Intorno a Mediobanca emerge un rapporto personale reciproco, diretto, di condivisione di una visione politica e di interessi tra un gruppo di potenti imprenditori e il governo, in contrasto con altri nobili e potenti attori dell’economia. Un gioco di corte tra pari, si potrebbe dire
Roberto Seghetti
La cerimonia del giuramento, il 20 gennaio, ha mostrato plasticamente in mondovisione che il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha una corte formata dai principali proprietari di imprese private innovative dal punto di vista tecnologico, in aperta concorrenza tra loro: da Elon Musk (Testa, Space X, Starlink, X) a Jeff Bezos (Amazon), da Sam Altman (Opern AI) a Larry Ellison (Oracle) e Mark Zuckerberg (Meta, cioè Facebook, Instagram…).
Loro sostengono il nuovo monarca americano, perché hanno capito con chiarezza che, se non lo fanno, rischiano di subire seri danni ai propri interessi (vedi la spada di Damocle dell’Antitrust sulla testa di Google) e sperano invece che la bilancia pesi a favore.
Trump ricambia garantendo i loro affari, per esempio lottando contro le regole e i limiti imposti all’intelligenza artificiale dall’Unione europea, ma li gioca anche l’uno in concorrenza con l’altro.
Non è diverso da ciò che accade da diversi anni in Russia, sia pure su altri settori strategici. Alcuni tra i principali oligarchi russi del settore petrolifero e bancario sono i principali puntelli del potere di Vladimir Putin, come Vladimir Potanin (Rosbank), Vagit Alekperov (Lukoil, la più importante impresa petrolifera privata del Paese) o Gennady Timchenko (Novatek nel settore gas e Sibur Holding in quello petrolchimico).
Anche in questo caso, loro sostengono Putin ben sapendo che chi lo contrasta non gode di buona salute. Lui li controlla e a sua volta li protegge e ne garantisce gli affari.
Anche in Cina vale la stessa regola. Da tempo. Zhang Yimin, nume tutelare di ByteDance, proprietaria di Tik Tok, o Pony Ma (Tencent) sono alla corte del presidente cinese Xi Jinping. Loro sostengono il segretario del partito comunista, capo dell’esercito e dello Stato.
L’esempio di quel che è accaduto a Jack Ma, di Alibaba, li ha convinti a non cercare di sovrastare il leader assoluto con la propria ricchezza. E lui ne sostiene gli affari, tenendoli però sotto controllo.
Può sembrare una suggestione nata dalla quantità incredibile di potenti miliardari delle tecnologie che hanno assistito al giuramento di Trump.
Invece, a ben guardare, sembra proprio l’alba di una nuova era del capitalismo: resta il libero mercato come quinta teatrale, ma in realtà si sta recitando il ritorno, in nuove sembianze, alle corti europee dei secoli scorsi, quando attorno al re si affannavano i nobili di primo rango, sostenendo la corona ma sfruttandone il potere per i propri interessi, gli uni contro gli altri, secondo uno schema classico, con il monarca a sovrastarli e a controllarli a sua volta, avendo il potere di metterne a rischio famiglia, vita, fortuna.
Esempio emblematico, il rapporto tra un Thomas Howard, duca di Norfolk, e il re Enrico VIII nell’Inghilterra, nel Cinquecento.
Tutti gli affari e i contrasti si svolgevano nella corte del sovrano. Masse di sudditi potevano solo guardare da lontano. Qualche gilda di artigiani o banchieri novelli timidamente poteva fare affari, se non disturbava il sovrano o uno dei suoi sostenitori. Per il resto, testa bassa e lavorare.
E in Italia? Si parva licet, l’impressione è che sia uno schema simile quello che si sta giocando in questo momento, con alcune famiglie di imprenditori a interpretare il ruolo di sostenitori e sostenuti in un rapporto diretto e stretto tra detentore del potere politico e detentori del potere economico.
Basti pensare alle famiglie Berlusconi, Caltagirone, Del Vecchio, tutte e tre direttamente o indirettamente interessate alla Mediobanca, al tesoro del momento: quello che in Usa e Cina è la tecnologia avanzata e in Russia gli idrocarburi da noi è il risparmio degli italiani, cioè il patrimonio accumulato nel tempo e che continua a crescere per accumulazione.
L’Italia, come una vecchia signora in declino, basa il suo fascino sul patrimonio. E la principale chiave di questo tesoro si trova dentro la Mediobanca, perché è quella che serve ad aprire il forziere dei forzieri: il controllo delle Generali, da sempre la regina della borsa italiana, una delle principali compagnie di assicurazione e di gestione del risparmio in Europa.
Ma è davvero lo stesso tipo di schema? Non è la prima volta che imprenditori privati e governo italiani brigano allo stesso tavolo. Basti pensare al ruolo svolto dalla stessa Mediobanca durante tutta la prima repubblica: era controllata dalle tre banche di interesse nazionale (Comit, Credito italiano e Banco di Roma, a loro volta controllate dall’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, uno dei capifila delle partecipazioni statali con Eni e Efim), ma nell’azionariato figuravano anche tutti i principali industriali privati italiani riuniti in gruppo.
Era di fatto l’unica merchant bank italiana quando il sistema del credito era tutto pubblico e gli istituti commerciali non potevano acquisire partecipazioni industriali. E tranne Fiat, Pirelli e poco altro, il resto della grande industria, delle banche e della finanza era pubblico, quindi sotto il diretto dominio della politica.
Molte crisi industriali furono gestite dalla Mediobanca con uno sguardo benevolo del governo.
Più volte i privati sono scesi in campo chiamati dal governo e organizzati dalla Mediobanca del vecchio Enrico Cuccia o dei suoi successori, per sostenere questo o quel pezzo d’Italia, lucrandone benefici.
La stessa Mediobanca è stato un attore fondamentale per l’organizzazione delle cordate private nella fase delle privatizzazioni. Tutti “capitani coraggiosi”, gli imprenditori privati capaci di conquistare con poco sforzo una posizione di peso, come nelle privatizzazioni di Telecom, di autostrade o dell’Alitalia. Era un gioco collettivo, ci entravano tutti, sindacati e partiti, ministri e imprenditori. Era l’Italia.
Oggi non si sta giocando lo stesso gioco. Intanto al centro dello scontro c’è il controllo della stessa Mediobanca. Ma, soprattutto, in questo caso emerge un rapporto personale reciproco, diretto, di condivisione di una visione politica e di interessi tra un gruppo di potenti imprenditori e il governo, in contrasto con altri nobili e potenti attori dell’economia. Un gioco di corte tra pari, si potrebbe dire
Gli altri cittadini, i lavoratori, i commercianti, gli artigiani, i professionisti, i pensionati, i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali, i giornali, perfino la miriade di piccoli e medi imprenditori, quelli considerati l’ossatura della nostra economia, possono guardare da lontano ciò che sta avvenendo.
Il Parlamento chiede lumi. Gli eletti dal popolo ne discutono. I giornali ne scrivono. Ma la forza (i denari e il potere di interdizione) la posseggono gli altri.
Alcuni commentatori, da sempre più vicini al mondo finanziario milanese, ritengono che la battaglia attorno alla Mediobanca sia l’ennesima contesa tra Roma (la politica) e Milano (la finanza).
A me sembra una visione che fa riferimento a cose del passato.
In questo caso Roma e il Nord stanno su entrambi i versanti della trincea (le famiglie Berlusconi e Del Vecchio non sono certo romane così come sono invece romane la famiglia Caltagirone e una parte sostanziale della struttura dell’Unicredit).
Certo, la vicenda è ingarbugliata e non è detto che non vi sia anche un po’ di tutto, di vecchio e di nuovo. Ma di sicuro segna un passaggio d’epoca e proprio per questo vale la pena di elencare i fatti per delinearne meglio i contorni.
Primo fatto. Da alcuni anni, in particolare dal 2018, due gruppi privati (Caltagirone e Delfin, società che oggi controlla l’impero degli eredi Del Vecchio) tentano di conquistare, invano, posizioni dominanti in Mediobanca, che controlla il pacchetto di azioni di riferimento per le Generali (13,1 per cento).
Oggi Caltagirone controlla il 5,5 per cento delle azioni Mediobanca e Delfin il 19,81.
A contrastare le mire di Caltagirone e Del Vecchio è stato, finora con successo, l’amministratore delegato della Mediobanca, Alberto Nagel, insieme ai suoi alleati.
Chi sono gli altri azionisti della Mediobanca? La famiglia Benetton (oltre il 2 per cento), un gruppo di industriali riuniti in un accordo che vale oltre l’11 per cento delle azioni (dalla Mediolanum delle famiglie Doris e Berlusconi, a Gavio e Monge, Ferrero, Lucchini). Senza contare colossi mondiali del calibro di BlackRock (oltre il 4 per cento di azioni), Vanguard, Nordgest, Fidelity.
Secondo fatto. A certificare che l’obiettivo di Caltagirone e Delfin riguarda anche le Generali sono stati in questi anni gli acquisti di pacchetti azionari della compagnia di assicurazione: il 9,93 per cento del capitale della compagnia è in mano oggi a Delfin, il 6,92 per cento a Caltagirone. Gli altri principali azionisti di Generali sono Mediobanca (13,10 per cento) e Benetton (4,8 per cento).
Terzo fatto. Con l’aggregazione tra Banco popolare e Banca Popolare di Milano è cresciuto negli ultimi anni un gruppo bancario particolarmente forte al Nord (ma non solo) che può legittimamente ambire oggi a costruire un terzo polo di attrazione, facendo concorrenza a Intesa Sanpaolo e Unicredit.
Bpm ha esplicitato questa ambizione lanciando nei primi giorni di novembre del 2024 una proposta pubblica di acquisto totale di Anima, una delle principali società di gestione del risparmio privato italiano, nata su impulso della stessa Bpm, che è rimasta nel capitale come azionista insieme a Mps e poi anche a Poste italiane.
Il governo ha accolto questa ipotesi con favore, perché avrebbe riequilibrato il peso dei due colossi assoluti, Intesa e Unicredit, entrambi nati da aggregazioni successive di ex colossi bancari pubblici.
Vale la pena di ricordarlo, sia pure brevemente.
A Intesa si è giunti mettendo insieme, tra gli altri, la Comit, l’Istituto San Paolo di Torino, l’Ambrosiano e la Cassa di risparmio delle province Lombarde, più altre casse di risparmio, come quelle di Firenze e Bologna. Dentro c’è molto Nord.
A Unicredit si è giunti mettendo insieme, tra gli altri, il Credito Italiano e Capitalia, cioè l’ex Banco di Roma, la cassa di risparmio di Roma e il Banco di Santo spirito, il Banco di Sicilia, alcune casse di risparmio e istituti di rilievo in Austria e in Germania. Ci sono dentro pezzi di Nord, ma anche di Roma, di Sud.
Quarto fatto. Il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, una volta collegata a doppio filo con il territorio toscano, e con la politica toscana, dopo una crisi devastante che ne ha messo in pericolo la stessa esistenza, è stata ricapitalizzata dalla Stato e negli ultimi due anni è rinata a nuova vita.
Avviato il risanamento, il governo ha ceduto una parte delle quote acquisite con l’aumento di capitale. E indovinate chi è entrato nell’azionariato con posizioni prominenti? Caltagirone con il 5 per cento, Delfin con il 9,7. Il ministero dell’Economia e delle Finanze resta il primo azionista con l’11,7 per cento.
Quinto fatto. Ferma Banca Intesa anche per motivi di peso e di antitrust, di fronte all’evoluzione del mercato bancario in questi mesi, si è mossa con forza Unicredit.
L’amministratore delegato, Andrea Orcel, ha lanciato due proposte di conquista: una su Commerzbank (vecchio interlocutore privilegiato in Germania del Banco di Roma e poi di Capitalia, che oggi sono nella pancia di Unicredit), l’altra, un’offerta pubblica di scambio, il 25 novembre – e qui le date sono significative – su Bpm.
In entrambi i casi la maggioranza politica che sostiene il governo ha storto non poco il naso. Nel caso della Bpm l’entrata in scena di Unicredit disturbava la creazione del terzo polo. Anche queste erano-sono, con tutta evidenza, operazioni di mercato. Ma evidentemente alla corte di Giorgia Meloni c’è mercato e mercato.
Sesto fatto. A dicembre il Credit Agricole, grande banca francese ha accresciuto la propria quota in Bpm dal 9,9 per cento al 15,1 e si è detta pronta a salire fino al 19,9.
Settimo fatto. Il 21 gennaio le Generali hanno annunciato un accordo di alleanza nel risparmio gestito con la BPCE, la seconda banca di Francia, proprietaria della società di investimento Natixis. L’intesa è volta a unire le rispettive divisioni investimenti e creare una grande società che arriverebbe a gestire quasi 1.900 miliardi di euro per conto dei clienti. La nuova società diventerebbe così la nona al mondo per patrimonio gestito.
Un legame così pesante è chiaro che renderà più difficile qualsiasi operazione di conquista della compagnia italiana. Il governo ha chiamato in causa la difesa del risparmio nazionale. I no sono fioccati. Ma la compagnia non ha battuto ciglio e ha realizzato quanto deciso.
Ottavo fatto. Pochi giorni or sono, il 24 gennaio, il rinato Monte dei Paschi di Siena ha lanciato un’offerta pubblica di scambio totale (valore 13,3 miliardi) per la conquista della Mediobanca. Operazione di mercato, ha commentato Giorgia Meloni.
Nono fatto. Mediobanca ha giudicato l’offerta ostile e si prepara a respingere l’attacco. E non è escluso che altri si schierino nella battaglia.
Che cosa accadrà? Difficile dirlo per la partita italiana tanto quanto per gli sviluppi futuri nel resto del mondo. Ma resta la suggestione di fondo, suggerita dalla corte dei supermiliardari attorno a Trump, sempre più simile a quella degli oligarchi attorno a Putin o dei mandarini attorno a Xi, di un cambio di fase e di paradigma, nel mondo sicuramente, ma anche un po’ in Italia.
Il capitalismo sta nuovamente cambiando pelle? Di certo bilanciamenti, autonomie, limiti e regole sembrano appartenere a un mondo rapidamente invecchiato per lasciare spazio a nuovi tipi di rapporto, a nuove gerarchie, con la sempre più evidente ri/cristallizzazione di enormi disuguaglianze tra gli uomini e la crescente volontà di potenza manifestata dalle famiglie più ricche e potenti.
Appunto un ritorno, sotto diverse sembianze, di rapporti di potere che credevamo sconfitti dalla storia.
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Domani, martedì 28 gennaio 2025, alle ore 15, Mario Monti, presidente onorario dell’Institute for European Policymaking, il think tank della Bocconi con cui collaboro anche io, terrà una conferenza stampa presso la sede dell’Associazione della Stampa Estera in Italia (via del Plebiscito 102, Roma).
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Per confermare la partecipazione: segreteria@stampaestera.org
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Olesya Vinhas de Souza is a leading defense analyst with expertise in Russian security issues and cybersecurity at the NATO Defense Council.
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Andrea Gilli is a lecturer in Strategic Studies at the University of St Andrews, IEP@BU research fellow, and co-author of the IEP@BU Policy Brief Before Vegetius: Critical Questions for European Defense.
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For the first time in decades, the European Union faces a dual leadership vacuum in Germany and France—two pivotal member states in EU politics.
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Wolfgang Munchau is one of the foremost commentators on EU economic and political affairs. He is the director of Eurointelligence and the author of the recent book Kaput: The End of the German Miracle.
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