che, grazie a una legislazione più compiacente, non a caso, nel 2024 ha fatto registrare il record di migranti provenienti da due «paesi sicuri» come Egitto e Tunisia.
Ragion per cui il governo Meloni, pur a costo di uno scontro frontale con la magistratura, sta provando a seguire l’esempio maltese, delocalizzando in Albania la gestione di due centri per il trattenimento (a Shengjin e a Gjader) riservati solo alla categoria dei richiedenti provenienti da «paesi sicuri», in modo da scoraggiarne l’arrivo e provare a tenere le redini di un flusso fin qui incontrollabile.
Le politiche sui rimpatri sono state adottate in molti paesi Ue guidati da forze non di destra
Quel che sorprende, però, è che mentre in Italia la novità «albanese» viene assunta dai critici come evidenza della natura xenofoba dell’estrema destra al governo, molti altri governi, di colore opposto al centro-destra targato Meloni, in Europa hanno già fatto lo stesso.
Prendiamo ad esempio la Danimarca: al potere dal 2019 dopo aver avvicendato la Venstre (i liberali di sinistra) la coalizione social-democratica vara cinque decreti governativi che mirano a stringere le maglie dell’immigrazione e salvaguardare la tenuta del welfare locale, considerato tra i più efficienti al mondo.
Il governo stabilisce, primo in Europa, che la Siria rientra tra i paesi sicuri per evitare la massiccia immissione di rifugiati in fuga dalla guerra civile, poi cancella i corsi di inglese dai servizi di accoglienza. Infine, dopo aver bloccato la possibilità di impiego per i richiedenti in attesa, per sveltire le procedure delle domande di asilo, apre alla possibilità di fare le audizioni da remoto, con grande risparmio per le casse dello Stato e velocizzazione del turn-over nei centri.
E che dire della vicina Svezia? Il record di 160mila arrivi fatto registrare nel 2015 (in carica c’era il governo social-democratico) è ormai un ricordo lontano. Social-democratici prima e moderati oggi (con il governo Kristersson), hanno attuato una politica migratoria restrittiva che ha portato nel 2023 a una drastica riduzione delle presenze migranti, scese a 50mila350. Il paese, prima considerato una «superpotenza umanitaria», ha fatto i conti con la realtà e a causa della sempre più difficile integrazione dei nuovi arrivati, ha deciso di cambiare approccio. Prima chiudendo del tutto alla possibilità dei ricongiungimenti famigliari per i rifugiati, poi aumentando fino a 30mila euro le sovvenzioni per chi decide di rientrare nel paese d’origine.
Morale: in mezza Europa è in atto un cambio di paradigma rispetto alle politiche migratorie, che ha messo a nudo i limiti di un’accoglienza a briglie sciolte sempre più lontana dall’illusione del cosmopolitismo felice. Prenderne atto, fuori dall’Italia, non è considerata questione né di destra, né di tanto meno di presunte derive fasciste. Piuttosto, di sano realismo politico.
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