‘Acqua Santa’. Il conflitto israelo-palestinese in una prospettiva idrica – 4

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Piani di sfruttamento unilaterale delle acque regionali. Fonte: Applied Research Institute – Jerusalem

 

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L’articolo di Désirée A.L. Quagliarotti è apparso sul Numero 5, Gennaio – Aprile 2025, di LAB Politiche e Culture

 

Nonostante il fallimento, il Piano Johnston rimase un raro esempio di cooperazione multilaterale nella gestione delle risorse idriche in una regione altamente conflittuale. Esso costituì, inoltre, un riferimento tecnico significativo per i tentativi successivi di regolamentazione e condivisione delle risorse idriche nel Medio Oriente. Tuttavia, il suo insuccesso segnò la fine di qualsiasi speranza di cooperazione all’interno dell’area, decretando il ritorno ai progetti unilaterali di sfruttamento delle risorse idriche, con il completamento, nel corso degli anni ’60, delle due vie d’acqua nazionali: il NWC di Israele e il canale dell’East Ghor in Giordania.

Israele avviò la costruzione del NWC nel 1958, completandolo nel 1964. Tuttavia, il progetto fu reso pubblico solo un anno dopo l’inizio dei lavori, suscitando la reazione negativa degli Stati arabi. Questi ultimi sostenevano che la deviazione delle acque dal Lago Kinneret avrebbe aumentato la salinità del Basso Giordano, rendendolo inutilizzabile per lo sviluppo agricolo della Giordania. Inoltre, ritenevano che il progetto fosse in violazione delle norme di diritto internazionale, in quanto comportava il trasferimento delle acque del Giordano al di fuori del bacino idrografico prima che fossero soddisfatte le esigenze idriche di tutti i Paesi rivieraschi. In realtà, il principale timore degli Stati arabi riguardava le implicazioni strategiche del progetto: la deviazione delle acque avrebbe consentito a Israele di sviluppare l’area desertica del Negev, rafforzando così lo Stato ebraico non solo in termini economici, ma anche militari e demografici.

Come risposta al progetto israeliano del NWC, la Lega araba lanciò il Piano di diversione arabo che prevedeva la deviazione delle sorgenti del Giordano prima che le loro acque lambissero il territorio israeliano. In particolare, furono prese in considerazione due opzioni: la deviazione del fiume Hasbani verso il fiume Litani e del fiume Banias verso lo Yarmouk; la convogliazione delle acque di entrambi gli affluenti direttamente nello Yarmouk. Alla fine, venne scelta questa seconda alternativa. I Paesi arabi avviarono i lavori nel 1965, sperando di raggiungere un duplice obiettivo: aumentare la portata dei fiumi sfruttati principalmente dai Paesi arabi, e ridurre del 35% il flusso del Giordano da cui Israele traeva l’acqua per alimentare il proprio NWC. Questa prospettiva fu considerata inaccettabile dallo Stato ebraico, che percepì il progetto come una grave minaccia ai propri interessi strategici e alla sicurezza nazionale. Due mesi prima dello scoppio della Guerra del ‘67, reagì bombardando le infrastrutture iniziali del progetto.

La Guerra dei Sei Giorni e la vittoria di Israele portò con sé conquiste territoriali che trasformarono radicalmente la geografia politica e idrica della regione. Con l’acquisizione della penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, delle alture del Golan, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, lo Stato ebraico triplicò la propria estensione territoriale. Ma il vero cambiamento rimaneva invisibile sulle mappe: Israele ridisegnò l’equilibrio idropolitico del Medio Oriente. Da quel momento, lo Stato ebraico si elevò ad attore dominante a monte del bacino del Giordano, estendendo il suo controllo tanto sulle acque superficiali quanto su quelle sotterranee. Con l’occupazione delle alture del Golan, conquistò il fiume Banyas, mentre l’unico affluente dell’alto Giordano a sfuggirgli rimaneva l’Hasbani. Sullo Yarmouk, il controllo raddoppiò, passando da 10 a 20 chilometri. Infine, la conquista di Gaza e della Cisgiordania non solo ampliò i confini, ma assicurò a Israele l’accesso alle preziose falde acquifere, ponendo sotto la sua influenza le riserve idriche sotterranee della regione. Questo nuovo ordine idropolitico rendeva impossibile qualsiasi progetto arabo di deviare gli affluenti del Giordano, garantendo a Israele la possibilità di massimizzare lo sfruttamento delle risorse idriche.

Sul fronte arabo, la Siria perse il controllo del fiume Banyas, uscendo così dal bacino superiore del Giordano. Tuttavia, fu la Giordania a subire le conseguenze più devastanti del conflitto. Il Regno hashemita dovette rinunciare alla Cisgiordania, che rappresentava circa un terzo dei suoi territori agricoli più fertili, e a Gerusalemme Est, un simbolo religioso di immenso valore e fulcro del settore turistico giordano. Allo stesso tempo, si trovò a dover accogliere 300.000 profughi palestinesi provenienti dai Territori occupati, in un paese che aveva già visto la sua popolazione triplicarsi rispetto al 1948.

La Giordania subì la nuova realtà geopolitica tentando di bilanciare un delicato trade-off tra una crescente domanda idrica, una minore dotazione di acqua, e la vicinanza di un vicino decisamente più potente sotto il profilo economico, politico e militare. La strategia adottata fu duplice e intrinsecamente ambivalente. Da un lato, la Giordania tentò di costruire un rapporto pragmatico e confidenziale con Israele, nella speranza di garantire un accesso equo alle risorse idriche condivise.  Dall’altro lato, si sforzò di mantenere una posizione allineata con il resto del mondo arabo, storicamente contrario all’esistenza dello Stato di Israele, in modo da non compromettere la sua legittimità all’interno della regione. Il risultato fu una fragile ‘pax in bello’, una sorta di guerra silenziosa in cui entrambi i paesi riconoscevano, almeno formalmente, il diritto dell’altro a una porzione delle acque del bacino idrico. Tuttavia, i criteri di attribuzione delle rispettive quote rimanevano motivo di divergenza, alimentando tensioni sotterranee che si intrecciavano con le dinamiche geopolitiche e strategiche più ampie della regione. Fino a quando, nel 1994, venne stipulato il Trattato di Pace tra i due paesi. In base all’accordo, Israele accettava di trasferire alla Giordania 50 milioni di m3 di acqua proveniente dal NWC ogni anno; riconosceva alla Giordania il diritto ad utilizzare il 75% delle acque dello Yarmouk; entrambi gli Stati riconoscevano i diritti reciproci di valorizzazione delle risorse idriche esistenti attraverso la costruzione di nuove infrastrutture idrauliche a patto però di non ledere i diritti idrici altrui; concordavano a sostenersi l’un l’altro nei periodi di siccità. Inoltre, Israele si impegnava a fornire alla Giordania il know-how tecnologico necessario per sviluppare fonti idriche non convenzionali, come la produzione di acqua dissalata, contribuendo così alla sicurezza idrica giordana.

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Molto diverso fu il rapporto che andava delineandosi tra israeliani e palestinesi, segnato da un profondo squilibrio di potere in cui lo Stato ebraico imponeva una politica idrica fortemente discriminatoria attraverso una fitta rete di restrizioni e ordinanze militari. Ai palestinesi venne proibito di scavare nuovi pozzi, aumentare la profondità di quelli esistenti o effettuare riparazioni e manutenzioni senza previa autorizzazione dell’autorità militare israeliana. Fu imposta l’installazione di contatori sui pozzi palestinesi per monitorare e limitare i consumi, accompagnata dall’espropriazione di terreni e pozzi abbandonati in seguito all’occupazione. In Cisgiordania e nella Striscia, Israele assunse il controllo diretto delle falde acquifere, mentre ai palestinesi fu di fatto precluso l’accesso al fiume Giordano, reso inaccessibile dalle restrizioni imposte sulle aree rivierasche, dichiarate zone militari.

Sebbene Israele abbia sempre motivato il rigore della sua politica idrica con la necessità di tutelare il fragile equilibrio idrico regionale, il risultato è stato l’instaurarsi di un sistema duale profondamente asimmetrico in termini di quote e tariffe idriche attribuite ai palestinesi e ai coloni israeliani nei Territori occupati, con ripercussioni devastanti sul sistema economico della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Con lo scoppio della Prima Intifada, l’acqua divenne un’arma non convenzionale contro la contestazione palestinese, con sanzioni e interruzioni delle forniture idriche usate come strumenti punitivi, fino a quando, negli anni ’90, l’acqua trovò spazio nell’agenda ufficiale dei negoziati di pace del 1993 e del 1995. In particolare, negli Accordi di Oslo II venne firmato un Articolo specifico sull’acqua e sulle risorse idriche (Articolo 40, Annesso III), che definiva alcune linee guida importanti. Israele riconobbe, almeno in linea teorica, i diritti idrici del popolo palestinese, pur rimandando la definizione dettagliata di questi diritti ai negoziati futuri. Nonostante i tentativi fatti nell’ambito del processo di pace non si è mai raggiunto un accordo volto alla tutela e alla valorizzazione delle acque condivise. La causa di questo fallimento è da attribuire alla diversa percezione che le due popolazioni hanno degli obiettivi e delle misure da implementare per una gestione integrata dell’acqua a livello regionale.

Fin dall’inizio delle trattative, l’approccio israeliano per l’individuazione di una soluzione condivisa relativa alla questione idrica è stato caratterizzato da una scissione tra gli aspetti meramente tecnici e quelli politici. Nelle sessioni multilaterali e negli incontri bilaterali gli israeliani hanno sempre cercato di indirizzare il dialogo verso: l’incremento dell’offerta idrica attraverso la ricerca di fonti idriche alternative, in particolare la produzione di acqua non convenzionale come l’acqua dissalata e il recupero delle acque reflue; il miglioramento delle tecniche di risparmio della risorsa, soprattutto in agricoltura, come ad esempio la diffusione dell’irrigazione a goccia.

I palestinesi, al contrario, hanno sempre inquadrato il problema in una prospettiva prevalentemente politica, anteponendo il riconoscimento dei loro diritti idrici e il varo di un piano equo di spartizione a qualsiasi forma di cooperazione volta alla salvaguardia delle risorse. Per i palestinesi la crisi idrica è diretta conseguenza dell’occupazione da parte di Israele e delle politiche idriche discriminatorie attuate dallo Stato ebraico. Solo dopo una discussione risolutiva volta a porre fine all’occupazione e a stabilire il libero accesso alla terra, i palestinesi avrebbero discusso di un accordo su una possibile collaborazione per la gestione del bacino idrico condiviso.

La mancanza di una soluzione definitiva, aggravata dalla visita dell’allora leader del Likud, Ariel Sharon, al Monte del Tempio, interpretata dai palestinesi come un atto provocatorio, culminò, nel settembre del 2000, nello scoppio della Seconda Intifada. Questo nuovo ciclo di violenze segnò un ulteriore allontanamento dalle già flebili speranze di una pace duratura. In risposta, il parlamento israeliano approvò la costruzione di una barriera di separazione all’interno della Cisgiordania, ufficialmente giustificata come misura per proteggere i civili israeliani dagli attacchi terroristici palestinesi. Tuttavia, il tracciato della cosiddetta Security Fence, o Muro dell’Apartheid secondo la definizione palestinese, non segue la Linea Verde, ma penetra profondamente all’interno del territorio cisgiordano, incorporando terre fertili, pozzi, sorgenti e preziose falde acquifere palestinesi. Una scelta contestata e dichiarata illegale nel 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia de L’Aja, che sottolineò come la barriera rappresentasse una violazione del diritto internazionale e un ostacolo ulteriore verso una soluzione giusta e condivisa.

La questione idrica nel bacino del Giordano rappresenta una delle principali variabili esplicative della questione israelo-palestinese, in cui la gestione e il controllo della risorsa diventano il terreno su cui si giocano le battaglie politiche, sociali ed economiche. L’acqua è così la chiave di lettura di un conflitto che si protrae nel tempo, dove ogni movimento per il suo controllo e la sua distribuzione accresce tensioni e disuguaglianze, divenendo uno degli ostacoli principali alla pace e alla stabilità regionale.

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