La Giustizia e le sovranità pericolose

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L’annuncio di burrasca riempie le Corti d’appello. L’inaugurazione dell’anno giudiziario non è stata forse mai così tanto attesa, affollata. Partecipata. I toni sono accorati più che accesi. Le parole risuonano nitide, pesanti. Eloquenti. La riforma della giustizia, a partire dalla separazione delle carriere, fa discutere e lo farà ancora per molto tempo, presumibilmente ben oltre il varo della legge costituzionale in Parlamento (con le connesse accuse di provvedimento “punitivo” che piovono dalle toghe, avvocati esclusi). La maggioranza approverà il nuovo assetto dell’ordinamento giudiziario, la strada ormai è tracciata. Ma probabilmente non avrà i numeri per evitare il referendum che gli oppositori già invocano. Il percorso è lungo. Intanto i magistrati, la stragrande maggioranza, si fanno sentire nelle relazioni, negli interventi. Nella protesta plateale: che, prima, li spinge a occupare gli spazi con toga nera, coccarda tricolore e Costituzione brandita; poi, ad abbandonare la cerimonia quando a parlare è il rappresentante del ministro. I rapporti istituzionali tra poteri dello Stato messi a dura prova. Ma il confronto si attesta su un buon livello di argomenti. Si salva almeno questo.

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La separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti non è argomento da poco. Ne va dell’esercizio della giurisdizione, del ruolo davvero terzo e imparziale di chi è chiamato a pronunciare sentenze e a valutare azioni, iniziative e richieste del pubblico ministero, nella fase di indagine e poi in dibattimento. Il passaggio dal processo inquisitorio a quello accusatorio ha in questo uno dei principi fondanti: se accusa e difesa non sono su un piano assolutamente identico – in “condizioni di parità”, ricorda la Costituzione – viene meno la stessa idea di giustizia. Il problema, sotto diversi aspetti, esiste. Il punto di attrito c’è. Anche se in molti, dalle parti della Magistratura, sembrano non scorgerlo, sostenendo che i numeri smentiscono i timori: in Italia il 54% delle sentenze è di assoluzione. Ma questo è un altro discorso. È dialettica processuale, la migliore garanzia: regge alla prova dei fatti l’idea di un giudice collega del pm – sebbene diviso per funzioni – e per questo appiattito sulle sue posizioni per rapporti di vicinanza? Tra i casi più recenti ed evidenti, che legittimano almeno il dubbio sulla fondatezza dell’argomento, l’assoluzione del ministro Salvini nel processo Open Arms: per il pm, sei anni di reclusione; per il Tribunale, il “fatto non sussiste”. Ma i giuristi più di tutti sanno quanto, in particolare proprio nel processo penale, la forma “è” sostanza. “Terzo e imparziale” – così come “autonomia e indipendenza” – sono termini usati dalla Costituzione. E non da ora. Per cui, parliamone.

La Politica ha le sue prerogative legittime, da tutelare e difendere, pure a garanzia degli stessi cittadini e delle scelte liberamente fatte (è la democrazia, bellezza). Il corteo di magistrati che volta le spalle al rappresentante del ministro rimanda un’immagine dal forte potere simbolico ed evocativo, ma anche dal notevole impatto sui corretti rapporti istituzionali (quasi quanto la “marcia” dei parlamentari pdl sulle scale del palazzo di Giustizia di Milano, ai tempi dei processi a Berlusconi) e sul giudizio della pubblica opinione, sempre più tiepida dopo l’infatuazione per i furori (e gli ingiustificabili eccessi) di Tangentopoli. Giovano, alla causa, manifestazioni a tinte forti? Le criticità ci sono. Nessuno le nasconde. Le degenerazioni del sistema correntizio interno alla Magistratura, deflagrate in modo clamoroso in tempi recenti, hanno reso evidenti le incrostazioni e le perversioni. Ma ha senso proporre una composizione del Csm (o dei due Csm, in caso di carriere separate) per sorteggio e non per elezione? L’organo di autogoverno delle toghe – costituzionalmente previsto e garantito – affidato al caso e, sotto il profilo dello spessore e delle competenze dei singoli membri, alla buona sorte. Un’idea brillante? Anche qui: parliamone.

Il problema di fondo riguarda tutti, nessuno escluso. Da oltre trent’anni Politica e Magistratura giocano una complessa partita per la ridefinizione degli ambiti di intervento e la tutela dei rispettivi spazi di autonomia e indipendenza. Il problema è culturale perché le compromissioni ci sono state. E sono state notevoli, perniciose e pesanti. Il procuratore generale di Bari Leonardo Leone De Castris chiede un time out: “Finché la riforma non è legge, permetteteci di discuterne. Dopo ci genufletteremo”. Il giudizio è pesante: “Intento punitivo”, rimarca spiegando perché. Ma le parole sono felpate quando parla di “rispetto delle regole”, “educazione istituzionale”, “tragitto culturale”. E quando fa intravedere sullo sfondo la principale insidia, il conflitto implicito che a molti (magistrati inclusi) sembra sfuggire: la duplice sovranità, quella democratico-elettiva e quella “concorsuale”. 

Si dovrebbe ripartire da qui, anche perché l’analisi è trasversale ed evita qualsiasi irreggimentazione, al di là del momento contingente e delle maggioranze di governo. E il primo dato da cui prendere le mosse è che i processi durano troppo, le fattispecie di reato si moltiplicano, le pene si inaspriscono, i tentativi di innovazione tecnologica (ma anche logistica) stentano. Così alla fine tutto si risolve in un “panpenalismo” esacerbato e a tratti inconcludente se non negli effetti deleteri che produce. Per cui, forse, per recuperare la serenità necessaria al dibattito, la prima netta separazione da sancire sarebbe quella tra l’accertamento giudiziario dei fatti in odor di illecito (sempre che rimanga qualche strumento a disposizione) e la gogna pubblica – e anche mediatica – delle persone sottoposte a indagini. Tra l’inchiesta e lo sputtanamento, per dirla meglio. Una sorta di impazzimento collettivo che annebbia la ragione. Complicando tutto. Anche la presunzione di innocenza è ben stampigliata in Costituzione. Ma ognuno ricorda solo gli articoli che predilige. Quelli che più gli fanno comodo.
 

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