La bancarotta nasce sempre a sinistra

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Il centrosinistra in questi ultimi due giorni ha accusato il governo di agire con «logiche opache» (Antonio Misiani, Pd) ipotizzando, cioè, un potenziale conflitto di interessi o, quantomeno, un indirizzo del Mef nei confronti dell’Ops. Peggio ancora i Cinque stelle che hanno parlato di «Far West», di fatto affermando l’illegittimità dell’operazione.

Ma, per restare al solo Partito democratico, non si può non ricordare come gli eredi del Pci non siano estranei al mondo della finanza e come i contribuenti siano dovuti intervenire anche in vicende attinenti la loro sfera di influenza. Paradossalmente, è proprio il caso di Siena. Il Monte dei Paschi è la banca di un territorio storicamente governato dalla sinistra e in cui la politica attraverso la sua ex controllante, la Fondazione Mps, aveva voce in capitolo sulle strategie. Se il Monte è andato in crisi, è anche perché ha prima inglobato la Banca del Salento (istituto vicino a un ex segretario Pds e poi premier con collegio elettorale a Gallipoli) e poi Banca Antonveneta (valore 6 miliardi ma comprata a 9), quest’ultima per evitare di diventare preda nell’ondata di consolidamenti del 2006-2007 e consentire al sistema-Siena di sopravvivere immutato nel tempo.

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Per finanziare l’operazione sia Rocca Salimbeni che la Fondazione dovettero indebitarsi, mettendo in piedi operazioni finanziarie che divennero insostenibili in un momento – la crisi finanziaria post 2011 – in cui le perdite su crediti fioccavano. A quel punto le operazioni in derivati messe su dal Monte (per avere liquidità iniziale da distribuire sotto forma di dividendo all’azionista di maggioranza in ambasce) divennero insostenibili Ecco, l’ex patron della banca, Giuseppe Mussari (in foto), responsabile di tutte queste architetture, ai Ds non era proprio sconosciuto. Ma questa è un’altra storia. Quello che conta è che gli interventi pubblici per evitare la liquidazione sono costati una decina di miliardi tra aumenti di capitale (oltre 7 miliardi) e gestione degli oltre 8 miliardi di sofferenze e incagli in capo ad Amco (100% Mef).

Un discorso non molto differente può essere effettuato per le quattro banche risolte a fine 2015. In quel caso lo Stato non ha versato nulla perché a perderci 3,6 miliardi sono stati azionisti e obbligazionisti (oltre al sistema bancario con il Fondo di risoluzione) ma si trattava di quattro istituti – BancaEtruria, BancaMarche, CariFerrara e CariChieti – che insistevano su territori spesso se non esclusivamente governati dal centrosinistra. Al tempo destò scandalo che il padre dell’ex ministro Maria Elena Boschi fosse vicepresidente di Etruria, ma si trattava di una popolare, una banca legata al territorio messa in ginocchio dalla congiuntura negativa per l’economia della zona (oro, tessuti e pelletteria). Un caso sfortunato anche se il Pd, a leggere le cronache dell’epoca, non era del tutto estraneo alla ricerca del cavaliere bianco che consentisse all’istituto aretino di restare in piedi.

Mentre è più emblematico il caso marchigiano con una banca andata in difficoltà per le operazioni immobiliari e per i prestiti compiacenti a un sistema locale fatto di relazioni con le Fondazioni azioniste (Pesaro, Macerata, Jesi e Fano). L’ispezione di Bankitalia del 2011 si concluse con la segnalazione di uno «scadimento della qualità del portafoglio» e di una «rilevante esposizione ai rischi creditizi e finanziari». Quasi tutti legati alla gestione dell’ex dg Massimo Bianconi. Oltre ai rapporti un po’ troppo stretti con l’area di riferimento (la crisi falcidiò il locale distretto della cucina e dell’elettrodomestico) e con i notabili di riferimento, il colpo di grazia fu inferto dalle superflue operazioni immobiliari.

Un caso analogo è quello di Carige, l’istituto genovese collassato nel 2018. Eppure nel 2005 era stata al fianco di Unipol, la compagnia delle Coop, e dei suoi alleati nella scalata alla Bnl. Ma nel capoluogo ligure, ai tempi ancora feudo dem, il credito era spesso una questione di conoscenze. Lo Stato in questo caso mise a disposizione 1,3 miliardi di garanzie su bond (oltre agli acquisti di Npl con il veicolo pubblico) perché la banca fu salvata dal Fondo interbancario di tutela dei depositi e poi acquisita da Bper.

Un altro miliardo circa è volato via nel 2019 per mettere in sicurezza la Banca Popolare di Bari che però era in crisi già da alcuni anni. È superfluo domandarvi da chi sia governato il capoluogo pugliese e l’intera regione da oltre vent’anni. Ebbene sì, da quel partito che ha il ramo d’ulivo nel simbolo.



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