Trieste Film Festival, corpi sfuggenti e temerari

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Come un terminal. O parcheggio scambiatore, in Lettonia, o in un altrove disperso, sotterraneo, rimosso. Dove però uno sguardo, una macchina da presa, con piccole e discrete panoramiche, disvela spiazzi vuoti e visi sospesi, sperduti nei pensieri, autobus e rotaie del tram che sfilano dall’inquadratura, epifanie di una vegetazione urbana dimenticata, apoteosi dei non luoghi e tempi in apparenza morti, compressi, tra arrivi partenze ritardi, andirivieni – una donna attraversa uno slargo sotto la pioggia, alzandosi il cappotto sulla testa.

È una danza in bianco e nero: apparizioni fughe permanenza non permanenza e ancora e ancora – come accorgersi degli altri, e di sé, senza sollevare gli occhi dal telefono – è Termini (Gala Punkti), di Laila Pakalnina, ma si può immaginare così anche il Trieste Film Festival, terminal che fa schiudere alla luce – insieme a questa quindicesima opera della regista lettone – il transito del cinema più illuminante dell’Europa centro orientale: sempre con la direzione di Nicoletta Romeo.

Tra le opere selezionate, in Slow di Marija Kavtaradze (Lungometraggi Fuori Concorso), risiede una forza temeraria e fisica, accogliente e umana nell’approssimarsi a un passo dal nucleo più intimo di una relazione.

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Lituania oggi: Elena e Dovydas si imbattono una nell’altro a causa delle rispettive professioni ma soprattutto della loro ricerca esistenziale attraverso il corpo. C’è un gruppo di adolescenti sordi che ha bisogno di loro: vogliono imparare a danzare e Elena è un’insegnante; cercano qualcuno che traduca le sue parole, e Dovydas lavora come interprete della Lingua dei Segni.

Così, in quel primo incontro non ci sono schermi né mediazioni, non ci sono parole digitate, ma occhi che possono guardarsi negli occhi, gesti che è possibile toccare, movimenti che si irradiano dall’uno all’altra, stormi di segnali non verbali.

Quello che avviene dopo cambia a seconda delle parole con cui si narra questa storia, a cominciare dall’incipit: primo piano volutamente sfocato di una donna, Elena (Greta Grineviciute), durante un rapporto sessuale con un uomo, si saprà da poco incontrato, che le chiede di dirgli ti amo come condizione del suo piacere: lei, prima interdetta straniata, pronuncia quelle parole.

Elena cerca abitualmente queste frequentazioni, forse un deflagrare di energie che risponda alla sua carica immane di quando danza, forse una forma di approccio al mondo e a sé, alla minuscola croce che si è fatta tatuare da quando la sua amica più cara ha scelto la via del monastero. O forse nessuna di queste ragioni. Con Dovydas avverte però un’aura differente, il desiderio di fare cose insieme di ascoltarsi di conoscersi, di quella lentezza del titolo, di delicatezza e attenzione. Poi vorrebbe anche quella compenetrazione che però non può accadere. E qui bisogna necessariamente entrare nel principale snodo drammaturgico del film, che comunque arriva quasi subito, perché lui vuole dirsi già dai primi incontri senza fraintendimenti e le parla della sua asessualità, del non essersi mai sentito attratto. – Perché? – Non lo so, è così.

E la regia sta con loro, coi loro visi – vicinissima, corporea accogliente viva – inquadrature come paesaggi disarmati di sguardi e di pelle, di mani, di gambe, di nuche che cercano vie per parlarsi, che si mettono in ascolto dei reciproci silenzi, che a volte sentono i territori dell’altro dell’altra come non attraversabili, troppo ardui e lontani, e vorrebbero far saltare tutto o forse ricercare una forma dello stare insieme libera di crearsi fuori da schemi e configurazioni obbligate.

In tutto questo, Greta Grineviciute è una fonte generosissima nel dare voce e corpo a Elena, mentre Pijus Ganusauskas (Dovydas), risponde con sensibilità e luminosità, come quando, guardando in macchina «racconta» le canzoni d’amore nella Lingua dei Segni del suo Paese, «cantando» «ho piantato un seme nel tuo nome»…

In When the phone rang di Iva Radivojevi (sezione Wild Roses) in Serbia, arriva dal passato, dal 1992, una telefonata a una bambina undicenne, e un orologio sul muro resta fermo sulle 10.36 e la guerra non c’è mai nelle immagini ma incombe tanto più nel fuori campo e in ogni gesto di lei mentre vede un film in vhs, mentre ascolta una musicassetta, o canta al telefono a un’amica prima di lasciare la sua casa e ogni cosa…
Con Anime Galleggianti di Maria Giménez Cavallo (sezione Premio Corso Salani), si esce invece fuori dal tempo, nella purezza dei cieli delle acque e degli spazi come potevano essere, o come adesso potremmo sognarli, nell’universo primigenio della mitologia greca – liberamente ricreati studiando Le Metamorfosi di Ovidio.

I luoghi sono quelli della Sardegna apparentemente arcaica, del congiungimento assoluto tra umani e natura, i volti sono paesaggi di quella terra, dove puoi sentire rintoccare echi di Pasolini, Cecilia Mangini, Serena Nono, ed è lì che i miti sono trasmutati in corpo visione e cinema.

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Con una sensibilità emotiva e visionaria femminista, l’immagine sa farsi corpo di Proserpina e canto di dolore abissale e spaventoso di Demetra, trauma di Callisto, trauma di Europa, telaio di Aracne – che tessendo denuncia Giove, violentatore seriale – vagina di Dafne, su cui Apollo continua a infierire anche dopo che lei, per sottrarsi alla violenza del dio, si è tramutata in pianta. E ancora Orfeo e Euridice, i riti del Carnevale, Bacco e le Baccanti…

Liquidi sono i confini tra umano, animale e divino, sottolinea dal profondo di un universo che non c’è più, la voce over: le anime galleggianti aspettano di incarnarsi ancora, in una continua metamorfosi che è fuoco e scintille acqua che scroscia dalle rocce e suoni ancestrali di cornamusa e flauto di pietre suonate come vibrafoni.

Ma il finale parla alla Sardegna violata di oggi, alle sue lotte per sfuggire alle continue aggressioni al territorio e al lavoro e la Parca, che ha seguito ogni storia e tagliato il filo delle vite, non teme di togliersi la maschera di morte e guardare dritto negli occhi chi guarda.



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