Le stranezze del fisco italiano

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Tutte le incongruenze, le assurdità e le vere proprie incostituzionalità dei meccanismi tributari: ti segnaliamo i 10 casi più evidenti di imposte e tasse che colpiscono i cittadini in maniera indiscriminata e ingiusta.

Se cerchiamo di ragionare sulle stranezze del fisco italiano, emergono cose molto interessanti e su cui tutti dovrebbero riflettere. Ad alcune di esse siamo così abituati che non ci pensiamo quasi più, ma l’assuefazione quando si parla di tasse è pericolosa perché fa abbassare la guardia sui propri diritti di cittadini, che hanno diritto ad un sistema tributario equo, proporzionato, ragionevole e dunque giusto. Così abbiamo selezionato le 10 stranezze fiscali che sono le più evidenti, assurde e anche penose per chi le deve subire.

Cosa dice la Costituzione sulle tasse?

Partiamo dal punto di riferimento fondamentale, che è la nostra Costituzione. L’articolo 53 dice che : «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva», perciò pagare le tasse è un dovere, ma collegato alla effettiva ricchezza che si possiede. La norma aggiunge che: «Il sistema tributario è informato a criteri di progressività», quindi non tutti devono pagare in eguale misura: chi guadagna di più dovrebbe pagare di più e quindi subire un prelievo fiscale proporzionalmente maggiore.

Ora passiamo ad esaminare le stranezze che si discostano da questi chiari principi.

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Canone Rai

Il canone Rai – che attualmente ammonta a 90 euro l’anno: la riduzione a 70 euro non è stata confermata per il 2025 – si applica a chiunque possiede apparecchi idonei alla ricezione di segnali radiotelevisivi, anche se in concreto non guarda mai la televisione o comunque non usufruisce dei canali pubblici.

Dal 2016 si applica una «presunzione» secondo cui chi ha intestata una fornitura di energia elettrica nell’abitazione dove risiede dovrebbe possedere anche la televisione. Se non è così, bisogna fare una comunicazione all’Agenzia delle Entrate, altrimenti il prelievo del canone avviene direttamente nella bolletta, in 10 rate mensili da gennaio a ottobre di ogni anno. Invece chi ha soltanto un computer, o un semplice smartphone, collegato ad Internet, con il quale può guardare RaiPlay e qualsiasi altro canale in streaming o in differita, non è tenuto a pagare il canone, perché quel dispositivo non è considerato come apparecchio televisivo.

Bollo auto

Devi pagare la tassa automobilistica annuale anche se la macchina non circola ma in teoria potrebbe farlo: questo perché dal 1993 la tassa di circolazione è diventata una «tassa di possesso», e dunque si applica a chi ha veicoli intestati e iscritti a suo nome al PRA, il Pubblico Registro Automobilistico. Insomma, te ne liberi solo se vendi la macchina o la rottami, altrimenti ogni anno sei tenuto al pagamento di questo dazio che ammonta a diverse centinaia di euro, in base alla tariffa decisa dalla tua Regione.

Non solo: se erediti un veicolo dovrai fare un doppio passaggio di proprietà, il primo dal defunto a tutti gli eredi impersonalmente, e il secondo a chi tra coloro diventerà l’intestatario. Quindi in quel triste momento pagherai l’imposta di trascrizione in misura doppia (importo medio 700 euro, la tariffa varia in base alla provincia). Questo sia che tu decida di utilizzare l’auto o la moto, sia che tu voglia venderla o rottamarla (se la vendi, però, puoi far pagare il secondo passaggio all’acquirente).

Tasse sulla casa

Se sei proprietario di una seconda casa devi pagare l’IMU al Comune sia se la tieni a tua disposizione per le vacanze sia se la affitti (e in questo caso dovrai pagare anche l’IRPEF, o la cedolare secca, sui canoni di locazione che percepisci).

Anche la TARI è dovuta, perché considera soltanto l’astratta – e non concreta – capacità dell’immobile di produrre rifiuti, tant’è che si applica pure alle aree scoperte. L’unica differenza è che se dai la casa in affitto la TARI dovrà pagarla l’inquilino, non il proprietario.

Inoltre se fai un contratto di affitto “lungo”, con la classica formula 4+4, non hai diritto a particolari agevolazioni, a parte la cedolare secca al 21% anziché le ordinarie aliquote IRPEF, mentre se lo stipuli a canone concordato, con la durata 3+2, la cedolare secca scende al 10%.

Accise

Nate per finanziare eventi straordinari ed eccezionali, come la guerra in Etiopia del 1936 e la crisi del canale di Suez 20 anni dopo, le famigerate accise (che comprendono sia le imposte di fabbricazione sia quelle di consumo) si sono stabilizzate anche ad emergenza finita, e la situazione si è aggravata perché in essa sono stati inseriti anche eventi calamitosi molto più recenti. Risultato: il prelievo fiscale è aumentato enormemente, al punto che chi va a fare rifornimento di benzina o di gasolio paga molto più di accise che di costo effettivo del carburante e del servizio.

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Lo Stato ama le accise perché è una forma di prelievo molto facile: i produttori o gli importatori dei generi cui esse sono sottoposte (carburanti compreso il gas ad uso domestico, birra e altri prodotti alcolici, tabacchi, energia elettrica, ecc.) sono numericamente pochissimi e dunque è facile controllarli, ma queste grandi imprese spostano il costo sul consumatore finale che ne paga tutte le conseguenze, lasciando i loro margini di guadagno inalterati.

Regime forfettario

Se hai una partita IVA, non puoi beneficiare del regime forfettario (che fino a 85mila euro di ricavi o compensi annui ti consente di pagare l’imposta sostitutiva al 15%, ridotta al 5% nei primi 5 anni di attività) se hai un reddito di lavoro dipendente, o da pensione, superiore a 35mila euro annui, e neppure se occupi dipendenti che ti costano complessivamente più di 20mila euro l’anno: in pratica, con le retribuzioni contrattuali vigenti, non puoi avere più di un lavoratore a tempo pieno, o al massimo due a part-time.

Imposta di bollo

L’imposta di bollo si paga praticamente su tutti i tipi di atti e documenti: contratti registrati (16 euro ogni 4 facciate o comunque 100 righe, per evitare l’evasione di coloro che scrivono stretto), fatture fuori campo IVA e ricevute di pagamenti tra privati (ad esempio, per prestazioni occasionali) superiori a 77,47 euro (si pagano 2 euro fissi), estratti dei conti correnti bancari, compresi quelli delle carte di credito o di debito (l’importo dovuto è di 34,20 euro per le giacenze medie superiori a 5mila euro, e, se sei una società, diventano 100 euro), conti deposito e altri servizi di risparmio e investimento (qui si paga lo 0,2% sul valore del patrimonio, con un minimo fisso di 1 euro se è inferiore a 500 euro).

Attenzione: in questo elenco sono compresi pure tutti i rapporti gestiti in forma digitale e quindi senza alcun documento cartaceo. Non si comprende perché questo antico balzello – nato in era pre-informatica, quando ancora un tributo specifico sugli atti cartacei aveva un senso – debba oggi applicarsi, senza alcuna differenziazione, anche alle scritture elettroniche, che sono totalmente automatizzate e dunque non hanno un vero costo imponibile. Oltretutto i risultati dell’investimento già scontano l’imposta sui capital gain, cioè le plusvalenze: il 12,5% se titoli di Stato ed equiparati, altrimenti il 26% per tutti gli altri prodotti finanziari.

Ma tutto questo non è una novità: certe imposte si trasformano ma non cambiano, e l’esempio più eloquente è il prelievo SIAE sui dispositivi digitali, come i CD e i DVD, che nacque per evitare la pirateria “spalmando” il suo costo su tutti gli utenti, facendogli pagare in anticipo questo strano «diritto di copia privata», ma oggi si applica indiscriminatamente su qualsiasi supporto idoneo alla registrazione di filmati e musica, come gli hard disk e le memorie esterne (pen-drive, chiavette USB, ecc.). Insomma: compri un computer o uno smartphone e paghi subito questa tassa sui diritti d’autore che è incorporata nel prezzo di vendita, anche se non sei un “pirata”.

Deduzioni e detrazioni

Le deduzioni e detrazioni fiscali sono diventate una vera e propria giungla in cui è difficile orientarsi. Ne esistono centinaia e non è chiaro a chi si applicano e quando. Inoltre non puoi usufruirne se il loro ammontare supera la tua capienza fiscale, cioè il tuo debito IRPEF annuale: in pratica, non puoi andare a credito né ottenere il rimborso, neanche se ti spettano.

In questo modo chi ha redditi bassi non può usufruirne e sfruttarle a pieno (ad esempio, chi acquista medicine o fa visite ed esami non potrà scaricare il 19% della spesa se già rientrava nella no-tax area che gli consente di non pagare l’IRPEF). Ma anche chi ha redditi medi viene colpito: un recente studio dimostra che in questa fascia (tra i 30mila e i 50mila euro di reddito annuo) il prelievo fiscale totale supera il 50%, cioè più della metà, mentre paradossalmente chi guadagna di più viene tassato in misura percentuale inferiore.

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Molti importi per spese detraibili non sono stati mai aggiornati dall’epoca di introduzione: basti pensare alle spese veterinarie per gli animali domestici, che milioni di italiani hanno, e sono rimaste ferme a 550 euro (oltretutto con una franchigia di 129,11 euro) da oltre 20 anni. Quindi se spendi 250 euro all’anno dal veterinario per il tuo cane o gatto potrai recuperare soltanto 22,97 euro (la differenza tra la spesa totale e la franchigia, su cui si applica la detrazione al 19%). Invece lo Stato italiano si preoccupa di aggiornare costantemente altri importi che vanno a suo favore, come le sanzioni tributarie e le multe stradali, che vengono agganciate all’indice ISTAT dell’inflazione con un meccanismo pressoché automatico.

Contributo unificato

Il contributo unificato è una sorta di tassa sulla giustizia, da versare obbligatoriamente all’atto di instaurazione di una causa civile, amministrativa ed anche tributaria, con importi crescenti e commisurati al valore della controversia (ma non sempre: ad esempio, per un ricorso contro una qualsiasi multa stradale paghi sempre 43 euro di contributo unificato, più una marca da bollo da 27 euro).

Se non lo paghi non ottieni giustizia, o per meglio dire non puoi più nemmeno iniziare il processo, perché, in base a una recente riforma (già proposta negli scorsi anni, poi abortita e ora di nuovo adottata), non è possibile iscrivere a ruolo la causa – e dunque il giudice non può trattarla – finché non si regolarizza il versamento. Questo ostacolo scoraggia molti cittadini dall’accesso alla giustizia, che ormai dal 2002 (data di introduzione di questo tributo) si basa sul principio: prima paghi e poi (forse) la ottieni.

Acconti IRPEF

Paghi tasse su redditi che non hai ancora incassato e su guadagni presunti ma che in realtà non hai conseguito e che forse non otterrai mai: funziona così, in estrema sintesi, il meccanismo degli acconti IRPEF, che chiede al contribuente di anticipare i versamenti dovuti per l’anno successivo, sulla base di un calcolo grezzo basato sul saldo dell’anno precedente. Così paghi il 40% a giugno e il 60% a novembre.

Il meccanismo era stato ideato per evitare la “maxi-rata” finale, ma non ha affatto migliorato le cose: anzi, il conto è molto salato, come ben sanno i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori, commercianti o artigiani in regime di ditta individuale, ma anche i dipendenti che nel corso dell’anno hanno avuto più di un datore di lavoro (e forse non avranno questa possibilità l’anno successivo). E se poi quei guadagni auspicati non li realizzi? Niente paura: c’è il conguaglio finale che ti consente di recuperare, l’anno dopo, quanto hai pagato in più l’anno prima. Per completezza, ti diciamo che potresti anche evitare il versamento anticipato dell’IRPEF con il metodo degli acconti calcolati su base previsionale, anziché sulla serie storica dei redditi pregressi, ma devi pagare il commercialista.

IVA

Ogni qual volta compri un prodotto o usufruisci di un servizio, salve rare eccezioni paghi l’IVA sul prezzo di acquisto. Questo vale anche per i beni di prima necessità, come il pane, l’acqua minerale e tutti i generi alimentari o gli assorbenti femminili: l’IVA è ridotta (al 4% o al 10%, anziché al 22% che è l’aliquota generale), ma non azzerata. E in tutti i casi l’imposta ricade sempre sul consumatore finale, perché i produttori e i distributori la traslano, inevitabilmente, su di lui. Per loro, invece, l’IVA è, e rimane, fiscalmente neutra.

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Un ulteriore paradosso è che l’IVA si calcola anche sulle accise, in quanto anch’esse rientrano nella sua base imponibile (lo ha stabilito, nel 2006, una direttiva europea): in sostanza, si paga una tassa su un’altra tassa, come è agevole constatare semplicemente controllando la propria bolletta del gas o della luce, dove l’IVA si applica sul totale già comprensivo delle accise. L’ARERA – l’Autorità pubblica di regolazione in materia – lo conferma e dice sul proprio sito che: «L’IVA si applica sull’importo totale della bolletta», quindi accise comprese.

Tutto questo in barba alla capacità reddituale ed alla propensione alla spesa: anzi, l’IVA, con queste aliquote rigide e fisse, che colpiscono tutti allo stesso modo, grava molto di più sui poveri che sui ricchi, tant’è che gli studiosi parlano – a ragione – di imposta regressiva, anziché progressiva come dovrebbe essere in base al dettato costituzionale. Eppure in più di 50 anni dalla sua introduzione – che risale al 1973 – e nonostante nel frattempo sia divenuto un «tributo armonizzato europeo», sul quale decide l’Unione Europea e non più solo l’Italia – non c’è mai stata una vera riforma dell’IVA.

Perché tutto questo accade?

Probabilmente tutte o quasi le stranezze – o vere e proprie storture – che abbiamo esaminato derivano dal fatto i politici italiani non ascoltano le opinioni, pur autorevoli, degli esperti del settore – costituzionalisti, tributaristi, commercialisti, docenti di scienza delle finanze e diritto tributario, ecc. – perché sono troppo preoccupati dal «gettito» fiscale, cioè dall’esigenza di “fare cassa” sempre e comunque, a qualsiasi costo, anche sulla pelle dei contribuenti e in barba ai fondamentali principi giuridici generali. In tutte le epoche, si trova sempre un motivo per giustificare un’eccezione a tali regole, e purtroppo in ambito tributario spesso l’eccezione diventa la regola.



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