La separazione delle carriere e il peccato originale della politica

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Anno giudiziario e proteste dei magistrati. La proposta di riforma, a torto o ragione, è associata all’antica ostilità berlusconiana al “potere dei giudici”

di Marco Olivieri

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Sin dagli anni Novanta il tema della separazione delle carriere dei magistrati divide giudici e politici. E ora è stato al centro delle proteste in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. In primo piano la proposta di legge Meloni e Nordio su “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Come si legge sul sito della rivista online Sistema penale, si introduce il principio delle “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”, la cui disciplina viene demandata alle norme sull’ordinamento giudiziario. Si istituiscono due Consigli superiori della magistratura e un’Alta Corte disciplinare.

Di fatto, a torto o ragione, la proposta di riforma è associata all’antica ostilità berlusconiana alla “dittatura dei giudici comunisti” o, meglio, non graditi. E, ancora prima, al fastidio di craxiana memoria verso alcuni magistrati, con rischi per l’indipendenza del potere giudiziario. Ma procediamo per gradi. E partiamo dal tema del contendere.

La proposta di legge Meloni e Nordio e l’iter costituzionale

Ricorda il Sistema penale: Il 16 gennaio 2025 la Camera dei deputati, in tempi ristrettissimi e inusuali per una riforma costituzionale (una sola settimana), e senza alcun emendamento, ha approvato il testo della proposta di legge di riforma costituzionale in tema di separazione delle carriere di iniziativa della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Il disegno di legge è ora all’esame del Senato. Il procedimento di revisione della Costituzione è disciplinato dall’articolo 138 della Costituzione. Esso prevede due deliberazioni da parte di ciascuna Camera, a intervallo non minore di tre mesi. Siamo dunque all’inizio di un articolato percorso. Se la legge è approvata con la maggioranza di due terzi, da ciascuna Camera, nella seconda votazione, non si fa luogo a referendum confermativo”.

La separazione delle carriere, il pensiero di Falcone, il ruolo dei pm

Si tratta di un argomento che da più di trent’anni scalda gli animi nel dibattito pubblico. Lo stesso Giovanni Falcone viene spesso menzionato e la Fondazione Einaudi, contro chi smentiva la sua adesione all’idea della separazione delle carriere, cita un passaggio di un’intervista a Mario Pirani su “la Repubblica”: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri.  Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’esecutivo”.

Quel peccato originale generato dai problemi giudiziari di Berlusconi

Di fatto, quello della separazione delle carriere è un argomento tecnico che andrebbe sviscerato, tra favorevoli e contrari, lontano dalla polemica politica. Ma qui s’innestra il peccato originale della politica italiana. Prima lo scontro tra magistratura e partiti al potere, con pezzi della Dc e soprattutto il Psi di Craxi. E poi, con Tangentopoli, seguita dall’avvento di Forza Italia, il clima è diventato incandescente.

Di conseguenza, la proposta di legge di Meloni e Nordio si porta dietro ancora il peccato originale di un partito guidato da un leader, Silvio Berlusconi, con notevoli problemi nel campo della giustizia e del conflitto d’interessi.

Il centrodestra non si è mai emancipato dalla macchia originaria di scontri legati a vicende giudiziarie

Da questo elemento d’origine, anche dopo la morte di Berlusconi, mentre imperversa il caso della ministra Santanché, Forza Italia e il centrodestra non si sono emancipati. Ma da cosa, soprattutto, non si sono mai emancipati? Dalla macchia originaria di scontri legati a vicende giudiziarie di natura personale. Vicende di cronaca che coinvolgevano il capo politico e altre figure di riferimento. Da qui l’assenza di un dibattito imparziale sulla giustizia. E, per questo motivo, qualunque valutazione giuridica e politica è minata da questa macchia originaria.

La difesa dei colletti bianchi e delle classi dirigenti rispetto all’azione giudiziaria

Il centrodestra e specialmente Forza Italia si sono strutturati, nel post Tangentopoli, in chiave di difesa dei colletti bianchi e delle classi dirigenti. Difesa da una presunta invasività del potere giudiziario. E così questo disegno di legge, a torto o ragione, è viziato da un antichissimo clima di contrapposizione tra poteri dello Stato.

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Ci si concentra sui “piani alti” ma le emergenze nelle carceri non provocano reazioni politiche all’altezza

A riprova che gli argomenti seri del rischio di giustizialismo, dell’affollamento delle carceri e del garantismo non sono al centro delle preoccupazioni di Forza Italia è un particolare non di poco conto. Ci si concentra sempre sui “piani alti”, come nel caso del controverso falso in bilancio. Ma i suicidi nelle carceri (ogni due giorni, secondo CittadinanzAttiva, 83 suicidi e 18 casi sospetti nel 2024) e le misure alternative alla detenzione, nel segno della civiltà giuridica, non ottengono un’adeguata attenzione da parte di chi governa. Non risultano esserci, insomma, reazioni politiche all’altezza dei nodi strutturali del sistema penale e carcerario.

Il faro dovrebbe essere sempre la Costituzione

Anche sul fronte delle opposizioni, tranne alcune voci di rilievo, come Ilaria Cucchi, Luigi Manconi e i radicali, bisognerebbe essere molto più efficaci. Non parliamo poi della repulsione, da parte di Fratelli d’Italia e Lega, a qualsiasi strumento che possa limitare gli abusi delle forze dell’ordine. Strumenti a tutela anche di chi fa il proprio dovere e non viola le regole.

In questo contesto, tra garantisti “selettivi”, giustizialisti e autentici sostenitori dei diritti umani nelle carceri, come l’associazione “Antigone”, il faro è e deve sempre essere la Costituzione. La nostra meravigliosa Carta, spesso inapplicata. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (articolo 27). “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (articolo 104). “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 117).

In sostanza, al di là degli stessi contenuti, che meritano un’analisi approfondita, quando permane un clima di ostilità, non è facile trovare punti d’equilibrio. Elementi di condivisione necessari nel confronto fra poteri dello Stato. E ancora di più fondamentali in un sistema eternamente in crisi come quello italiano.

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