Gregory Perrucci
Se permane un raro ma incontestabile primato di Civiltà, in Italia, è indubbiamente quello della Civiltà Enogastronomica. Si tratta di un riconoscimento planetario, invidiato, studiato, imitato, evocato, rispettato da tutte le diverse popolazioni umane.
Un bene culturale inestimabile che si tramanda per via popolare di generazione in generazione, tra le famiglie e le comunità locali del nostro Paese. E’ una forma di cultura che non si può nemmeno dire che “non sfama”: ha generato l’arte di selezionare e produrre i cibi e i vini più diversi, facendoli viaggiare in tutto il mondo presso popoli letteralmente sedotti dal “gusto italiano”.
Per una volta abbiamo la consapevolezza e l’orgoglio di rappresentare un “modello italiano”, che attrae, desta curiosità, spinge altre popolazioni a venire, visitare, stare con noi, condividere, imparare, emulare consumando poi a casa propria.
Non c’è bisogno qui di ricordare i numeri del Pil del sistema agroalimentare, enologico, turistico.
Quello che quei numeri non mostrano è come tutti gli italiani, nel loro modo di essere e vivere in totale “fusione” con la dimensione del “mangiare e bere”, contribuiscano al rinnovarsi di questa cultura e alla longevità del “vantaggio competitivo economico” che ne deriva.
Non a caso tutti i competitors mondiali cercano di sradicare ogni riferimento alla tradizione e all’origine dei nostri prodotti e agire su altre dimensioni strettamente aziendalistiche come i costi e i processi, facendo leva sull’imitazione e mistificazione fino addirittura alla falsificazione. Purtroppo per loro gli mancherà sempre quel quid di italianità: nell’esperienza, nel compiacimento autorevole, nell’empatia che noi italiani trasferiamo nella produzione e nel modello di consumo dei nostri prodotti tipici. Non basta affidarsi a nomi e concetti italiani, come gli abusati termini di “passione” e “famiglia” per conquistare i palati, quando si compete con un sistema agroalimentare che ha quello sfondo sociale, quel contesto condiviso e popolare che testimonia e trasmigra in forma di esclusiva energia “italica” nelle proprie produzioni!
A cos’altro poteva far riferimento il termine “Sovranità Alimentare” con cui il nostro Ministero dell’Agricoltura si è voluto trasformare, o meglio (per usare un termine in voga), “identificare”?
Una precisazione: quando dico “Cultura del bere” mi riferisco esclusivamente al Vino. In Italia (e in altri Paesi Mediterranei) non vi è altra cultura relativa al bere alcolico. L’intera Europa Mediterranea ha fatto del vino un alimento che permea ogni aspetto della cultura con i suoi numerosi riti e consuetudini pagane, mistiche, religiose, sociali. In Italia e in Francia, in particolare, vi è un elemento fondamentale e distintivo che ha preservato le popolazioni da derive deprecabili e purtroppo note in altri paesi: il consumo del vino sempre abbinato al pasto, il vino sulla tavola che accompagna la mensa di ogni giorno o della festa.
Questo principio di buonsenso saggiamente diffuso nei nostri costumi ha sempre agito da elemento educativo, di moderazione e controllo sociale. Nelle famiglie e nelle comunità, ai pasti, il vino veniva condiviso con criteri diversi a seconda che si dovesse poi continuare a lavorare o invece ci si potesse rilassare e godersi la convivialità. Ai giorni nostri, tale principio ha trovato ulteriore spazio di evoluzione con le moderne scuole di sommellerie che diffondono la conoscenza del vino (inclusa la sensibilizzazione sui suoi effetti) e l’arte dell’”abbinamento del vino al cibo”.
A questa radicata tradizione culturale, di recente abbiamo sovrapposto nuove forme di convivialità, più veloci, informali, importate da altri Paesi (guarda caso, di tradizione puritana e proibizionista). Non è più il vino il protagonista di queste occasioni di ritrovo, bensì una pletora di distillati superalcolici, quasi sempre miscelati tra loro o con altri succhi e bevande la cui diffusione ha portato a coniare un termine che descrive ad hoc il comparto: mixology. Budget miliardari di multinazionali estere seducono le nuove generazioni verso un consumo smoderato e – soprattutto – non complementare ai pasti, ossia un’assunzione di alcolici potenti e a stomaco vuoto, sempre più spesso in ambienti dove l’abbinamento più frequente è con gli stupefacenti! Così dal dissetarsi con una birra allo stordirsi con alcolici e super-alcolici è stato un passo.
E qui interviene un’altra italica arte, praticata con maestria: l’autolesionismo, noto anche come martellamento delle proprie gonadi.
Perché non solo abbiamo lasciato che il fenomeno importato del mixology si espandesse indisturbato, senza opporre la “identitaria” e “tradizionale” cultura del vino presso i giovani;
non solo abbiamo tollerato che il vino venisse sempre identificato con l’”alcol” e demonizzato al pari dei superalcolici (che ne contengono almeno per tre volte), come fanno i Paesi puritani e proibizionisti; ma abbiamo anche – da questi ultimi – importato la reazione più becera: pene più severe e intimidatori appostamenti da sceriffi sulle strade.
Se l’efficacia della nuova normativa è ancora da osservare e dimostrare, in specie sulla fascia di popolazione avvezza al bere secondo i costumi moderni, quella sul consumo tradizionale del vino si è già vista: ad appena un mese dall’entrata in vigore della normativa i ristoratori denunciano un drammatico calo dei consumi e anche delle prenotazioni!
Eppure, in Puglia (che pare riflettere l’andamento nazionale) solo il 2% degli incidenti è causato dall’alcol, il 23% dallo smartphone, il 28% dalla velocità.
Ora, le pene inaudite e criminalizzanti, l’indeterminatezza della quantità ingeribile, tollerata e metabolizzata, i toni inquisitori di chi ha varato la legge convincono i consumatori più tradizionali e persino più moderati a desistere del tutto dal bere vino, ossia rinunciare ad una secolare abitudine e costume popolare. Gli effetti a lungo termine sono devastanti: non berremo più ai pasti, diminuiremo le nostre capacità conviviali (già compromesse dagli smartphone), non saremo più dei “modelli” di consumo per altri popoli. Chi mangia e beve italiano, all’estero, lo fa anche e soprattutto per “sentirsi” italiano, identificarsi come persona capace di apprezzare le cose semplici ma buone della vita. Tutto questo va verso una fine ignorante, anche qui da noi: le nuove generazioni non si preoccuperanno del “senso della misura”, per loro il vino sarà “alcol”, proibito, tossico e trasgressivo. Migliaia di ristoranti di provincia, custodi della cucina regionale, chiuderanno. L’enogastronomia italiana perderà il suo appeal.
Questa vicenda rappresenta il segno del nostro impoverimento culturale a tutti i livelli, ma soprattutto della politica: incapace di articolare soluzioni di buon senso e più complesse del maldestro scimmiottare altre società, del tutto diverse dalla nostra.
Avevamo tutte le ragioni della Storia per difendere il vino, radice della cultura millenaria del mediterraneo. Invece lo criminalizziamo per adeguarci ai canoni di Paesi che adesso pretendono pure di avvertire in etichetta che il vino “nuoce alla salute”, ma si guardano bene dal proibire il libero possesso delle armi da fuoco perché diritto tradizionalmente impresso nella cultura del proprio popolo.
Gregory Perrucci, imprenditore del vino
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