A Giulia.
In memoriam
Premessa
Ogni anno si ripete in tutte le scuole del Regno uno stesso rituale che, benché oramai di routine, lascia innegabile come al contrario la coscienza comune debba rimanere vigile e pronta. Tuttavia, rispetto all’inaudita strage compiuta dal nazionalsocialismo, e dai suoi collaboratori stranieri, vorrei concentrare l’attenzione su una categoria- per così dire – minoritaria, certo non meno importante, di vittime della medesima sequenza storica, ovvero le persone disabili.
L’Aktion t4.
Non possiamo non accostarci alla dolorosa vicenda dello sterminio perpetrato dai nazisti prendendone in considerazione un aspetto meno noto, e segnatamente lo sterminio delle persone disabili. La tematica è interessante non solamente al fine storico di una ricostruzione più accurata dello sterminio, ma anche per comprendere quel complesso di varie ragioni, ideologiche, politiche e pseudo-scientifiche, che lo resero possibile, disattivando la coscienza morale.
D’altro canto, rammenta Levi (I sommersi e i salvati, p. 20): «l’intera storia del breve «Reich Millenario» può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima». La storia appare, dunque, tristemente chiara: la finzione nazista ha camuffato la pervicacia e metodica determinazione atta a selezionare il genere umano, una sorta di distinzione tra il “buono” e il “cattivo”, tra il “degno” e il “non degno”, tra il “bianco” e il “nero”, tra il “sano” e il “malato”. E se, a volerla dire tutta, si tratta pur sempre di polarizzazioni elementari, dato che sono presenti nell’animo umano, la novità consiste nella sua veste “moderna”, caratterizzata da un rigore burocratico e da un’organizzazione metodica senza precedenti nel corso della storia. L’apparato medico, paramedico e anonimi ragionieri sono stati così chiamati a fornire le loro maestranze, i loro uffici, il proprio mestiere, per mandare ad effetto questo scientifico progetto criminale di selezione, ovvero a registrare, catalogare e schedare tutti i soggetti non sani, , tutti quei soggetti deboli, per marchiandoli nella loro minorità rispetto ai soggetti forti.
Questi stessi soggetti, malati secondo le polarizzazioni nazionalsocialiste, vennero, dunque, radunati, segregati, dislocati altrove ed infine, dal 1939, avviati alla loro soppressione (Aly Zavorre, p. 21), chiamata “pietosa” nella neolingua inscenata dalla retorica nazista (Schianchi, Storia della disabilità, p. 194). D’altro canto, come può una soppressione di terzi configurarsi come pietosa? Com’è possibile valutare moralmente accettabile, proprio perché pietosa, la metodica soppressione di soggetti considerati inferiori? Può peraltro essere pietosa l’eliminazione forzata e contro la propria volontà? Nel pieno della mistificazione nazionalsocialista, la giustificazione alla propria dottrina della superiorità razzionale veniva fatta risalire alla natura, ovvero alla selezione del più adatto, il “più forte” nella ricezione nazista. Come rammenta Poliakov (Il mito ariano, p. 417), il dibattito avviato da Darwin ispirò i teorici della supremazia razziale i quali «invocavano il darwinismo in appoggio alla loro filosofia politica». Con il trascorrere del tempo, la ghettizzazione degli ebrei spinge a trasformare la faccenda in termini medici. Infatti, i milioni di persone ammassate nel ghetto, soggetti alla carestia e alla prostrazione, sviluppano patologie, come il tifo, che contaminano anche soldati e amministratori tedeschi in Polonia» (Chapoutot, La legge del sangue, p. 369). Di conseguenza, l’operato dei tedeschi non è tacciabile di critica dal momento che hanno fatto quel che andava fatto, ovvero proteggere la salute pubblica. Ma la legislazione razziale ariana è «la più pura delle leggi, poiché non fa che tradurre, in maniera etica e pratica, la legge della natura» (p. 370). Secondo questo canone, dunque, la Soluzione finale è «l’espressione più alta della moralità naturale».
Il protocollo Aktion T4 può, a buona ragione, essere considerato un’orribile anticipazione della triste sequela delle operazioni culminate nella cosiddetta “soluzione finale”, e segnatamente quel complesso di azioni consistenti nella selezione dei soggetti malati, nel loro trasporto in strutture apposite, nell’inganno sadico delle docce assassine ed, infine, nell’incinerazione dei poveri resti in forni crematori. Come ricorda Di Santo (Sociologia della disabilità. Teorie, modelli, attori e istituzioni, p. 92), si trattò di un «programma giustificato dall’idea di generare una razza pura senza difetti genetici».
Tuttavia, oltre a questa perversa idea, ve n’era un’altra, meno sottile forse da un punto di vista ideologico, ma sicuramente più pericolosa da un punto di vista politico, e segnatamente «l’idea di razionalizzare le spese statali per cui i disabili erano visti come “parassiti” della società tedesca» (Di Santo, Sociologia della disabilità, p. 92), “zavorre” di cui liberarsi, inutili pesi che rendevano più difficile la missione umanitaria del Reich millenario.
L’interesse genetico appare in tal caso come un ulteriore puntello strumentale, sebbene a posteriori, di una progettualità politica più estesa, la quale ha incrociato incidentalmente i propri passi con i regimi politici dei primi anni ’30 del Novecento.
D’altro canto, investire del valore negativo di ‘indegni’ determinati soggetti sembra secondario, almeno da un punto di vista cronologico, rispetto alla formidabile opera retorica di giustificare scientificamente proprio tale inferiorità, e, dunque, anche la loro eliminabilità. Infatti, a noi che volgiamo il nostro sguardo smaliziato con il senno di poi su queste tristi vicende, tutto appare studiato, organizzato secondo efficienti e freddi criteri, tutto mistificato dall’esterno ma anche riguardo alle vittime finali, imbrogliate sino all’ultimo. Ed è curioso osservare come la giustificazione della soppressione degli inferiori discenda dallo stesso movimento progressista degli anni ’20 che reclamava inoltre la possibilità di una morte dignitosa, l’abrogazione della pena capitale, il diritto all’aborto e una velocizzazione della procedura di divorzio; un pensiero progressista ambivalente (Aly, Zavorre, p. 3).
Il meccanismo di discernimento tra salute e malattia è stato sottile, e perverso. Infatti, non è stata nemmeno la salute in sé stessa che il regime ha ricercato, ma la salute come strumento di affermazione, perpetuazione e celebrazione del regime stesso. In un esaltato Moloch autoreferenziale, il regime ha cercato la propria affermazione nel culto narcisistico di una salute vitale, sognata più che reale. La monotona propaganda del tempo ci restituisce infatti manifesti, locandine, video di prototipi di tedeschi ariani secondo un canone estetico ben al di là degli stessi standard del tedesco del tempo. Eppure, il modello additato è elevatissimo, a prescindere dall’apparente contraddizione pratica tra quest’ultimo e la morfologia dei vari gerarchi nazisti. Anzi, proprio lo scarto tra l’ideale di bellezza/sanità e la concretezza storica sembra suggerire che fosse voluto, magari al fine di ingrossare le file degli indegni, e, dunque, di ripulire la razza del maggior numero possibile di portatori di difetti o di malattie.
Ad essere posta in discussione è l’idea stessa di umanità, la quale diventa, a sua volta, un oggetto a disposizione del potere politico, che può farne uso secondo i suoi capricci. Come scrive, infatti, Wieviorka (Auschwitz spiegato a mia figlia, p. 35), «Hitler proseguì su questa strada ordinando di uccidere i malati di mente, la cui vita, a parer suo, era «indegna di essere vissuta». Un aspetto da non sottovalutare è che non si trattò affatto della medicina a stabilire chi fosse sano e chi malato; fu il potere politico a costruire la categoria di sanità e ad adoperare in chiave strumentale la categoria di ‘sanità’ per i propri fini.
La follia sterminatrice è asservita a questo scopo, del tutto supina rispetto al desiderio narcisistico di perpetuarsi, di disporre degli altri, di de-umanizzare le persone e, sadicamente, giocarvi. La costruzione del ‘nemico’ è stata anch’essa strumentale al senso complessivo di un dispositivo di potere votato alla sopraffazione, all’affermazione dei voleri viscerali del “più forte”, all’espressione dei più bassi istinti, sulla pelle di vite considerate sostanzialmente inutili, di vite indegne di essere vissute.
Nel libello Education for Death vengono narrati i passaggi che educano alla brutalità, alla de-umanizzazione, a diventare carne per i cannoni, ossia docili strumenti nelle mani del potere politico. D’altro canto, è il potere politico che qualifica l’intera realtà, e che, quindi, stabilisce chi o cosa vada bene e chi o cosa, invece, non vada bene. La selezione morale istituisce la rigida separazione tra degnità e indegnità. Quest’ultima, in una ideale scala inversa, precede, e rende a sua volta possibile, la selezione dei sani e dei malati, e, dunque, dei degni e degli indegni. La medicina è apparsa supina rispetto al dispositivo di valore messo in campo dal potere politico.
Prima di includervi gli ebrei, il regime novella, aggiorna, estende a dismisura l’elenco degli indesiderabili. Scrive Luzzato (Postfazione, p. 70), «E se invece, pur detestando gli ebrei, tutto l’edificio del suo antisemitismo non fosse affatto frutto di un vero convincimento ma fosse solo strumentale per riuscire nell’intento di edificare una «razza superiore» attraverso l’instaurazione di un tale stato di terrore da lasciare al cittadino comune solo due alternative: o quella di aderire e sostenere attivamente il regime o quella di esserne una vittima designata? In questo caso era logico cominciare da un gruppo specifico. Dopo avere liquidato gli oppositori politici, si scelsero i pazzi e i deformi, gli omosessuali, gli ebrei». Lungo è l’elenco degli indesiderabili, dei nemici, degli indegni. Ma non concordo con Luzzato, e non solamente per una sottigliezza linguistica di poca importanza. Non si trattava affatto di «pazzi» o «deformi», come sbrigativamente vengono indicate le povere vittime dell’Aktion T4, ma di una categoria complessa e folta di persone disabili, scartate dal potere politico perché inutili pesi per la collettività.
D’altro canto, che senso avrebbe predicare la violenza gratuita senza delle vittime designate sulle quali scaricarla? Ecco, quindi, l’urgenza di trovare delle vittime, ossia degli indegni, degli indesiderabili da avviare ad un ben congegnato dispositivo di progressiva sottrazione dei caratteri umani. In altri termini, l’iter della segregazione rivela questo orribile aspetto dell’operato nazista: le persone prigioniere venivano ridotte a meri oggetti, a bestiame senza nome né lingua, a semplici oggetti di scherno, di divertimento, di depravazione da parte dei loro aguzzini, i sani e forti e, dunque, degni di vivere, uomini del Reich. Il passaggio è importante. Da soggetti diventano inesorabilmente dei corpi vuoti, non più esseri umani, ma oggetti, vale a dire anonimi strumenti di delizia, di piacere, di violenza per tutti gli uomini del Reich. Questo processo, a mio sommesso parere, è ben esemplificato da Marzano (La filosofia del corpo, pp. 80-2) la quale scrive: «Lo scioglimento dei legami familiari avviene in modo brutale. Separarsi senza dirsi addio ferisce i prigionieri e provoca in loro un sentimento di impotenza, di inutilità, di annullamento. Il secondo gesto è ancora più violento: la spersonalizzazione, l’anonimato. Tutti i detenuti sono rasati, a tutti viene fatto indossare lo stesso vestito. Tutti con lo stesso sguardo vuoto. Nessuno possiede più nulla, nessuno ha più un nome […] i deportati vengono ridotti a “cose”, scoprendosi prigionieri di un dispositivo disumanizzante; i loro corpi sono presi in ostaggio dalle loro debolezze e fragilità: la fame, la sete, la stanchezza, la malattia. Le privazioni alimentari, la mancanza di igiene, l’odore dei cadaveri in decomposizione, il fumo dei forni crematori, il freddo, il lavoro forzato … tutto è stato concepito per fiaccare la resistenza e il coraggio […] L’intento delle SS è quello di spingere per gradi i detenuti ad accettare di essere cancellati». La deumanizzazione è in fondo una sorta di corollario del dispositivo burocratico del potere politico nazista, ovvero è un frutto desiderato ma anche, a sua volta, un utile strumento che facilita il lavoro di chi opera attivamente alla catena dello sterminio. Come dichiarato da Eichman al famoso processo, ogni addetto alla lunga e complessa catena dell’industria della morte sopravviveva all’inferno prodotto, vissuto, e subito quotidianamente, costruendosi una sorta di “riserva mentale”, ovvero una deliberata scelta di lavarsi pilatescamente la coscienza. D’altro canto, cosa avevano ancora di umano quei prigionieri? Come si potevano trattare con umanità degli insetti? Dei corpi vuoti?
Ma se questa caccia continentale all’ebreo suscita in tutti noi ribrezzo, cosa possiamo dire allora delle persone disabili sulle quali tutto questo stesso dispositivo è stato sperimentato e provato poco tempo prima?
Nella perversione nazionalsocialista, compito della medicina non è curare i malati, ma rafforzare i sani. Per di più, la sua inversione è macroscopica: non consiste più nel non nuocere, ma nell’arrecare danno, e segnatamente non ricercare il benessere del malato ma la sua celere soppressione. D’altro canto, se il potere politico ha già deciso chi è degno della vita, ne segue automaticamente che la medicina debba asservirsi a questa finalità: facilitare la selezione naturale nel suo fatale e mirabile compito, ovvero eliminare il più debole. Eppure, nella pratica eutanasica tedesca, un affare segreto del Reich ed insieme un affare pubblico, la procedura era così congegnata da consentire a tutti i soggetti coinvolti «la possibilità di sfuggire alla responsabilità individuale» (Aly, Zavorre, p. 14).
Così abbiamo avuto infermiere provette che diligentemente lasciavano morire di inedia neonati indegni oppure che somministravano dosi letali di sonnifero a bambini disabili. Medici riconosciuti, che hanno giurato su Ippocrate, che hanno pervertito la loro missione provocando la morte dei pazienti loro affidati, con il gas, con iniezioni, con farmaci inadatti, con dubbie sperimentazioni. Nella propaganda, queste sono state morti pietose o, al massimo, commoventi ed anticipate dipartite. Nella realtà, è stata la più grande operazione di eutanasia voluta da un potere politico. Proprio loro, i più deboli, i più vulnerabili hanno sperimentato, triste primato, l’abietta concezione nazista della sanità. Anche se, sinceramente, più di qualche dubbio potrebbe essere avanzata riguardo alla natura “dolce” di tali soppressioni.
Se gli storici si arrovellano sulle ragioni storiche di tale ripiegamento culturale, appare chiaro che questa ultima ben si attagli al caso specifico delle persone disabili. Come ricorda Di Santo (Sociologia …, p. 66), la disabilità «presume una restrizione dell’attività e della partecipazione sociale a prescindere dal grado di menomazione che un individuo può vivere anche se è inconfutabile che più si vive uno stato patologico impegnativo più aumenta la possibilità di vedersi inficiare aree della propria vita socio-relazionale, ambientale e personale».
Esploriamo il dolore
Come ricorda ancora Di Santo (Sociologia … p. 94), la disabilità «rappresenta proprio il confine di ciò che è considerato naturale […] e ciò che è culturalmente determinato». Per dirla altrimenti, l’atteggiamento personale nei confronti delle persone disabili è determinato dalla percezione simbolica che possiamo avere in loro presenza. Si tratta di persone sane? Si tratta di persone malate? Sono vere persone? La particolare condizione della disabilità sfida le nostre profonde convinzioni, quelle stesse che, per loro natura, si aggirano nei luoghi di confine della nostra coscienza. La disabilità occupa la terra di mezzo, il limbo infelice del confine tra quanto siamo disposti a riconoscere come “naturale” e quanto, invece, è frutto di negoziazione culturale. Nella retorica nazista, tutto ciò che si trovi fuori da tale confine non è degno di vivere. Essere disabili non è solo una negazione palese delle possibilità di realizzazione personale, ma anche «un lutto» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 39). Il proprio corpo ostacola, impedisce, limita. Ma è attraverso il nostro corpo che calchiamo la stanca scena di questo mondo. Avere un corpo disabile debilita le potenzialità stesse dei soggetti, l’impairment produce così disabilità, vale a dire incapacità a fare, e, quindi, anche, ad essere. Attraverso un corpo meno capace diminuiscono le possibilità da parte del soggetto di fruire della propria libertà personale, e di vivere la propria condizione come una gabbia, una prigione, una cattività inesorabile che scandisce il ridotto tempo a propria disposizione. Ed è così che percepiamo quotidianamente le persone disabili. La disabilità diviene handicap, una condizione medico-sociale che «qualifica totalmente l’individuo, rappresenta subito l’inferiorità del suo portatore e rende possibile l’incontestata superiorità di ogni normale» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 56). Lo sguardo medico veicola la considerazione culturale atta a determinare la condizione disabile nei termini di una degenerazione della salute di alcuni, come una perversione della selezione naturale, come un inutile accanimento terapeutico nei confronti di poveri infelici. A questa stessa considerazione poco importa davvero della persona disabile, così come sapere che v’è una persona dietro l’etichetta ‘disabilità’, quanto, e piuttosto, confermare la propria attesa, vale a dire che «Chi è minorato nel corpo è anche un soggetto minore» (Schianchi 2009, La terza nazione del mondo, p. 56).
L’inquietante sfida della diversità
La vista della disabilità «è una delle dimostrazioni più evidenti di come il nostro modo di guardare le cose sia sempre fortemente influenzato dal significato che esse assumono per noi» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 73). Non v’è oggettività o neutralità nello sguardo, ma, al contrario, quest’ultimo è pregno di ideologia, di convincimenti, di pregiudizi …
Ma è, in fin dei conti, pure normale che ciò accada dal momento che la «vista della disabilità scatena il timore di perdere la propria integrità fisica e tutto ciò che si è costruito attorno a essa» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 74). Il rifiuto, più o meno velato, il disgusto, più o meno celato, la negazione, più o meno esplicita, si nutre di questo, ovvero di un eccesso di difesa che, nei meandri di confine tra il conscio e l’inconscio, tra il lecito e il proibito, tra il razionale e l’irrazionale, determina la risposta del soggetto posto nelle condizioni di percepire nelle sue immediate vicinanze la disabilità. La percezione della disabilità attiva in noi la disgustosa percezione della nostra propria vulnerabilità fisica, e, dunque, attiva l’irriflesso rifiuto di questo triste memento.
Il dispositivo segregante, tristemente velato dietro il nobile intento di curare le persone disabili, possibilmente con il meglio delle tecniche e del personale apposito, funge da valvola di sfogo per un sentimento tanto tragicamente quanto miseramente umano, ovvero il timore, la paura, il disgusto. Aggiunge ancora, e quanto più sagacemente Schianchi (La terza nazione del mondo, p. 76), «Fragilità, vulnerabilità, morte, imprevisto, perdita della propria integrità. La vista della disabilità, l’avere a che fare con le difficoltà che implica, fa scattare un sentimento di paura, di repulsione, il timore di vedere nel portatore di handicap il proprio incerto destino». Sia chiaro, la disabilità non è affatto una metafora della caducità della vita, non è un simbolo della fragilità esistenziale, né tantomeno un segno di quel che noi siamo, ma «ne è un’espressione reale» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 76). La disabilità dimora da sempre la nostra esistenza, accompagna da sempre i nostri passi, connota la nostra vita, caratterizza quel che siamo. Il «corpo disabile ci rimanda inoltre ad alcuni dolorosi aspetti della vita che tentiamo di rimuovere: la malattia, l’anzianità, il deperimento del corpo» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 77).
Indegni perché deboli!
Torniamo ora allo sterminio nazista. In quella folle ideologia si celebrava il culto della possanza fisica. Il suo corollario è stata l’esasperazione simbolica dei meccanismi psicologici di repulsione e paura nei confronti della deviazione dalla “norma”. Questo almeno in teoria perché poi nella pratica il «calcolo costi – benefici costituì sin dall’inizio la base delle soppressioni dei malati» (Aly, Zavorre, p. 35).
E per convincere anche i riottosi, anche i non entusiasti, anche i poco collaborativi, a partecipare a tale culto, si instilla, con le potenti armi della propaganda di massa, il timore, sottile, insidioso, e simbolico, del virus che possa contaminare tutti. Il mantra è «difendere la purezza della razza e per eliminarne tutte le anomalie» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 103). D’altro canto, è innegabile come lo sterminio delle persone disabili sia stata conseguenza del «mito palingenetico dell’uomo nuovo”» (Fedele, I disabili e i totalitarismi, p. 147), in funzione del quale attivare tutti i dispositivi ritenuti necessari al fine di ottenere «il perseguimento di ottimali condizioni fisiche» (Ivi, p. 147).
I vari passaggi della triste storia dell’Aktion T4 sono noti:
1) sterilizzazione delle persone affette da tare genetiche (1933);
2) concentrazione dei nati disabili in strutture sanitarie apposite ove «venivano uccisi con iniezioni letali oppure lasciati morire» (1939) (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 104);
3) soppressione dei soggetti con handicap fisica o mentale, «la cui vita era dunque considerata priva di valore» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 104) (1939);
4) prosecuzione del progetto di sterminio delle persone disabili all’interno del ben più ampio progetto di soluzione finale (riguardo a tutte le categorie razziali e sociali indesiderabili) (1940 – 1945).
Schianchi snocciola così dati terribili:
- a) 400mila sterilizzati;
- b) 5mila bambini soppressi;
- c) 70mila disabili adulti soppressi;
- d) 200mila disabili eliminati.
Per umanizzare l’enormità delle pratiche suddette sarebbe bene sforzarsi di pensare che dietro ogni numero c’erano persone in carne ed ossa, con una storia personale, con una propria identità, con degli affetti …
In ogni caso, però, va tenuto in debito conto come la follia nazista riguardo alle persone disabili affondi le proprie funeree radici in un periodo precedente, e segnatamente all’opera di Hoche e Binding intitolata Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens con la quale i due «proponevano l’eliminazione legale di malati incurabili e idioti, considerati senza mezzi termini, fattore di danno economico per la comunità perché gravanti pesantemente su risorse di bilancio dello Stato che molto più proficuamente avrebbero potuto essere impiegate a migliorare le condizioni dei cittadini “normali”» (Fedele, I disabili e i totalitarismi, p. 148).
In fondo, la semplificazione manichea nazista è sostanzialmente ingenua. Infatti, il furore retorico e propagandistico del verbo nazionalsocialista ha finito con il negare l’unico dato di fatto, ovvero che non si debba essere ingenui. La «disabilità non è un’anomalia piovuta dal cielo, l’handicap non è una strana deviazione da ciò che definiamo ordinario» (Schianchi, La terza nazione del mondo, p. 113). Al contrario, «è un fenomeno tragico, legato ai rischi che comportano l’esistenza biologica e la vita sociale». Ed è a questa coppia simbiotica che dobbiamo ora volgere lo sguardo se desideriamo rendere giustizia alle vittime di ieri.
Ora, è sicuramente vero che la specifica organizzazione che la nostra società si è data enfatizza la debolezza corporale dei soggetti. In questo momento, desidero valermi delle riflessioni in merito condotte da Martha Nussbaum. Le teorie della giustizia sembrano essere mute riguardo alla considerazione del merito della società rispetto al trattamento da riservare alla disabilità. D’altro canto, è pur vero che gli «attori del contratto sociale vengono considerati come se fossero» (Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, p. 35) liberi, eguali e indipendenti. Ne consegue che chi non può, per svariati motivi, fisici, psicologici, morali, economici, prendere parte a tale gruppo di prominenti non potrà contribuire alla decisione in merito ai valori fondamentali di una data società. Ma ciò ha un altro, e nascosto, difetto, ovvero che la futura società stabilita da tali prominenti rispecchierà le capacità, di essere e di fare, di tali costituenti. Abbiamo allora non una società a misura di tutti i suoi ipotetici abitanti, ma solamente una società a misura di pochi, fortunati, forti, ricchi uomini. Non una società giusta, ma una società per pochi. La classica teoria del contratto sociale, infatti, riposa sull’idea fondamentale «dello scambio come un rapporto di scambio improntato al reciproco vantaggio» (Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, p. 40). Ma ciò significa tagliare fuori tutti coloro che non possono offrire qualcosa in cambio della loro accettazione sociale. Il problema è quello di stabilire quali siano le regole sociali fondamentali. Una società basata sul negotium rende difficile la partecipazione attiva e soddisfacente delle persone disabili dal momento che pone in alto, al di sopra di una soglia accettabile, il livello standard per dirsi “umani”. Infatti, «il partenariato previsto è per il mutuo vantaggio delle parti contraenti, le condizioni attinenti alle persone che non rientrano nell’accordo saranno secondarie e non faranno parte della struttura istituzionale nata dal patto in questione» (Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, p. 361). La finzione del patto originario anziché aumentare la possibile platea dei beneficiari dei beni della condivisione diviene strumento di esclusione sociale. Infatti, la «finzione che immagina il cittadino come un soggetto adulto indipendente diventa così una particolare versione della finzione di perfezione […] e diventa, a sua volta, uno strumento tramite il quale coloro che hanno bisogni inconsueti e diversi dalla norma sono considerati come persone dipendenti, che mancano di competenza e via dicendo» (Nussbaum, Nascondere l’umanità, pp. 361-2). D’altro canto, proprio la specifica organizzazione strutturale della nostra società è fonte di esclusione sociale. Infatti, è pensata per un fittizio modello di perfezione, fisica, morale, sociale, economica, psichica. Rendersi conto di ciò significa, da un lato non considerare più scontata, e, quindi, “naturale”, l’evoluzione corrente delle strutture sociale, e, dall’altro, impegnare la società a «(ri)organizzare il funzionamento dell’ambiente sociale, educativo e politico» (Nussbaum, Nascondere l’umanità, p. 357).
Ora se tutto dipende dalla particolare organizzazione strutturale assunta dalla società di appartenenza, si capisce bene come la condizione disabilitante non risieda nel soggetto in quanto tale, ma nella struttura che rende possibile la sua relazione con l’ambiente circostante e con i propri simili. Come si vede, allora, la responsabilità della disabilità non risiede nel soggetto in difficoltà, ma nella organizzazione sociale. Così, una normale condizione di vulnerabilità o fragilità diviene disabilità se la società pone in essere tutta una serie di ostacoli o di fattori invalidanti per i vari soggetti. In questo modo, la società, da luogo di realizzazione delle potenzialità e del progetto di vita dei soggetti, diviene luogo di esclusione, di marginalizzazione, di rigetto. La disabilità, allora, diviene handicap quando «l’ambiente esterno costituisce un ostacolo al raggiungimento di determinati obiettivi» (Artifoni, Le barriere architettoniche e le barriere culturali: il ruolo della legislazione, p. 115). Quel che Nussbaum, allora, indica non è nient’altro che una necessaria rifondazione della struttura sociale finalizzata a rendere la società stessa più inclusiva di quanto non sia tutt’ora. L’inclusione non indica un bisogno di normalizzazione della persona disabile rispetto al suo contesto esistenziale, ma «fornire uno sfondo adeguato per le differenze» (Medeghini, Diritti, comunità ed eco dipendenze, p. 124), uno sfondo comune capace di «corrispondere alle differenze di tutti». In altre parole, la società deve assumere uno standard che valorizzi le differenze di ciascuno e che, quindi, possa includere chiunque nella sua trama relazionale. Altrimenti, ci sarà sempre qualcuno escluso, qualcuno marginale, qualcuno da ghettizzare, da rimuovere, da sopprimere per salvare l’ideale della specialità forte.
Ma non è stata forse la stessa organizzazione moderna ed industriale della società tedesca di inizio XX secolo ad imbracciare con decisione proprio la via di uno standard elevato di funzionamento? Se così è stato, come potevano, dunque, tutti coloro in difficoltà partecipare attivamente alla vita della propria società? E, di converso, come avrebbe potuto la società tedesca “forte” tollerare il rallentamento, l’ostruzionismo, il parassitismo di soggetti non produttivi? La dinamica appare, dunque, del tutto chiara.
Tuttavia, a noi che viviamo nel XXI secolo rimane sempre vivo il monito a non imporci standard organizzativi e produttivi così elevati da tagliare fuori le persone, e segnatamente una “normalità” che totalizzi le singole persone. Altrimenti troverà nuova forza e virulenza l’oscena filosofia dello sterminio degli inutili o degli indegni.
A monito di questo sempre risorgente pericolo, concludo con le parole di Fedele (I disabili e i totalitarismi, p. 155): «La diversità, la disabilità sia fisica che psichica non rientrano in questo progetto palingenetico di società perfetta. Ragion per cui l’emarginazione, l’occultamento, quando non l’eliminazione fisica del disabile, non è un accidente ma qualcosa di assolutamente coessenziale alla logica dei grandi totalitarismi del Novecento. Guai a dimenticarlo».
(il presente contributo riprende e rielabora parte delle idee precedentemente espresse in La filosofia dello sterminio dei disabili)
Bibliografia
Aly, Zavorre. Storia dell’AKtion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista 1939 – 1945, Einaudi, Torino, 2017.
Artifoni, Le barriere architettoniche e le barriere culturali: il ruolo della legislazione, in O. Osio – P. Braibanti, Il diritto ai diritti. Riflessioni e approfondimenti a partire dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 114 – 119.
Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Einaudi, Torino, 2016.
Di Santo, Sociologia della disabilità. Teorie, modelli, attori e istituzioni, Franco Angeli, Milano. 2013.
Fedele, I disabili e i totalitarismi, in M. Gensabella Furnari, Vedere la disabilità. Per una prospettiva umanistica, Rubettino, Soveria Mannelli, 2014, pp. 147 – 155.
Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007.
Luzzato, Postfazione, a: A. Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino, 1999, pp. 67 – 77.
Marzano, La filosofia del corpo, Il Melangolo, Genova, 2010.
Medeghini, Diritti, comunità ed eco dipendenze, in O. Osio – P. Braibanti, Il diritto ai diritti. Riflessioni e approfondimenti a partire dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2012, pp. 123 – 134.
Nussbaum, Bisogni di cura e diritti umani, in M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 27 – 50.
Nussbaum, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, Carocci, Roma, 2005.
Poliakov, Il mito ariano. Saggio sulle origini del nazismo e dei nazionalismi, Editori Riuniti, Roma, 2019.
Schianchi, La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà, Feltrinelli, Milano, 2009.
Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma, 2013.
Shirer, Storia del Terzo Reich, 2 voll., Einaudi Torino, 2014.
Wieviorka, Auschwitz spiegato a mia figlia, Einaudi, Torino, 1999.
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