Gaza Real Estate. Trump gioca a Monopoli con la crisi più antica del mondo

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Ora che il presidente americano Donald Trump ha lanciato – nel corso di una conversazione con i giornalisti a bordo dell’Air Force One – il suo piano-bomba su quello che dovrebbe succedere nella Striscia di Gaza, il passo successivo sarà vedere, nei fatti, come si comporteranno i Paesi arabi della regione, a cominciare dall’Egitto e dalla Giordania, per arrivare all’Arabia Saudita. Quello che Trump ha fatto – con il suo solito stile: esplosivo – è stato esplicitare il progetto a cui da tempo aspira la destra israeliana, ovvero lo svuotamento di Gaza dai palestinesi. È una prospettiva che liquida la questione palestinese come se fosse un cavillo, sottovalutandone la rilevanza per le popolazioni del mondo arabo, ma allo stesso tempo mettendo a nudo l’ipocrisia con cui è stata spesso affrontata dai regimi arabi e non solo.

Prima di tutto, un passo indietro. Trump ha svelato alcuni punti del suo “piano” sabato, nel corso di una sessione di domande e risposte di 20 minuti con i giornalisti a bordo dell’Air Force One. In sostanza, ha detto che vorrebbe che la Giordania, l’Egitto e altre nazioni arabe aumentassero il numero di rifugiati palestinesi che stanno accettando dalla Striscia di Gaza, così da poter “semplicemente ripulire” l’area devastata dalla guerra. Ha affermato di aver parlato, sabato mattina, con il re Abdullah II di Giordania e che domenica avrebbe parlato con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. “Vorrei che l’Egitto accogliesse la gente. Stiamo parlando probabilmente di un milione e mezzo di persone […], facciamo piazza pulita di tutta quella faccenda e diciamo: è finita”. Quanto alla Giordania, Trump ha spiegato di essersi complimentato con il re per aver accolto con successo i rifugiati palestinesi e di avergli detto: “Mi piacerebbe che te ne occupassi di più, perché in questo momento sto guardando l’intera Striscia di Gaza, ed è un disastro. È un un vero disastro”.

Uno spostamento così massiccio di persone contraddirebbe apertamente l’identità palestinese e il suo profondo legame con Gaza. Dettagli, dal punto di vista di Trump, secondo cui il reinsediamento “potrebbe essere temporaneo o a lungo termine”, dato che quella parte di mondo ha “vissuto molti, molti conflitti” nel corso dei secoli. “Qualcosa deve succedere”, ha commentato con fare pragmatico, aggiungendo che ora Gaza “è letteralmente un cantiere di demolizione”. “Quasi tutto è stato demolito e la gente sta morendo. Quindi, preferirei impegnarmi con alcune nazioni arabe e costruire alloggi in un luogo diverso, dove magari potranno vivere in pace, per una volta”. Già in passato Trump aveva espresso opinioni non tradizionali sul futuro della Striscia. Dopo l’inaugurazione, ad esempio, ha affermato che Gaza dovrebbe “essere ricostruita in modo diverso”. “È una location fenomenale, sul mare. Ha un clima ideale… tutto è bello”. E ancora: “si potrebbero fare cose belle lì… è molto interessante”.

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“Purtroppo, l’uscita di Trump non è particolarmente sorprendente”, commenta per HuffPost Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali. “Ricordiamoci che è stato durante il suo primo mandato che sono stati ventilati da Israele i piani per l’annessione della Cisgiordania. Che Trump non abbia esattamente a cuore la questione palestinese – e che veda il tutto come una questione di real estate – non è nuovo. Riallacciandoci a quello che poi è stato l’accordo sul cessate il fuoco, e al ruolo che indubbiamente Steve Witkoff (il negoziatore di Trump in Medio Oriente) ha svolto di pressione nei confronti di Benjamin Netanyahu, c’è sempre stato da chiedersi qual era il do ut des. Al netto del ‘regalino’ che magari Netanyahu ha voluto fare a Trump – e lo schiaffo, per contro, che ha voluto dare a Biden, nell’accettare un piano che è esattamente lo stesso di maggio – c’è stato evidentemente un do ut des, di cui adesso stiamo iniziando a vedere i contorni. Il piano di Israele – che non è mai cambiato, ed è quello dell’espulsione di massa – adesso viene abbracciato da Trump”.

Questo abbraccio ha generato – anche qui senza sorprese – l’entusiasmo del ministro israeliano delle Finanze Bezalel Smotrich, di estrema destra. “Dopo 76 anni durante i quali la maggior parte della popolazione di Gaza è stata tenuta forzatamente in condizioni difficili per preservare l’aspirazione di distruggere lo Stato di Israele, l’idea di aiutarli a trovare altri posti in cui iniziare una vita nuova e migliore è un’idea eccellente”, ha affermato Smotrich, citato dal Times of Israel. “Nell’ultimo anno abbiamo ripetutamente chiesto di incoraggiare l’emigrazione volontaria”, ha rivendicato dal canto suo l’esponente dell’ultradestra Itamar Ben Gvir, dimessosi la settimana scorsa dal governo in segno di protesta per il cessate il fuoco. “Penso che quando è il presidente della più grande potenza mondiale a sollevare questa idea, il governo israeliano dovrebbe implementare l’incentivazione dell’emigrazione, ora”, ha insistito.

In maniera speculare, l’uscita di Trump ha suscitato lo sdegno e la rabbia di Hamas e della Jihad islamica. Un alto funzionario di Hamas ha avvertito che il gruppo si opporrà all’idea di trasferire i palestinesi di Gaza in Egitto e Giordania. “Come ha sventato ogni piano di sfollamento e di patrie alternative nel corso dei decenni, la nostra gente sventerà anche tali progetti”, ha detto Bassem Naim, un membro dell’ufficio politico di Hamas. La Jihad islamica, movimento islamista palestinese alleato di Hamas a Gaza, ha dichiarato che i commenti di Trump incoraggiano “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Queste “deplorevoli dichiarazioni sono in linea con gli aspetti peggiori dell’agenda dell’estrema destra sionista e continuano la politica di negazione dell’esistenza […] del popolo palestinese”, ha aggiunto il movimento in una dichiarazione.

Il passo successivo sarà capire le posizioni di Egitto e Giordania. Il Cairo – secondo quanto riferito da fonti egiziane al canale televisivo saudita al-Hadath – ha informato gli Stati Uniti di respingere un piano che prevederebbe lo spostamento dei palestinesi da Gaza per un periodo da sei mesi a un anno in tre paesi arabi e un paese in Asia. Il piano – sempre secondo le fonti egiziane – specifica che i palestinesi dovranno lasciare i Paesi ospitanti all’inizio del 2026, ma non specifica se i rifugiati potranno tornare a Gaza.

Un conto, però, sono i rifiuti formali (o quasi), un altro sono i reali margini di manovra di Paesi come la Giordania e l’Egitto. “Da come si muoveranno, si capirà quanta autonomia hanno davvero questi Paesi”, osserva Tocci. “È evidente che, se dovesse esserci un’espulsione di massa nei confronti della Giordania, verrebbe a cadere il regime Hashemita, che è già un regime estremamente debole. Nei confronti dell’Egitto, la caduta di Bashar al-Assad in Siria – e per contro la vittoria di Hay’at Tahrir al-Sham, che comunque si rifà a un islam politico – ha riacceso i timori al Cairo di un riaffiorare dell’islam politico in Egitto, e quindi comunque una minaccia al regime di Abdel Fattah al-Sisi. È evidente che [il piano di Trump] è contro gli interessi nazionali di questi due Paesi, al netto di quello che possono pensare della causa palestinese, sulla quale – purtroppo – i regimi arabi nel corso dei decenni non hanno dimostrato un reale attenzione”.

Se la questione palestinese, per questi regimi, è sempre stata un po’ una foglia di fico, si capisce come siamo di fronte a una prova del nove. “Se alla fine agiranno, paradossalmente, suicidandosi, avremo la dimostrazione che autonomi non sono. Se, per contro, riusciranno a bloccare questa mossa di Trump, il discorso sarà diverso”, sintetizza Tocci, secondo cui il caso dell’Egitto è particolarmente interessante. “A onor del vero, al-Sisi finora è riuscito a opporsi a questa idea, che in realtà era già balenata nella testa di Biden (al netto di un po’ di retorica, non è che ci sia una grandissima differenza tra la posizione di Biden e quella di Trump). In quel momento, di fronte alla spinta israeliana di attuare questo piano all’inizio della guerra, al-Sisi è riuscito a frenare, soprattutto quando c’è stato l’attacco su Rafah. Adesso bisogna capire se continuerà a riuscirci”.

Tra le varie incognite, c’è quanto Trump sia serio riguardo al progetto e quanto lontano sia disposto ad arrivare. I dazi statunitensi – uno degli strumenti economici preferiti da Trump – o le sanzioni vere e proprie potrebbero essere devastanti per la Giordania e l’Egitto. I due Paesi ricevono miliardi di dollari in aiuti americani ogni anno e l’Egitto è già impantanato in una crisi economica.

Un’altra grande incognita riguarda il ruolo – cruciale – che può svolgere l’Arabia Saudita. “Mentre Egitto e Giordania non hanno grandi leve nei confronti degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita sì che ne ha”, sottolinea la direttrice dello IAI, ricordando la fitta rete di interessi (personali, commerciali, petroliferi) che legano Washington a Riad. “Parliamo di un’Arabia Saudita che ha acquistato maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti, anche alla luce della relazione con la Cina e del riavvicinamento con l’Iran. Riad oggi parla in maniera molto più ferma riguardo alla questione palestinese. Anche qui, questo non va preso come un indice d’amore per i palestinesi, ma come il segnale di un’autonomia saudita”.

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È verosimile che Trump abbia accennato il piano al principe ereditario saudita Mohammad bin Salman durante la loro telefonata di questa settimana (il primo contatto diretto con un leader straniero dal giorno del suo insediamento), ed è da sottolineare il tempismo con cui la premier Giorgia Meloni (la leader europea in questo momento più prossima a The Donald) si trovi a incontrare proprio in queste ore il principe MbS nel deserto di Al’-Ula.

Quel che è certo è che il pragmatismo – un tratto che accomuna Trump e MbS, e che Meloni non disdegna – giocherà un ruolo anche in questa vicenda. “Da un certo punto di vista – commenta ancora Tocci – la mossa di Trump fa chiarezza, perché mette tutto alla luce del sole. Alla fine, sarà l’esito a dare la risposta su come si saranno comportati i diversi attori. Ora sono chiari gli interessi e le leve che ciascuno ha. Alla fine, saranno i fatti a raccontare la storia”.

Lo scenario più probabile, forse, è che Trump abbia sparato in grande per ottenere un risultato meno eclatante, ma comunque enorme dal punto di vista storico. La pensa così la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, secondo cui “è difficile che il piano di Trump possa realizzarsi così come è stato annunciato”, mentre è “molto più plausibile un depopolamento di Gaza – magari non totale, ma dimezzando la popolazione – in maniera più lenta e subdola”. Il punto – osserva l’analista – è che “non si arriverà mai a una ricostruzione di Gaza, e questo territorio devastato – piano piano, nel corso del tempo – si svuoterà: una parte andrà in Egitto, un’altra in Giordania, un po’ andranno in Indonesia, in Canada, in Europa… Ecco che la popolazione di Gaza, dai 2,2 milioni che era, si riduce a un milione, che è più facile da controllare. Temo che andrà così, gradualmente, come conseguenza di un territorio che è stato reso invivibile”.

Anche la cronaca delle ultime ore punta in questa direzione, con il divieto alla popolazione di Gaza di ritornare nel nord della Striscia fino a quando non sarà organizzato il rilascio dell’ostaggio Arbel Yehud. Il cessate il fuoco sta mostrando tutta la sua fragilità, e i negoziati sulla seconda fase – che dovrebbe vedere il rilascio di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas e la cessazione definitiva dei combattimenti – devono ancora iniziare seriamente. Il governo israeliano ha messo in chiaro di essere pronto a riprendere la guerra contro Hamas, se gli ostaggi rimasti non verranno rilasciati. Da oggi, può contare anche sulle bombe americane da 2.000 libbre che il presidente Biden aveva stoppato, ma di cui Trump ha sbloccato la fornitura.

In tutto ciò, c’è una costante: la marginalità dell’Europa. “L’aspetto agghiacciante – conclude Tocci – è che, in realtà, è come se l’Europa avesse già interiorizzato una soluzione del genere”, l’allontanamento dei palestinesi. “Il nostro è un silenzio complice”. O, ancora peggio, un’inutile retorica.
 



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