L’ordinamento penale giapponese di “giustizia degli ostaggi”: una panoramica tra abusi e diritti rifiutati
Un sistema basato su negazione della cauzione, confessioni estorte e mancanza di accesso agli avvocati
Per certi aspetti, il Giappone è un Paese piuttosto clemente.
Ha un basso tasso di criminalità e il numero di cittadini detenuti è di gran lunga inferiore rispetto ad altri paesi occidentali: 33 persone ogni centomila contro le 541 negli Stati Uniti, le 140 nel Regno Unito e le 105 in Italia.
Gli autori di reati minori che ammettono la loro colpa e si scusano sono spesso rilasciati subendo soltanto un severo ammonimento.
Ma quando i pubblici ministeri decidono di perseguire qualcuno, hanno poteri straordinari.
A differenza di quanto accade in altri paesi occidentali, qui i giudici fanno molto più affidamento sulle confessioni che sulle prove: nove condanne su dieci in Giappone si basano ancora sull’ammissione di colpevolezza del sospettato.
In assenza d’incriminazione, i pubblici ministeri possono trattenere in carcere i sospettati fino a 20 giorni.
Già si tratta di un periodo molto più lungo rispetto ad altri paesi democratici.
E spesso allo scadere dei 20 giorni i sospettati sono arrestati di nuovo con accuse diverse.
Nel 2022 erano detenute prima del processo quasi 90mila persone (ovvero il 96 per cento dei sospettati).
Le condizioni di detenzione
Le condizioni sono dure. Le celle sono pulite ma minuscole: di solito misurano circa cinque metri quadrati e non hanno luce naturale.
I detenuti sono chiamati per numero, possono fare esercizio fisico solo per circa trenta minuti alla settimana e sono costantemente sorvegliati dai poliziotti penitenziari.
I detenuti sono sottoposti a lunghi interrogatori, che in Giappone durano in media 22 ore rispetto alle due ore negli Stati Uniti e ai 30 minuti nel Regno Unito.
A differenza della maggior parte degli altri paesi, gli avvocati non possono assistere agli interrogatori e il diritto costituzionale di rimanere in silenzio è spesso negato.
Alcuni casi eclatanti
La famiglia Nakamura ha perso ogni fiducia nel sistema legale giapponese.
Nakamura, stimato contabile fiscale senior, soffriva di cancro al pancreas quando fu arrestato nell’ottobre 2016 con l’accusa di frode. Nonostante il suo avvocato avesse presentato numerose richieste di libertà su cauzione, corredate da prove mediche che attestavano la diffusione del tumore ai polmoni e i gravi problemi di salute come pressione sanguigna e glicemia bassa, la corte respinse ben sette richieste. Solo nel marzo 2017 Nakamura venne rilasciato, ma nel frattempo fu dichiarato colpevole in primo grado e in appello. Nakamura morì nel maggio 2019 in attesa dell’esito del secondo appello.
La famiglia accusa le autorità carcerarie di aver contribuito alla sua morte per la prolungata detenzione e la mancata assistenza sanitaria adeguata.
Un altro caso emblematico è quello di Tomo A., arrestato nell’agosto 2017 con l’accusa di aver causato la morte del suo bambino di un mese e mezzo.
Le prove mediche iniziali erano insufficienti per dimostrare che lo scuotimento avesse causato il decesso.
Dopo circa dieci mesi di indagini, Tomo A. fu arrestato e sottoposto a pressioni affinché confessasse, con la minaccia che anche la moglie sarebbe stata perseguita penalmente.
Rimasto fermo nella sua innocenza, Tomo A. fu assolto nel novembre 2018 e nuovamente assolto in appello nel marzo 2020.
Nel 2020 il presidente della Ōkawara Kakōki, una piccola azienda di macchinari a Yokohama, è stato arrestato insieme a due suoi dirigenti. Secondo le accuse, l’azienda stava inviando in Cina equipaggiamenti che sarebbero stati trasformati in armi biologiche. I tre sono rimasti in carcere per undici mesi.
I giudici hanno respinto la loro richiesta di rilascio su cauzione per cinque volte.
Gli inquirenti insistevano affinché ammettessero il reato per essere rimessi in libertà, ma loro hanno rifiutato.
Quando finalmente è stato accordato il rilascio su cauzione, uno di loro era morto di cancro allo stomaco senza avere avuto accesso alle cure. E alla fine tutti e tre sono risultati innocenti.
Insomma, il sistema giuridico giapponese, sebbene considerato a livello internazionale efficiente e imparziale, presenta gravi lacune nei diritti degli imputati.
Questa realtà ha portato gli oppositori a definirlo “sistema di giustizia degli ostaggi” (hitojichi-shiho), in riferimento alle prolungate e arbitrarie detenzioni preventive utilizzate per estorcere confessioni.
Il problema “enzai”
Il fenomeno delle false accuse, noto in Giappone come “enzai”, descrive situazioni in cui individui innocenti vengono trattati come criminali.
La narrazione di chi ha tentato invano di dimostrare la propria innocenza evidenzia un sistema giudiziario opprimente, capace di distruggere vite, carriere e famiglie, senza possibilità di recuperare il tempo perso.
La negazione della scarcerazione su cauzione
Una delle principali criticità è il diniego sistematico della libertà su cauzione.
Il Codice di procedura penale giapponese permette la detenzione fino a 23 giorni prima dell’incriminazione, estendibili con decisione del tribunale.
Tuttavia, anche dopo l’incriminazione, chi non confessa o contesta le accuse trova enormi ostacoli nell’ottenere la cauzione. I giudici, spesso, giustificano il diniego con il rischio di “distruzione delle prove”.
Molti ex detenuti e avvocati riferiscono che il diniego della cauzione viene usato per esercitare pressione psicologica, inducendo gli imputati a confessare.
Yusuke Doi, musicista, è rimasto in carcere per 10 mesi con l’accusa di furto di 10.000 yen, nonostante la sua innocenza sia stata poi riconosciuta. La sua carriera musicale ne ha subito danni irreparabili.
Arresti multipli per impedire la cauzione
Una pratica diffusa è quella di suddividere le accuse per prolungare la detenzione preventiva.
I pubblici ministeri, infatti, procedono con arresti successivi per aggirare il limite legale di 23 giorni.
Questo metodo consente di mantenere gli imputati in stato di detenzione, esercitando ulteriori pressioni per ottenere confessioni.
Interrogatori abusivi
Sebbene gli abusi fisici siano diminuiti, permangono intimidazioni, minacce e privazioni del sonno durante gli interrogatori.
La Costituzione giapponese vieta la coercizione per ottenere confessioni, ma nella pratica questi diritti vengono spesso ignorati.
La mancanza di supervisione durante gli interrogatori facilita tali abusi.
Divieto di comunicazione con i familiari
I tribunali possono imporre divieti di contatto che isolano completamente i detenuti dai familiari.
Questo provvedimento viene applicato di routine, causando gravi disagi psicologici.
Un esempio è il caso di Kayo N., rimasta in isolamento per oltre un anno con il divieto di comunicare persino con i propri figli.
Ruolo predominante dei pubblici ministeri
In Giappone, i pubblici ministeri godono di un potere enorme, con un tasso di condanne del 99,8%. Le richieste di detenzione sono quasi sempre accolte dai giudici, e vi è poca trasparenza nel processo di indagine. Le riforme introdotte sono state insufficienti a garantire una reale tutela dei diritti degli imputati.
Sistema di detenzione sostitutiva
Il “daiyo kangoku”, o sistema di detenzione sostitutiva, consente di trattenere i sospettati nelle stazioni di polizia anziché in strutture dedicate. Questo sistema, criticato dalle Nazioni Unite, aumenta il rischio di abusi e pressioni durante gli interrogatori.
Assistenza sanitaria carente
Le strutture detentive giapponesi soffrono di una grave carenza di personale medico.
I detenuti non ricevono cure adeguate, in violazione degli standard internazionali e delle Norme ONU per il trattamento dei prigionieri.
Riforme insufficienti e critiche internazionali
Nonostante alcuni tentativi di riforma, il sistema giapponese resta profondamente problematico.
Le Nazioni Unite hanno più volte sollecitato il Giappone a migliorare le condizioni detentive e a garantire i diritti fondamentali degli imputati, ma le risposte del governo sono state evasive e poco incisive.
E pur tuttavia, il sistema di giustizia penale giapponese necessita di riforme sostanziali per allinearsi agli standard internazionali e tutelare efficacemente i diritti umani.
Giovanni Battista de Blasis
(fonte: Takeshi Miyatuka per Human Rights Watch)
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